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Metodo di Ricerca ed analisi adottato


Il medoto di ricerca ed analisi adottato è riportato suwww.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com

Vds. post in data 30 dicembre 2009 seguento il percorso:
Nota 1 - L'approccio concettuale alla ricerca. Il metodo adottato
Nota 2 - La parametrazione delle Capacità dello Stato
Nota 3 - Il Rapporto tra i fattori di squilibrio e le capacità delloStato
Nota 4 - Il Metodo di calcolo adottato

Per gli altri continenti si rifà riferimento al medesimo blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com per la spiegazione del metodo di ricerca.

lunedì 28 ottobre 2013

LIbia: un raid dalle infinite ripercussioni

Libia
Libia 124
Gli ultimi giorni sono stati segnati dalle conseguenze del raid con cui, sabato 5 ottobre, un team delle Forze Speciali statunitensi ha arrestato a Tripoli Abu Anas al-Libi, ritenuto da Washington tra i responsabili degli attacchi del 1998 alle ambasciate USA in Kenya e Tanzania. Abu Anas è stato fermato da un gruppo di 8-9 uomini armati e a viso coperto mentre viaggiava a bordo di un’ auto assieme a suo figlio nella zona orientale della capitale libica, area roccaforte di più gruppi di matrice islamista. Secondo la testimonianza del figlio di Abu Anas, all’interno del gruppo vi sarebbero stati almeno due libici, cosa che lascia presupporre il coinvolgimento di gruppi locali nel raid statunitense.
L’operazione, seguita dall’interrogatorio di Abu Anas a bordo della USS San Antonio nelle acque del Mediterraneo, ha suscitato inevitabilmente fortissimi strali polemici in Libia. Provocati, in particolare, dalla notizia – diffusa da W! ashington – secondo cui il governo di Tripoli avrebbe saputo in anticipo del raid e ne avrebbe dunque consentito l’attuazione. Le tensioni sono culminate nel sequestro, per alcune ore, del Premier Ali Zeidan nella giornata di giovedì 10 ottobre. Il capo del governo è stato prelevato dalla sua stanza all’Hotel Corinthia, a Tripoli, da un gruppo di circa 150 uomini armati parte del Libya Revolutionaries Operations Room (LROR), milizia preposta alla protezione della capitale e alle dipendenze del Ministero dell’Interno. Zeidan sarebbe stato liberato poche ore dopo grazie all’intervento di altre miliziani locali. L’episodio ha comunque confermato, ancora una volta, il grave vuoto di sicurezza che affligge il Paese e la capacità delle milizie islamiste – spesso rispondenti a obiettivi e agende diverse - di minacciare e influenzare le fragili istituzioni democratiche realizzate dopo la caduta del regime di Gheddafi.

venerdì 25 ottobre 2013

Egitto: situazione sempre più difficile

Lo scorso 6 ottobre, in occasione delle celebrazioni per il quarantesimo anniversario del conflitto arabo-israeliano, nuovi scontri tra le Forze di polizia e i sostenitori della Fratellanza Musulmana hanno causato la morte di 50 persone, al Cairo e a sud della capitale. Nonostante il ministro dell'Interno, Mohammed Ibrahim, avesse dichiarato che le Forze di Sicurezza sarebbero intervenute per scongiurare qualsiasi forma di disturbo alle celebrazioni, i leader dell'Alleanza Anti-Golpe nei giorni scorsi avevano annunciato nuove manifestazioni di piazza per protestare contro la destituzione dalla presidenza di Mohammed Morsi da parte dell'Esercito egiziano. L'ex Presidente, da allora detenuto insieme a circa 14 esponenti della Fratellanza Musulmana, il prossimo novembre verrà sottoposto a processo con l'accusa di incitamento alla violenza per gli scontri successivi al referendum costituzionale del dicembre 2012.
Il perdurare della crisi in Eg! itto ha portato gli Stati Uniti a rivedere il piano di aiuti destinati al nuovo governo ad interim: oltre al taglio dei prestiti e dei trasferimenti finanziari, per un totale di 590 milioni di dollari, Washington ha annunciato la sospensione delle forniture militari, tra cui elicotteri Apache, caccia F16, missili Harpoon e componenti per la realizzazione di carri armati M1/A1. Nonostante il Segretario di Stato, John Kerry, abbia rassicurato il Cairo sull'intenzione di proseguire la cooperazione per la messa in sicurezza dei territori di confine, il ridimensionamento degli aiuti militari potrebbe compromettere la capacit� delle Forze Armate di rispondere con efficacia in un momento di forte destabilizzazione per il Paese. Sono ripresi in questa settimana gli attacchi di militanti nella Penisola del Sinai contro Esercito e Forze di polizia: una serie di attentati tra la città di Ismailiya, sul canale di Suez, di al-Tur e di al-Arish, rispettivamente nel sud e nel nord della pe! nisola, hanno causato la morte una decina di soldati. In questa fase di transizione le Forze Armate, da sempre deus ex machina per l'equilibrio politico interno, sembrano trovare parecchie difficoltà nel ripristinare le condizioni di sicurezza in Egitto. Resta però da valutare quale sarà il ruolo che l'Esercito avrà all'interno del futuro assetto istituzionale: il Generale Abdel Fattah al-Sisi, nei giorni scorsi, non ha escluso una sua possibile candidatura alle elezioni presidenziali previste per il 2014.

