.

Cerca nel blog

Per la traduzione in una lingua diversa dall'Italiano.For translation into a language other than.

Il presente blog è scritto in Italiano, lingua base. Chi desiderasse tradurre in un altra lingua, può avvalersi della opportunità della funzione di "Traduzione", che è riporta nella pagina in fondo al presente blog.

This blog is written in Italian, a language base. Those who wish to translate into another language, may use the opportunity of the function of "Translation", which is reported in the pages.


Powered By Blogger

Metodo di Ricerca ed analisi adottato


Il medoto di ricerca ed analisi adottato è riportato suwww.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com

Vds. post in data 30 dicembre 2009 seguento il percorso:
Nota 1 - L'approccio concettuale alla ricerca. Il metodo adottato
Nota 2 - La parametrazione delle Capacità dello Stato
Nota 3 - Il Rapporto tra i fattori di squilibrio e le capacità delloStato
Nota 4 - Il Metodo di calcolo adottato

Per gli altri continenti si rifà riferimento al medesimo blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com per la spiegazione del metodo di ricerca.

venerdì 27 novembre 2015

Gibuti: la prima base cinese all'estero


La ristrutturazione militare cinese passa da Gibuti 
Elvio Rotondo
01/12/2015
 più piccolopiù grande
Rivoluzione militare in Cina. Pechino apre per la prima volta nella storia una base militare all’estero e mette in moto un cambiamento strategico radicale che segnala una nuova fase della proiezione militare cinese nel mondo.

L’obiettivo è quello di trasformare l’esercito in una struttura “più ampia, più integrata, multifunzionale e flessibile”. Per farlo, crescerà anche il bilancio della difesa cinese, che è destinato ad aumentare di un ulteriore 10% rispetto allo scorso anno, raggiungendo circa 145 miliardi di dollari. Secondo molti analisti stranieri la percentuale potrebbe essere anche più elevata.

Prima base militare cinese all’estero 
La prima base militare cinese all’estero aprirà a Gibuti, paese piccolo ma strategico per la sua posizione a guardia del Corno d’Africa. Piccolo Stato situato all'imbocco dello stretto di Babel Mandeb tra il Mar Rosso e l'Oceano Indiano e punto strategico del Corno d'Africa, Gibuti è sempre stato visto con interesse dalla Cina, che sarebbe riuscita, siglando un accordo della durata di 10 anni, nell’intento di installarvi una “base” di supporto logistico.

La Marina militare cinese, nell’ambito delle operazioni anti-pirateria, utilizza già da tempo il porto di Gibuti, come un punto d'appoggio per gli approvvigionamenti.

La “base”, concepita come una struttura di sostegno logistico, sarà destinata principalmente alla fornitura di servizi, oltre al fatto che sarebbe il primo avamposto militare cinese all'estero, fatto sicuramente non trascurabile.

Gibuti,oltre a essere una rara oasi di stabilità nel Corno d'Africa, è indubbiamente un punto strategicamente importante da cui partire per proteggere le importazioni di petrolio dal Medio Oriente che attraversano l'Oceano Indiano verso la Cina.

La tela cinese in Africa
A tale scopo, la Cina conduce pattugliamenti anti-pirateria dal 2008, con un totale di 21 flotte di scorta, più di 60 navi, per effettuare missioni nel Golfo di Aden e al largo della Somalia facendo affidamento, finora, su porti stranieri per il rifornimento.

Il portavoce del Ministero degli Esteri cinese, Hong Lei, ha dichiarato che "la costruzione delle strutture aiuterebbe ulteriormente la marina militare cinese e l'esercito nella partecipazione alle operazioni di mantenimento della pace delle Nazioni Unite, nelle missioni di scorta nelle acque vicino alla Somalia e al Golfo di Aden, e nell’assistenza umanitaria".

La Cina vuole infatti avere un ruolo maggiore nel garantire la pace e la stabilità regionale e gli accordi nell’interesse di entrambi i paesi.

La struttura, oltre a servire da hub logistico, consentirà ai cinesi di "estendere la loro portata". Una base cinese nel Corno d’Africa aumenterebbe la presenza della Cina nel continente africano, dove ha già una presenza militare permanente di circa 2mila truppe, schierate in missioni di mantenimento della pace delle Nazioni Unite.

