Si sono incontrati ad Abu Dhabi lo scorso 2 maggio, dove avrebbero discusso di alcune questioni importanti per il futuro della Libia: da una parte il generale Khalifa Haftar, capo dell’Esercito nazionale libico e uomo forte di Tobruk, dall’altra Fayez al-Serraj, premier del governo di accordo nazionale riconosciuto dall’Onu.
Dopo una serie di mediazioni fallite, spesso a causa dell’atteggiamento poco collaborativo del generale, questa volta gli sponsor di Haftar - Emirati Arabi Uniti, Egitto e Russia su tutti - sembrano aver ricondotto il figliol prodigo a più miti consigli. L’evento è stato accolto con un certo ottimismo dalle cancellerie internazionali, tuttavia è bene non farsi troppe illusioni: “l’intesa di massima” discussa nella capitale degli Emirati presenta molte criticità sia per l’assetto istituzionale che potrebbe generare sia in termini di concreta applicabilità.
Tobruk e il modello al-Sisi Partiamo dal primo punto. Premesso che i dettagli sono ancora poco chiari, la proposta politica che sarebbe scaturita dall’incontro è decisamente sbilanciata verso Tobruk, il che non dovrebbe stupirci visto che è stata mediata dai suoi alleati.
In sintesi: elezioni entro marzo 2018, scioglimento delle milizie locali, formazione di un nuovo Consiglio presidenziale non più composto da nove membri ma da Serraj, Haftar e dal presidente del Parlamento di Tobruk Aghila Saleh, fedele al generale, e, forse, un comando delle Forze armate maggiormente svincolato dal controllo del governo civile, come invece imposto dagli accordi di Skhirat del 2015.
Detta in altri termini,il generale della Cirenaica in un colpo solo potrebbe avere l’istituzione più importante del Paese dalla sua parte, con Serraj in minoranza, un ruolo militare di primo piano e la possibilità di presentarsi alle elezioni, magari vincendole in assenza di una valida alternativa.
Le conseguenze di un tale scenario non sono difficili da prevedere: una deriva verso un modello militare sullo “stile al-Sisi”. Un’ipotesi destinata a rivitalizzare il fronte islamista e portare il Paese verso una deriva securitaria, così come accaduto in Egitto. A livello internazionale, la Russia, forte del paventato disimpegno americano in Libia, avrebbe “chiuso il cerchio”, con una rafforzata partnership tra Tripoli e il Cairo utile alla sua proiezione strategica nell’area.
Milizie e lotta al terrorismo Se questo è il quadro teorico che emerge dalle frammentate informazioni trapelate sui media locali, all’atto pratico i punti del possibile accordo presentano non poche criticità in termini di fattibilità. In primo luogo, si è parlato della necessità di sciogliere i gruppi armati e di integrarli in un unico esercito sotto il controllo di Haftar.
Il tema del disarmo delle milizie è la spina nel fianco della Libia fin dal 2011 quando, dopo la morte di Gheddafi, i miliziani raccolti sotto il Consiglio nazionale di transizione si sono rifiutati di consegnare le armi e di integrarsi in un esercito regolare, alimentando tendenze centrifughe, impegnate a creare entità autonome basate su rivendicazioni territoriali o di risorse. Difficile credere che possano decidere, senza colpo ferire, di cedere le armi. L’ipotesi più plausibile è quella di una recrudescenza degli scontri tra diverse fazioni del territorio.
In secondo luogo, va considerato il possibile orientamento delle formazioni islamiste, soprattutto nella zona di Tripoli, controllata parzialmente e a fatica da Serraj. Giova fare un passo indietro. Haftar si è accreditato nel panorama libico post-rivolte nel 2014, lanciando l’operazione dignità contro le forze islamiste. Da allora si è auto-proclamato baluardo della lotta al terrorismo, legittimandosi in chiave anti-jihadista, senza alcun discrimine tra le forze moderate e i gruppi dichiaratamente radicali.
Un atteggiamento che gli è valso un palmarès di alleati e sponsor di primo piano da al-Sisi a Putin, ma anche molti detrattori sia a livello locale che regionale. È facile prevedere che, soprattutto in Tripolitania, diversi gruppi non accetteranno un ruolo di primo piano per il nemico giurato. Tra questi, le numerose milizie di Misurata, una sorta di “terzo potere” in Libia, fin qui parzialmente fedeli al premier di Tripoli ma che mal digerirebbero un suo possibile cedimento. Alcuni gruppi misuratini hanno già abbandonato Serraj e altri ancora potrebbero farlo, rendendo così ancora più isolato il premier del governo di accordo nazionale.
Difficile credere che il debole premier tripolino, davanti a un tale scenario, possa acconsentire alle richieste dei mediatori di Abu Dhabi.I problemi non mancherebbero neppure a livello regionale:Turchia e Qatar, che sostengono da sempre gli islamisti di Tripoli,non resteranno in silenzio davanti alla deriva del Paese verso gli avversari regionali.
Ribilanciare la mediazione con Tripoli Il quadro sembra davvero a tinte fosche e la stabilità della Libia ancora lontana. Forse, per evitare un nuovo ginepraio, sarebbe utile riprendere in mano gli strumenti della diplomazia e ribilanciare i termini della mediazione, oggi completamente appannaggio degli sponsor di Tobruk.
Un maggior coinvolgimento - e una maggiore convinzione - di alcuni attori regionali, come Algeria e Tunisia, potrebbe essere un buon inizio. Tuttavia, senza un’azione più incisiva e coesa degli Stati europei, al momento più interessati alla realpolitik che all’agire comune, poco potrà essere fatto. In un contesto così delineato, l’Italia, fin qui vicina a Tripoli, potrebbe ancora aspirare a un ruolo di mediatore per la stabilizzazione della Libia.
Michela Mercuri insegna Storia contemporanea dei paesi mediterranei all’Università di Macerata ed è editorialista per alcune testate nazionali, tra cui Huffington post, sui temi della storia e della geopolitica del Medio Oriente e del Nord Africa.
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