venerdì 18 ottobre 2013

Egittto: la difficile transizione

Civiltà Cattolica, Quindicinale, anno 164, 19 settembre 2013, n. 318; info@laciviltàcattlica;

La Seconda Rivoluzione Egiziana dell’estate 2013

Le imponenti manifestazioni di piazza di fine giugno 2013 in Egitto, capeggiate da movimenti di matrice laica, nonché la raccolta di circa 22 milioni di firme contro il Governo in carica, hanno “legittimato” l’intervento dell’esercito contro l’esecutivo “islamista” presieduto da Mohamed Morsi, il quale è stato arrestato e detenuto in un luogo segreto. In questo modo, L’esercito, nella persona del generale Abdel Fathal Al Sisi. È diventato nuovamente, come nel recente passato, l’ago della bilancia della politica egiziana. Soprattutto dopo i fatto sanguinosi di ferragosto, ci si chiede quale sarà il futuro dell’Egitto. Infatti la radicalizzazione dello scontro politico alla fine potrebbe avvantaggiare, come è avvenuto in passato, le frange estreme dell’islamismo jihadista, nuocendo molto alla democrazia, all’economia in forte crisi ed alla convivenza in Egitto tra mussulmani e cristiani copti, i quali chiedono di non essere considerati più cittadini di secondo ordine.



lunedì 7 ottobre 2013

Egitto: l'importaza della penisola del Sinai ed il terrorismo

Medioriente
Sinai, cerniera contro il Jihad
Mario Arpino
26/09/2013
 più piccolopiù grande
Se la penisola del Sinai ha un significato emblematico per gran parte degli egiziani, per i militari rappresenta qualcosa di sacro e inviolabile: “chi tocca il Sinai muore”. Se ne accorge in fretta chi visita il complesso museale Panorama, lungo la strada che conduce all’aeroporto del Cairo.

Assieme ai busti bronzei dei padri della patria, questo ospita una celebrazione non-stop della guerra iniziata il 6 ottobre 1973 - per gli israeliani lo Yom Kippur - quando le forze egiziane riuscirono a passare il Mar Rosso e mettere piede sulla penisola, dopo aver sfondato la famosa Linea Bar Lev. Fu questo l’unico, effimero successo di quella guerra, che agli egiziani e ai turisti viene presentata come una grande vittoria da tramandare ai posteri.

Il Sinai nel regime di Morsi
Non è da escludere che anche il Sinai sia da mettere in relazione con la defenestrazione dell’ormai ex-presidente Mohammed Morsi. Può essere stata la goccia che fa traboccare il vaso. Dopo le elezioni presidenziali del giugno 2012, la situazione del Sinai ha cominciato a deteriorarsi molto rapidamente, con attacchi terroristici contro l’oleodotto che serve anche Giordania e Israele e il reiterarsi di agguati a elementi dell’esercito e della polizia.

Tra i più cruenti c’è quello dell’agosto 2012 un mese dopo la vittoria elettorale di Mursi, dove 16 soldati sono rimasti uccisi. Le responsabilità furono addossate a miliziani jihadisti trafilati dal quel poroso confine con Gaza che il deposto presidente Hosni Mubarak, aveva tentato di sigillare, riuscendoci solo in parte.