In futuro potrebbero essercene molti di più. Dalla tribuna dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite il presidente cinese Xi Jinping ha parlato di una Cina disposta ad aderire al nuovo sistema per la preparazione delle operazioni di pace delle Nazioni Unite, annunciando che opererà un contingente permanente di forze di polizia e riservisti formato da 8mila uomini.

Gibuti, potenziale hub del traffico internazionale
L’accordo della Cina con Gibuti, secondo quanto riportato dal New York Times, si inserisce nel piano di sviluppo del piccolo paese africano, il cui governo si sta concentrando su "strade, porti, aeroporti e infrastrutture di telecomunicazioni per rendere Gibuti l’hub del traffico regionale e internazionale".

Con una popolazione di circa 900 mila abitanti, Gibuti starebbe pianificando di investire $ 6 miliardi nell'iniziativa, ed è anche alla ricerca di ulteriori investimenti stranieri. Siti ufficiali affermano l’intenzione di costruire almeno altri sei porti.

Oltre alla base cinese, Gibuti ne ospita anche una statunitense a Camp Lemonnier, dove sono ospitati circa 4.000 soldati, incluse forze speciali e civili. Recentemente, gli Usa hanno rinnovato l’accordo per la permanenza nella base per dieci anni con l’opzione per altri dieci.

Anche la Francia mantiene una base a Gibuti, ex colonia francese. Il Giappone partecipa alle operazioni antipirateria delle Nazioni Unite con aerei di sorveglianza e personale vario.

Gli italiani sono presenti con circa 80 militari che compongono il nucleo permanente della missione. La Base fornisce supporto ai contingenti nazionali che operano nell’area del Corno d’Africa e nell’Oceano Indiano.

La crisi del Dragone e gli effetti in Africa
Secondo alcuni dati riportati dal Foreign Times, molte nazioni africane, in particolare esportatori di materie prime, sono state duramente colpite dal recente rallentamento economico della Cina che è stato il primo mercato per le merci di molti paesi.

Gli scambi commerciali tra Cina e Africa nel 2014 hanno superato i 220 miliardi di dollari, rispetto ai 10 miliardi del 2003. La Cina è stata il più grande partner commerciale del continente dal 2009, superando gli Stati Uniti.

L’accordo con Gibuti rappresenta un grande risultato per la Cina, che a lungo ha cercato di rafforzare la sua influenza in luoghi considerati passaggi strategici obbligati, consolidando così una presenza davvero massiccia nel continente africano.

Elvio Rotondo è Country Analyst de “Il Nodo di Gordio”.

venerdì 20 novembre 2015

Nord Africa: un quadro allarmannte

Libia, Egitto, Algeria
Stato islamico in Nord Africa: rivalità e alleanze
Umberto Profazio
31/08/2015
 più piccolopiù grande
Complice la situazione di estrema instabilità in Libia, l’avanzata del terrorismo di matrice jihadista in Nord Africa non sembra conoscere soste.

Nella prima metà di agosto il gruppo terrorista dello Stato Islamico si è gradualmente impadronito della città libica di Sirte, provocando nuovi timori sia da parte delle principali potenze regionali, sia da parte delle diplomazie occidentali.

Il 20 agosto un attacco nella periferia di Sousse, in Tunisia, ha provocato la morte di un poliziotto. Il giorno stesso un’autobomba è esplosa di fronte a un edificio di proprietà delle forze di sicurezza egiziane nel distretto di Shubra el-Kheima, nella periferia del Cairo, toccando anche il tribunale adiacente e provocando 29 feriti. Gli episodi si susseguono ravvicinati.

Lo Stato Islamico e al-Mourabitun
Nonostante la maggior parte degli attentati sia stata attribuita agli uomini di Abu Bakr al-Baghdadi, la realtà sembra essere molto più complessa. Il fronte del terrore in Nord Africa non è compatto e monolitico come a prima vista potrebbe sembrare, ma nasconde una ricca diversità di posizioni.

Questo è quanto si può desumere dall’annuncio con cui il 24 agosto i miliziani dello Stato Islamico hanno chiesto la testa di Mokhtar Belmokhtar, a capo del gruppo terroristico al-Mourabitoun.

Conosciuto per il tragico attacco del gennaio 2013 presso l’impianto di gas algerino di In-Amenas, al-Mourabitoun è nato dalla fusione tra le Brigate al-Mulathameen e il Movimento per l’unità del Jihad in Africa occidentale.

Le origini qaediste della formazione si desumono dal fatto che le Brigate al-Mulathameen furono create da Belmokthar come una fazione dissidente di al-Qaeda nel Maghreb islamico. Tuttavia la scissione non è stata così profonda da fare rinnegare a Belmokhtar la sua appartenenza a al-Qaeda.

Nonostante il 15 maggio Adnan Abud Walid Sahraoui, capo della branca saheliana dell’organizzazione, abbia prestato giuramento di fedeltà allo Stato islamico, sono arrivate subito le smentite.

Il 17 luglio al-Mourabitoun ha rinnovato la sua bay’ah (sottomissione) a Ayman al-Zawahiri, dichiarando di rappresentare al-Qaeda in Africa occidentale e di continuare la sua battaglia contro la Francia e i suoi alleati.

L’organizzazione ha anche ribadito la leadership di Belmokhtar, smentendo così le notizie relative alla sua uccisione in un raid condotto dall’aviazione statunitense a Ajdabya a giugno.

La natura saheliana di al-Mourabitoune la scelta dell’Algeria quale teatro principale delle sue azioni, sembra rappresentareun ostacolo all’espansione dello Stato islamico in questo Paese.

Soprattutto a seguito della repressione degli uomini di al-Baghdadi da parte delle forze di sicurezza algerine: nel dicembre 2014, infatti, i militari di Algeri sono riusciti a annientare il gruppo Jund al-Khilafa, affiliato allo Stato islamico, eliminando anche il suo presunto capo Abdelmalek Gouri.

I dissidenti di Ansar Beit al-Maqdis
In questo quadro estremamente dinamico, risulta naturalmente importante il teatro egiziano, dove la minaccia principale deriva da Ansar Beit al-Maqdis, formazione originariamente di stanza nel Sinai che negli ultimi mesi ha allargato il suo raggio di azione.

Nonostante la sua bay’ah allo Stato Islamico e la ridenominazione in Wilyat Sinai, il processo di affiliazione è stato dibattuto, con alcuni membri che hanno preferito abbandonare il gruppo e prendere altre strade.

Tra questi un’importanza fondamentale sembra avere Hisham Ali Ashmawy, che s’è meritato anch’egli l’inserimento nella lista dei ricercati da parte dello Stato islamico.

Ritenuto dalle autorità del Cairo responsabile dell’uccisione il 29 giugno del procuratore generale Hisham Barakat, Ashmawy infatti avrebbe partecipato alle operazioni contro lo Stato islamico nella città libica di Derna, allineandosi alle posizioni del Mujhaideen Shura Council.

Le indagini sugli attentati in Tunisia
Ancora più complesso sembra essere il panorama tunisino. Lo Stato islamico ha infatti rivendicato i principali attentati nei Paese, compresi quelli del museo del Bardo del 18 marzo e dell’Imperial Marhaba Beach Hotel di Sousse del 26 giugno.

In un primo momento le autorità tunisine sono sembrate riluttanti a attribuire la responsabilità di entrambi gli attacchi allo Stato islamico. Le indagini per l’attentato del Bardo si erano indirizzate sulla pista delle Brigate Okba Ibn Naafa, gruppo qaedista attivo soprattutto nella regione montuosa del Chembi, al confine con l’Algeria.

Solo a seguito dell’inchiesta della polizia britannica, è emerso un collegamento diretto tra l’attacco del Bardo e quello di Sousse: si ritiene infatti che i responsabili di entrambi gli attacchi siano passati dal medesimo campo di addestramento di Sabratha in Libia. Presumibilmente nello stesso periodo.

Un’ulteriore complicazione deriva dal fatto che il campo di Sabratha è notoriamente gestito da Ansar al-Sharia in Libia, il cui rapporto con lo Stato islamico risulta ambivalente. Nonostante tale formazione non abbia mai fatto voto di sottomissione a al-Baghdadi, pare che molti dei suoi ex membri siano successivamente entrati nelle file dello Stato islamico, rafforzando l’organizzazione.