Dopo tutte le dichiarazioni di Mursi sulla continuità degli accordi di Camp David e di Oslo, che contemplano anche la sicurezza del Sinai, i militari si aspettavano una reazione robusta da parte del neo-eletto. Azione che in effetti ci fu, ma nella direzione opposta. Fu destituito,il general Hossam Tantawi, ministro della difesa e capo di stato maggiore, assieme al capo dell’intelligence.

Legami sospetti
I legami tra i Fratelli Mussulmani e Hamas resero difficile per i soldati sia la chiusura dei tunnel - la cui economia aveva ormai ripreso a proliferare - sia l’identificazione dei colpevoli, che, indisturbati, trovavano sistematicamente rifugio nel sud di Gaza. Lo scorso maggio, nella stessa area furono rapiti sei poliziotti e un soldato, ma Morsi frenò l’azione militare già pronta a scattare invitando tutti alla calma e al dialogo.

Era necessario proteggere sia i rapiti, che i rapitori. Con questo sistema, che per l’esercito era la prova lampante della collusione tra i Fratelli, Hamas e i gruppi jihadisti, i rapiti furono in effetti liberati, i rapitori rimasero impuniti e i bulldozers inviati per sigillare i tunnel. Per i militari, era inaccettibile che il Sinai diventasse una zona fuori controllo. Il presidente fu ritenuto corresponsabile dell’evento e un ostacolo alla sicurezza. Aveva ormai firmato la sua sorte ed il tramonto del percorso politico-istituzionale dei Fratelli.

Possibile santuario estremista
Nel Sinai vive mezzo milione di abitanti che risiedono per lo più nelle città costiere, mentre l’interno - deserto e morfologicamente tormentato - è abitato dalle tribù beduine, di cittadinanza egiziana. Ma, secondo Mordechai Kedar, lettore di arabo e storia dell’Islam all’Università di Tel Aviv, questi si identificano nello stato egiziano non più di quanto i beduini del Negev si sentano israeliani. Sono beduini e basta. Transfrontalieri nelle migrazioni, vivono di piccolo commercio e contrabbando, verso cui egiziani e israeliani chiudono un occhio.

Si è trovato un accomodamento, e i pericoli per il Sinai non vengono certamente da loro, nonostante i tentativi di infiltrazione salafita e jihadista. Nella penisola, il confine tra Egitto e Israele altro non è se non una linea obliqua tracciata sulla carta tra l’area di Eilat (Taba) e quella di al-Arish ( versi Rafah), senza muri, filo spinato e con pochi cippi. Nonostante l’importanza dell’area, le autorità egiziane hanno sempre faticato a imporre la propria autorità. Con grande disappunto da parte di Israele che aveva mantenuto per diversi anni il controllo del territorio dopo la guerra dei sei giorni.

Con il trattato di Camp David del ‘79, il Sinai, area da demilitarizzare, era ritornato all’Egitto. Accordi successivi, tuttavia, avevano consentito lo stazionamento di truppe egiziane per motivi di sicurezza. Ciò non ha comunque impedito numerosi attentati, tra cui ricordiamo, nel nuovo secolo, quello all’hotel Hilton di Taba, i tre attacchi a Dahab ed il razzo verso Aqaba, in Giordania.

Secondo gli analisti, oggi sono almeno tre i gruppi estremisti islamici che - con un grado di collusione con Hamas e i Fratelli Musulmani ancora in corso di valutazione - cercano di rendere questo territorio, difficile e poco accessibile, una sorta di santuario per il jihad.

Si tratta del Consiglio consultivo del jihad per Gerusalemme, basato a Gaza, ritenuto responsabile dei lanci di missili e di infiltrazioni nel Sinai (ricordiamo i recenti lanci di Grad su Eilat). Questo gruppo è prevalentemente palestinese, ma sarebbe in posizione conflittuale persino con Hamas.

Esisterebbe poi un Gruppo organizzato per il jihad, con effettivi stranieri: una propaggine di al-Qaeda per il nord-Africa. In questi giorni, in Israele, si parla anche di un nuovo gruppo armato, chiamato Scudo del Sinai. Affiliazione, composizione e finalità sarebbero ancora in fase di analisi.