Una libertà di movimento assoluta
In un contesto caratterizzato da scarsa trasparenza, inaffidabilità delle fonti e strumentalizzazioni politiche, l’unica certezza è che il fattore complessità sembra avvantaggiare lo Stato islamico.

Facendo del Nord Africa un’immensa Siria dove l’assenza di una componente settaria in grado di infervorare gli animi viene compensata da un’incredibile pluralità di attori, tutti con differenti agende e caratterizzati da un’irriducibile rivalità. E i cui movimenti vengono agevolati dall’assoluta mancanza di controlli alle frontiere.

A metà agosto il valico di Musaid tra Libia e Egitto è rimasto sguarnito, per un immotivato ritiro delle guardie di frontiera libiche. E a Sirte si stanno moltiplicando le notizie relative alla presenza di numerosi combattenti nigeriani tra le fila dello Stato islamico.

Questo presunto afflusso, tramite le porose frontiere tra Nigeria e Niger e tra quest’ultimo e la Libia, dà un contenuto concreto alla bay’aha al-Baghdadi annunciata dall’organizzazione nigeriana nei mesi scorsi.

Nella non più remota eventualità di un intervento in Libia (sia da parte occidentale che della Lega Araba), il controllo delle frontiere assume un’importanza sempre più cruciale e decisiva.

Umberto Profazio è dottorando in Storia delle Relazioni Internazionali presso l’Università di Roma “Sapienza” e analista per la Nato Defence College Foundation. Il suo primo e-book “Lo Stato Islamico: origini e sviluppi” è edito da e-muse.
- See more at: http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=3154#sthash.mPlJPn1i.dpuf

mercoledì 18 novembre 2015

Libia: siamo alla impotenza


Libia: aspettando l’accordo come Godot o agire
Giuseppe Cucchi
28/08/2015
 più piccolopiù grande
Nella primavera del 1944 l'Unione Sovietica, esasperata dalla lunga, e sino a quel momento vana, attesa dell'apertura di un secondo fronte alleato in Europa che allentasse la pressione esercitata dalla Germania verso Est, scriveva su uno degli organi di stampa di regime "Ci sono due strade per un simile intervento.

La prima è quella naturale che prevede la discesa dall'alto dei cieli dell'Arcangelo Michele con la sua spada fiammeggiante. La seconda è quella sovrannaturale, che troverebbe espressione in uno sbarco di forze Usa e del Commonwealth nei Paesi Bassi o nel Nord della Francia".

Una valutazione surreale che però, fatti i dovuti adeguamenti, ben si adatta anche a quanto sta avvenendo in questo momento in area libica, dando con precisione l'idea di quale sia stato sino ad ora in questa crisi il comportamento di alcuni Paesi che dovrebbero essere fra i più grandi del mondo.

Paesi che, posti di fronte ad un incendio che divampa alle porte di casa, sono capaci soltanto di lanciarsi in sterili esortazioni, perennemente basate sulla speranza che alla fine sia qualcun altro ad impegnarsi, pagando di tasca propria ogni eventuale conto e rischiando di sporcarsi le mani in ciò che la lunga inerzia internazionale ha permesso divenisse un terribile pantano di lotta fra fazioni.

La lezione della ex Jugoslavia
Certo, la ricerca di una soluzione negoziale è auspicabile in ogni crisi, qualsiasi siano la sua entità e le sue dimensioni. Altrettanto certo è il fatto che eventuali canali di dialogo fra le parti debbano essere mantenuti aperti anche nei momenti in cui le armi fanno sentire con maggiore intensità la loro voce.

Nel contempo però è irenicamente assurdo sperare che tutti i contenziosi possano trovare una accettabile soluzione intorno ad un tavolo di trattative.

Se ci si lascia guidare da questa idea si rischia di non concludere nulla e di ritrovarsi domani con una crisi ancora da risolvere ma approfondita e peggiorata dal trascorrere del tempo. E non si tratta della peggiore delle possibili ipotesi, considerato come il volere raggiungere un accordo a tutti i costi possa magari indurre le parti a concordare su tregue o paci talmente insostenibili da portare in sé i germi di future, peggiori catastrofi.

In particolare, come tra l'altro in tempi relativamente recenti ci hanno tragicamente dimostrato le guerre della dissoluzione jugoslava, ogni crisi ha un suo preciso momento di culmine superato il quale il bilancio di sangue versato è divenuto tanto pesante, e gli odi reciproci così profondi, che diviene inutile sperare che le parti possano accettare di aprire un dialogo e condurlo avanti, più o meno autonomamente, sino ad un accordo.

Il dialogo, se dialogo ci sarà, potrà soltanto essere imposto dall'esterno, da altri protagonisti più forti, disposti ad impegnarsi in prima persona per costringere, sorvegliare, garantire.

È il ruolo che nella catastrofe jugoslava hanno svolto gli Stati Uniti, riuscendo a tirarsi dietro sotto le bandiere della Nato anche buona parte di una Unione europea (Ue) i cui sforzi si erano limitati sino a quel momento a sagge esortazioni alla ragione, tanto ripetute quanto vane.

Interventi diplomatici internazionali ‘leggeri’
Nella crisi libica siamo ancora palesemente a quel medesimo stadio, nonostante il fatto che la situazione sull’altra sponda del Mediterraneo divenga di giorno in giorno più complicata e pericolosa, con l'Isis che potrebbe a breve scadenza dilagare a macchia d'olio da Sirte e che già ora costella di focolai di infezione tutti i paesi vicini, primo fra tutti l'Egitto.

Di fronte a simili dati di fatto che cosa possiamo mettere sul tavolo? Una iniziativa delle Nazioni Unite, affidata oltretutto non a una personalità di spicco che potrebbe conferirle l'adeguato peso politico ma ad un diplomatico spagnolo bravo quanto si vuole ma estremamente leggero sul piano della considerazione internazionale.

Non c'è così da stupirsi se l'esercizio diplomatico ha finito col trasformarsi in una ripetitiva e sterile partita di ping-pong fra il governo di Tobruk e quello di Tripoli, impegnati a rimpallarsi in eterno accuse e responsabilità.

Alla mediazione delle Nazioni Unite s’è aggiunta di recente "l'esortazione" alle parti promossa dal ministro degli Esteri italiano Paolo Gentiloni. Iniziativa certamente lodevole - cui hanno subito aderito alcuni fra i maggiori protagonisti della scena internazionale, ben contenti di avere trovato il modo di poter dire domani "Ho tentato di fare qualcosa!" -, ma che rischia di essere completamente inutile se non verrà integrata a breve scadenza da misure concrete e decisive.

Così come essa è ora, l'iniziativa ricorda infatti soltanto l'esortazione che San Filippo Neri rivolgeva ai bambini del suo oratorio: "Buoni, state buoni … se potete!". No, questi bambini libici sono bambini che per il momento proprio non possono stare buoni!

Che cosa possiamo fare? Alternative
Ritorna quindi, insistente e sino ad ora pressoché totalmente inevasa, la domanda "Che cosa possiamo fare"? E soprattutto che cosa può fare l'Italia, un Paese che è in prima fila per ciò che riguarda gli elementi di danno e di rischio connessi alla crisi, ma che nel contempo assolutamente non dispone della forza necessaria a farvi fronte da sola?

Al di là della tentazione di far tintinnare le sciabole, che sempre più spesso si individua nell'ambito di alcuni settori della nostra politica e dei nostri mass media, da ogni equilibrata valutazione emerge infatti con impressionante chiarezza come un eventuale nostro sforzo in senso militare potrebbe concretizzarsi al massimo nell'invio in area di una forza composta da un totale di 10/15 mila uomini: 15 nel caso in cui lo sforzo dovesse essere di breve durata, 10 se esso fosse destinato a prolungarsi nel medio e lungo termine.

Una disponibilità tanto esigua di forze rende indispensabile per l'azione la costituzione di una qualsiasi forza multinazionale di dimensioni adeguate. Il che significa muoversi sotto una delle tre bandiere possibili, vale a dire in primo luogo quella delle Nazioni unite, poi quella della Nato ed infine quella della Ue.