Il nuovo regime del generale Abdel Fattah al-Sisi sta cercando di ottemperare agli accodi di Camp David e ai conseguenti accordi bilaterali con gli israeliani in modo più energico e incisivo di quanto fecero Mubarak e Tantawi. Tuttavia, l’ambiguo comportamento di Mursi potrebbe aver già seriamente pregiudicato una situazione che va recuperata a tutti i costi.

Quasi quotidianamente nel Sinai ci sono attacchi mortali. Ultimamente, il più cruento è stato quello del 19 agosto, dove sono morti venticinque poliziotti egiziani. È anche per questo che il primo settembre, i bulldozer dell’esercito egiziano hanno demolito tredici abitazioni e sradicato diversi alberi lungo il confine della Striscia di Gaza per istituire una zona cuscinetto larga 500 metri e lunga dieci chilometri. Dal 7 settembre è poi in corso un’offensiva dei militari egiziani contro cellule di terroristi con ingenti effetti collaterali sulla popolazione beduina.

La poco comprensibile ostilità al nuovo regime da parte dell’Occidente certamente non aiuta. Ma per i militari egiziani il Sinai resta importante e pur di non perderlo, potrebbero rivolgersi altrove senza troppe remore. Di questo, possiamo esserne certi.

Giornalista pubblicista, Mario Arpino collabora con diversi quotidiani e riviste su temi relativi a politica militare, relazioni internazionali e Medioriente. È membro del Comitato direttivo dello IAI.
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Egitto: per trovare una soluzione di uscita

Medioriente
Militari pigliatutto in Egitto
Azzurra Meringolo
25/09/2013
 più piccolopiù grande
I Fratelli Musulmani tornano nel baratro della clandestinità in cui hanno trascorso 57 dei loro 85 anni di vita. A deciderlo è una corte del Cairo che, accogliendo il ricorso del partito di sinistra Tagammu, ha ordinato la messa al bando delle loro attività, la chiusura delle sedi e la confisca dei beni esattamente come avvenuto nel 1954 per volontà dell’allora presidente Nasser.

Se gli islamisti tornano nell’ombra, i militari continuano ad agire alla luce del sole, influenzando la transizione in atto e garantendosi gli storici privilegi di cui godono.

Per la maggior parte degli egiziani, la pensione è un momento di riposo che si trascorre facendo attenzione a non spendere tutti i risparmi accumulati. Ma i militari non sono mai stati come tutti i normali egiziani.

Dopo il congedo, un alto ufficiale dell’esercito può diventare governatore di una provincia, dirigente di una grande compagnia petrolifera o boss di una società di proprietà dello stato. Il numero di militari in pensione ai vertici di cariche statali, porta Zainab Abu al-Magd a definire l’Egitto una repubblica di generali in pensione.

Nessun libero mercato 
Storicamente, il dominio militare sui civili è iniziato negli anni ’60 sotto il regime socialista di Gamal Abdel Nasser. Anche se negli anni ’70, dopo la sconfitta con Israele, Anwar Sadat cercò di marginalizzare l’esercito dal governo, nell’epoca di Mubarak i generali sono tornati rapidamente ad occupare le posizioni di punta.

In questi decenni, le liberalizzazioni economiche subiscono un’accelerazione e l’attività imprenditoriale dell’esercito rischia di entrare in competizione con una certa élite imprenditoriale. Per assicurarsi che le imprese delle Forze Armate rimangano comunque le favorite, Gamal, delfino ideale del dittatore, le trasforma in holding. Tutte le aziende pubbliche attive in un settore specifico vengono poi raccolte sotto un unico ombrello. A reggerlo, all’epoca come ora, ci sono le mani dell’esercito.

Tanto Mubarak che i militari non hanno mai creduto sinceramente in un’economia di libero mercato. A confermarlo è anche un wikileak del 2008. Secondo quanto riporta l’ambasciatore americano in Egitto, il general Hossam Tantawi, capo delle forze armate che ha guidato l’Egitto nel primo periodo del post-Mubarak, è esplicitamente contrario a una liberalizzazione che riduca il controllo statale sull’economia.