Non possedendo né la leadership degli americani né la disinvoltura neo colonialista della Francia non possiamo infatti pensare a ‘coalitions of the willings’ cui possano associarsi, sollecitati da una nostra iniziativa, altri Paesi dell'area mediterranea dotati, essi sì, di forze militari di entità sufficiente a configurare una forza di peacekeeping credibile. Il riferimento è chiaramente all'Egitto e alla Algeria, minacciati quanto noi e per molti aspetti più di noi dalla crisi libica.

Non subordinare l’azione al consenso libico
Perché esista domani una forza di peacekeeping - anzi per essere precisi di peaceenforcing! - destinata ad operare nel Paese occorre però che sin da oggi qualcuno inizi a proporne la costituzione nelle sedi dovute, chiarendo tra l'altro che essa dovrebbe comunque essere messa in piedi indipendentemente da quell'assenso congiunto dei due governi di Tobruk e di Tripoli, entrambi per molti versi illegittimi, che potrebbe in futuro venire o più probabilmente non venire.

È tempo quindi che l’Italia inizi a muoversi in quella direzione, cercando magari di dare forza alla sua voce con il tentativo di imporre la sicurezza europea come un unicum inscindibile che renda impossibile separare ciò che avviene in questo momento a nord est, in Ucraina ed ovunque i nostri interessi contrastino con quelli russi, con quanto sta succedendo a sud, dall'altro lato di quel mare Mediterraneo che in questo particolare periodo storico unisce ed accomuna molto più di quanto non separi.

A corollario e a premessa, come più volte già indicato in sedi autorevoli ma mai realizzato, occorrerebbe cercare di tagliare i cordoni finanziari che ancora alimentano le fazioni in lotta permettendo loro di perpetuare gli scontri.

Tagliare i cordoni finanziari
Una operazione quanto mai difficile, che da un lato richiederebbe adeguate pressioni politiche sui vari sponsor dei combattenti, un elenco molto lungo che coinvolge buona parte del mondo arabo, e non soltanto di quello.

D'altro canto, invece, su scala nazionale, bisognerebbe costringere l'Eni a cercare altrove fornitori sostitutivi della aliquota di idrocarburi per cui ancora dipendiamo dalle forniture della Libia, interrompendo così oltre al flusso di petrolio e gas verso l’Italia, anche quel continuo flusso di valuta che dall'Italia raggiunge la Banca centrale libica, organismo preposto a smistarlo poi in maniera equilibrata fra tutte le parti in lotta.

Un flusso la cui esistenza fa sì che gli italiani possano essere annoverati non solo fra le maggiori vittime, ma altresì fra i maggiori responsabili del perdurare di questa crisi.

Per quanto grandi possano apparire le difficoltà, bisogna quindi tentare di agire, essendo pronti se necessario ad adottare soluzioni imperfette e pericolose e sapendo che spesso bisognerà scegliere il male minore e turarsi eventualmente il naso accettando se indispensabile alleati per molti versi discutibili.

Il tutto nella piena consapevolezza del fatto che il tempo gioca contro di noi e ci obbligherà quindi, qualora decidessimo di impegnarci, ad adottare tutta una serie di quelle "decisioni sul tamburo" che le grandi democrazie hanno sempre difficoltà a concepire ed accettare.

Ci sono soluzioni alternative? Sì, forse quella di attendere anche noi la discesa dal cielo di un Arcangelo Michele armato di spada fiammeggiante e disposto a risolvere tutti i nostri problemi!

Giuseppe Cucchi, Generale, è stato Rappresentante militare permanente presso la Nato e l’Ue e Consigliere militare del Presidente del Consiglio dei Ministri.
- See more at: http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=3152#sthash.AWUia9c2.dpuf

martedì 10 novembre 2015

Libia: l'onu e l'accordo zoppo


Libia: un arduo percorso dopo Skhirat
Roberto Aliboni
26/07/2015
 più piccolopiù grande
L’11 luglio, le delegazioni libiche presenti a Skhirat (Marocco) hanno siglato la quinta versione di Léon per un accordo di concordia nazionale. L’accordo non è stato accettato dagli irriducibili della coalizione “Alba della Libia”, la coalizione che siede a Tripoli.

Nel corso dei primi sei mesi di quest’anno, “Alba” si è frantumata. Via via che gli ultimi round del negoziato lasciavano emergere l’accordo, i duri e gli irriducibili hanno costituito al posto di “Alba” un “Fronte della Fermezza” di milizie con un buon seguito nel Congresso Nazionale Generale (Cng) - la delegazione che non è andata a Skhirat e non ha firmato l’accordo.

Le istituzioni internazionalmente riconosciute di Tobruk hanno firmato, in particolare la Camera dei Rappresentanti (CdR). Tuttavia, dietro la firma appare in piena evidenza la spaccatura in merito alla presenza e al ruolo del generale Hiftar: circa la metà dei Rappresentanti non lo ha mai voluto e non lo vuole come capo supremo dell’Esercito Nazionale Libico.

Questi rappresentanti e altre forze, anche in seno allo stesso Esercito, aspettano che l’accordo di Skhirat entri in vigore per fare fuori il generale.

Il percorso che l’accordo prefigura
L’accordo - in sostanza una “road map” - prevede ora l’inizio di una seconda fase negoziale nel cui ambito dovranno essere regolati dettagli cruciali: la nomina del presidente e la formazione del Consiglio di Presidenza (che deciderà all’unanimità); la nomina dei membri del nuovo Alto Consiglio di Stato (una sorta di Senato con poteri consultivi - e forse alcuni poteri decisionali negli adempimenti politici maggiori - destinato a cooptare nelle istituzioni i membri del Cng di “Alba” fermo restando il legittimo ruolo di legislatoredella CdR); il governatore della banca centrale; il presidente della compagnia petrolifera di stato (Noc).

Infine, il Consiglio di Presidenza dovrà procedere allo scioglimento delle milizie e alla ricostituzione della catena di comando: è in questa prospettiva che i nemici trasversali di Hiftar prefigurano l’estromissione di Hiftar e dei suoi accoliti.

Dunque, la mediazione dell’Onu ha raggiunto il risultato di enucleare e poi aggregare al centro le forze moderate del paese, interessate e pronte al compromesso, ma - ciò facendo - ha altresì messo ai margini i loro bracci armati e consegnato la guida della transizione a delle forze politiche inermi, esposte alle prevedibili reazioni dei duri di destra e di sinistra. Né Hiftar né i comandanti delusi di “Alba” sono dei Cincinnati.

È evidente l’estrema fragilità di quello che in sé e per sé è un grande successo negoziale. Come oggi ovunque nella regione, i militari prevaricano ogni sviluppo civile e democratico, riproponendo un deplorevole corso storico nel Medio Oriente contemporaneo.

Come consolidare questo successo della diplomazia e proteggerlo dai rischi di violenze e colpi di mano che stanno appena dietro l’angolo, sia nelle vesti dei militari di Tobruk sia in quelle dei vari comandanti di Tripoli e dei loro patroni politici interni ed esterni?

Estrema fragilità del processo negoziale
Innanzitutto, il negoziato continua, sempre sotto la guida di Bernardino Léon (e della diplomazia americana ed europea che fin qui lo ha sostenuto con forza e competenza).

Léon molto saggiamente ha lasciato la porta aperta a tutti coloro che non hanno firmato a Skhirat, senza porre preclusioni di sorta ad islamisti e comandanti. Si ha ragione di credere che non pochi odierni oppositori finiranno per saltare sul carro di Skhirat: ovunque nel paese i sostenitori della guerra sono sempre più isolati. La previsione, perciò, è che l’accordo vada a consolidarsi.

In questa fase ulteriore del negoziato sarà molto importante il ruolo che sapranno svolgere i membri della comunità internazionale. Essi dovranno saper mettere bene in chiaro sia la loro volontà di aiutare la Libia a ricostruirsi come comunità democratica sia la loro intenzione di astenersi da ogni interferenza politica nei loro interventi a favore di questa ricostruzione.

L’opinione pubblica e le elite della Libia sono estremamente sensibili sul punto dell’interferenza ed il rischio è che qualunque benintenzionata azione dall’esterno sia subito affondata da qualsiasi gratuita accusa di asservimento ad interessi e cospirazioni di potenze straniere.