Impero militare
L’esercito egiziano ha un grande segreto: possiede almeno 35 fabbriche e aziende che si rifiuta di privatizzare. Il listino dei prodotti a marchio militare è costituito soprattutto da beni di uso civile che hanno poco a che fare con l’attività di difesa. Un mercato ambivalente che, solo per citare qualche esempio, produce il marchio di pasta Queen, l’acqua minerale Safi e gestisce le pompe di benzina Wataniya.

Dalle stanze del ministero della produzione militare, i generali si servono di due organismi per gestire il loro business: l’Organizzazione araba per l’industrializzazione - che si occupa di equipaggiamenti militari - e l’Organizzazione nazionale dei prodotti di servizio - che si concentra sui beni di prima necessità.

Inoltre, l’attività imprenditoriale militare comprende la vendita e l'acquisto di beni immobili per conto del governo, la gestione di imprese di pulizia, stazioni di servizio, mense e anche resort di lusso sul Mar Rosso.

A questo si somma il controllo su grandi quantità di terreni, grazie a una legge che permette ai militari di accaparrarsi ogni terreno pubblico con lo scopo di "difendere la nazione". Poco importa se alla fine questi appezzamenti finiscono per essere usati per investimenti commerciali.

Segreto di stato
Le attività imprenditoriali dei militari restano uno dei tabù principali della politica egiziana. L'esercito nasconde le informazioni sulle sue attività commerciali che, secondo analisti, rappresentano circa il 25%-40% dell’economia nazionale. I pochi studi disponibili si basano quindi su informazioni pubbliche rivelate dai mezzi di informazione delle aziende di proprietà dell’esercito.

Sul bilancio militare vige infatti un segreto assoluto.

Anche se una parte si riferisce a materiale militare classificato attinente ad attività di difesa, la maggior parte delle voci in questione riguardano i profitti dell'esercito maturati dalla produzione di beni e di servizi non militari.

Anche la Costituzione islamista entrata in vigore nel 2012 garantisce questa segretezza, escludendo il Parlamento da qualsiasi controllo sul budget militare. La Costituzione, attualmente sotto revisione, preserva gli interessi economici, giuridici e finanziari di cui i militari hanno sempre goduto. Impossibile pensare che ora vengano toccati.

Assicurarsi i propri interessi è stato uno dei motivi che ha spinto i militari ad appoggiare gli islamisti almeno fino al termine del processo costituzionale. In cambio del sostegno militare, la Fratellanza ha garantito alle forze armate, mettendolo per iscritto, tutti i privilegi di cui godeva già nel vecchio regime.

Dalla caduta di Mubarak lo status dei generali è addirittura migliorato. Nel febbraio 2011, cinque giorni dopo la caduta di Mubarak, il Consiglio supremo delle forze armate modifica la legge 90 del ‘75 che regolava il sistema pensionistico militare. Il risultato è un immediato innalzamento del 15% delle pensioni dei generali, ora circa sui 500 dollari mensili.

Ma mentre i militari guadagnano, gli operai delle loro fabbriche si ribellano. Nello stesso mese, duemila lavoratori nel settore petrolifero si sono lamentati delle loro condizioni lavorative e a marzo, operai di compagnie come Petrojet e Petrotrade hanno manifestato in strada, scatenando la risposta violenta dell’esercito che li ha condotti davanti a tribunali militari.

La mancanza di trasparenza nelle casse dell’esercito potrebbe andare avanti per anni. Le trattative con il Fondo monetario internazionale per un prestito di 4,8 miliardi di dollari mirano anche a incoraggiare gli investimenti di cui l’economia egiziane ha estremamente bisogno. Questi necessitano però di un’economia aperta e trasparente, nella quale tutte le imprese sono ugualmente responsabili ai sensi delle leggi statali.

Per proteggere i loro interessi, i militari non sembrano interessati a garantire questa trasparenza. A rimetterci, ancora una volta, i cittadini.