Il ruolo della Comunità internazionale
Ciò pone un grave problema per quanto riguarda l’aiuto di cui hanno invece estremo bisogno le inermi forze centriste destinate a governare la Libia sulla base degli accordi in corso.

L’emergente governo libico ha bisogno come minimo di forze internazionali destinate a sorvegliare i cessate-il-fuoco e le intese di sicurezza che il Consiglio di Presidenza è chiamato dagli accordi di Skhirat a mettere in pratica.

Più in generale ha bisogno di forze internazionali destinate a proteggere le istituzioni, le grandi infrastrutture e le missioni diplomatiche (una forza di cui è difficile per ora sapere se deve essere di semplice “peace keeping” o di “enforcement”).

È difficile dire quali Paesi potrebbero inviare queste forze: ci sono ovvii inconvenienti per quanto riguarda i Paesi occidentali, ma ce ne sono anche per quanto riguarda i paesi arabi e quelli africani. Tutti sono destinati a confrontarsi con una situazione estremamente volatile sul piano della sicurezza e impervia su quello politico.

Difficile da organizzare, l’intervento dell’Onu può essere facilmente complicato dalle interferenze in atto. La diplomazia occidentale - a prescindere dall’invio di forze di pace - dovrebbe premere sui suoi alleati arabi e africani - soprattutto sui primi - affinché non interferiscano.

Il Qatar alla fine di giugno ha emesso una chiara dichiarazione con la quale si è tirato fuori dal patrocinio che ha esercitato negli ultimi anni a favore delle forze di “Alba”e degli islamisti.

Nelle ultime battute del negoziato, la Turchia sembra essersi ugualmente tenuta da parte. L’Egitto continua invece a perseguire la sua forte interferenza a favore di Tobruk e soprattutto di Hiftar. È giunto il momento di riportare il Cairo alla ragione.

‘Astensioni’ e sanzioni
Infine, è anche giunto il momento di erogare le dovute sanzioni personali ai “cattivi” leader che si oppongono all’accordo e già agiscono come suoi “spoilers”.

La Reuters riportava il 20 luglio che l’Ue sta considerando una lista alla cui testa si trovano Abdulrahman Suweihli, un irriducibile di Misurata (in netta controtendenza con la sua stessa città), e Salah Badi, un noto “comandante” islamista. Sulla lista ci sarebbero anche Hiftar e il suo capo dell’aviazione, Jaroushi.

Sembrano mancare invece altri nomi di indomiti guerrafondai ed estremisti, come Nuri Bu Sahmein, il leader del Blocco dei Martiri e presidente del Cng. Avrà l’Ue il coraggio di farlo? Non è la prima volta che considera delle liste, ma finora nessuna decisione è stata presa. Una lista, convergente con quella Ue circola anche a livello del Consiglio di Sicurezza. Anche qui è arrivato il momento di agire.

Le misure che la crisi libica richiede per essere condotta a buon fine mostrano non poche volte l’esistenza di contraddizioni rispetto agli interessi di sicurezza dei Paesi della comunità internazionale chiamati a metterle in atto.

Abbiamo già evocato il caso dell’Egitto, ma anche la coalizione anti-Is, gli Usa, la Francia e l’Italia hanno degli interessi e delle urgenze che potrebbero portarli a forzature o strumentalizzazioni nell’interpretazione e nell’esecuzione di dette misure.

La pressione della lotta al sedicente Stato islamico, la necessità di proteggere gli interessi italiani e francesi in Egitto e nel Sahel, l’urgenza posta dall’emigrazione clandestina potrebbero indurre questi paesi e l’Ue a interventi in Libia - come il piano di lotta militare ai trafficanti - che a conti fatti si rivelerebbero dannosi alla nuova transizione democratica libica e, perciò, nel medio-lungo periodo, anche agli interessi nazionali che s’intende proteggere o promuovere.

Francia, Usa, Egitto e Italia hanno mezzi e motivazioni per intervenire e sostenere la società libica a uscire dalla sua crisi: ci si aspetta che lo facciano ma con la pazienza e la lungimiranza necessarie a non essere troppo influenzati dalle loro urgenze nazionali.

Roberto Aliboni è consigliere scientifico dello IAI.