Azzurra Meringolo è ricercatrice presso l’Istituto Affari Internazionali (IAI), e caporedattrice di Affarinternazionali. Coordinatrice scientifica di Arab Media Report. È autrice di "I Ragazzi di piazza Tahrir" e vincitrice del premio giornalistico Ivan Bonfanti 2012. Potete seguirla sul suo blog e su twitter a @ragazzitahrir.
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Tunisia: dimissioni del Governo

Tunisia
Tunisia 123
Durante lo scorso fine settimana, il governo tunisino guidato da Ali Larayedh ha accettato di presentare le proprie dimissioni al termine di un lunghissimo braccio di ferro con le opposizioni. Dopo una serie di incontri tra gli esponenti dell’esecutivo uscente e i leader delle forze d’opposizione, sarà dunque varato un governo tecnico con il compito di preparare il terreno per le prossime elezioni politiche. La crisi, nata con l’uccisione del deputato dell’opposizione Mohamed Brahmi e accelerata dalle incessanti manifestazioni di protesta che hanno avuto luogo nelle ultime settimane, segna temporaneamente la fine della stagione di Ennahda al potere e mostra, ancora una volta, quanto impervio e tortuoso sia il percorso di ricostruzione democratica intrapreso dal Paese dopo la caduta del regime di Ben Ali.
Ennahda sembra aver pagato l’ambiguità del proprio rapporto con le realtà salafite attive nel Paese. Una di queste, il gruppo! Ansar al-Sharia, è considerato dalle autorità responsabile sia della morte del leader dell’opposizione Chokri Belaid, ucciso nel febbraio scorso presso la propria abitazione, che di quella dello stesso Brahmi. Le proteste popolari scatenatesi per la morte di Belaid avevano portato a un rimpasto governativo volto a rendere più intransigente l’azione dell’esecutivo contro i gruppi legati all’Islam radicale. Quelle per l’omicidio di Brahmi, più costanti, hanno invece dato ulteriore dimostrazione di come il movimento Ennahda, in netto calo di consensi negli ultimi mesi, sia profondamente influenzabile dalle pressioni della popolazione.
I prossimi mesi appaiono decisivi per capire quale direzione intraprenderà ora il Paese. Soprattutto, importante è vedere quale percorso seguiranno le principali forze politiche, alle prese con sfide complesse e questioni irrisolte. All’opposizione occorrerà trovare un’inedita coesione, tale da permettere alle forze laiche! dello spettro politico tunisino di presentare un fronte competitivo in occasione delle prossime elezioni. Ennahda potrebbe invece approfittare di un possibile periodo di stabilità per meglio definire la propria identità, rimasta negli ultimi mesi nascosta dietro un difficile gioco di equilibrismo politico. CESI Weekly 123

LIbia: attacchi alle infrastrutture petrolifere

Libia
Libia 123
Il 30 settembre, un gruppo armato formato da miliziani Amazigh, tribù berbera del nord del Paese, ha attaccato l’infrastruttura gasifera di Mellitah, nei pressi di Nalut, cittadina nord-occidentale al confine con la Tunisia. In seguito all’irruzione, gli impianti della stazione di compressione, operata dall’italiana ENI, sono stati spenti. Mellitah è il punto di inizio del Greenstream, gasdotto che rifornisce l’Italia. Le ragioni che hanno portato all’attacco dell’infrastruttura energetica da parte dei miliziani Amazigh sono da ricercare nelle rivendicazioni politiche, economiche e sociali che la minoranza berbera continua a manifestare nei confronti del governo di Tripoli, prima fra tutte l’aumento dei salari e il riconoscimento del Tamazigh, la lingua degli Amazigh, come lingua ufficiale della Libia al pari dell’arabo. La prassi di attaccare le infrastrutture energetiche come forma di rappresaglia verso il governo centrale è! diventata un modus operandi sempre più diffuso tra le milizie ribelli. Infatti, alcuni mesi fa, milizie di etnia Toubou avevano attaccato le strutture estrattive del bacino petrolifero Elefante, nella parte centro-occidentale del Paese, operato da una società consorziata con ENI. Oltre a rappresentare un rischio di natura politica e di sicurezza, tali ostilità da parte delle milizie pregiudicano la ripresa economica libica e mettono in pericolo l’approvvigionamento energetico dei suoi clienti, tra cui l’Italia. Basti pensare che, da quando è caduto il regime di Gheddafi, la produzione petrolifera libica è passata da 1,5 milioni di barili al giorno ad appena 100.000.

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Geopolitical Weekly n°123