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Metodo di Ricerca ed analisi adottato


Il medoto di ricerca ed analisi adottato è riportato suwww.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com

Vds. post in data 30 dicembre 2009 seguento il percorso:
Nota 1 - L'approccio concettuale alla ricerca. Il metodo adottato
Nota 2 - La parametrazione delle Capacità dello Stato
Nota 3 - Il Rapporto tra i fattori di squilibrio e le capacità delloStato
Nota 4 - Il Metodo di calcolo adottato

Per gli altri continenti si rifà riferimento al medesimo blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com per la spiegazione del metodo di ricerca.

giovedì 23 giugno 2016

Collaborazione strategica tra il Qatar e l'Italia

Difesa
Nuova flotta italiana per il Qatar
Michele Nones
17/06/2016
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La firma dell’accordo fra Italia e Qatar per l’allestimento della loro nuova flotta ha un significato che va oltre il pur rilevante valore economico: 5 miliardi di euro di cui 3,8 miliardi a Fincantieri per la costruzione di quattro grandi corvette da circa 4000 tonnellate e una nave anfibia da circa 8000 tonnellate, oltre a due pattugliatori minori, equipaggiate con i più moderni sistemi elettronici e di armamento, e 1,1 miliardi a MBDA Italia per i sistemi missilistici antiaerei e antinave.

Collaborazione strategica tra Italia e Qatar
È, infatti, anche l’inizio di una collaborazione strategica fra i due paesi, ottenuta grazie al sostegno del Ministero della Difesa che vi ha giocato un ruolo di primo piano a livello politico, operativo e tecnico. L’accordo prevede, infatti, oltre la fornitura delle navi complete e un sostegno logistico decennale da parte dell’industria italiana, anche l’addestramento da parte della Marina Militare dei nuovi equipaggi che bisognerà formare per rendere operativa la flotta qatarina: il loro personale frequenterà corsi di formazione e verrà imbarcato sulle unità italiane in attesa di ricevere nei prossimi sei anni le nuove navi.

Un ottimo risultato, ottenuto superando importanti concorrenti grazie a un mix di supporto governativo, sostegno militare e capacità tecnologiche e industriali. Alla fine hanno vinto la credibilità e l’affidabilità della Marina - che ha convinto il Qatar ad acquisire navi diverse e di minori dimensioni, ma con caratteristiche analoghe a quelle recentemente ordinate con il nostro Programma Navale - e della Fincantieri, che ha offerto un’efficace soluzione sul piano del rapporto costo/efficacia e del futuro supporto logistico.

Si conferma così che vi sono delle aree di eccellenza italiana nel campo dell’aerospazio, sicurezza e difesa dove una corretta ed efficiente gestione delle imprese con lo sviluppo di prodotti competitivi, unita a un adeguato supporto all’innovazione tecnologica e trainata dalle commesse nazionali, può consentirci di competere sul mercato internazionale.

È il più importante contratto mai conseguito dall’Italia per equipaggiamenti militari italiani e, in particolare, il maggiore in campo navale (se si esclude lo sfortunato accordo con l’Iraq del 1980, prima della guerra con l’Iran).

L’Italia espande la collaborazione militare con il Golfo
Si accompagna, inoltre, ai contratti firmati negli ultimi mesi per la fornitura da parte di Finmeccanica-Leonardo di 28 velivoli Thyphoon del consorzio europeo Eurofighter al Kuwait e da parte di Piaggio Aerospace di 8 velivoli a pilotaggio remoto P.1HH agli Emirati Arabi Uniti. L’Italia sta, quindi, espandendo la sua collaborazione militare e industriale con importanti paesi del Golfo, assumendovi un maggiore ruolo politico.

Bisogna però ricordarsi che la realtà è dialettica e che, in questo caso, è l’opportunità che potrebbe trasformarsi in un rischio: sul terreno della sicurezza e della difesa, soprattutto in aree particolarmente “delicate”, non ci si possono permettere errori, disattenzioni o, peggio ancora, mancato rispetto degli impegni assunti. In caso contrario quel sistema-paese che ha giocato oggi come valore positivo può rischiare di essere travolto in una spirale negativa.

Ieri si sono firmati tre accordi: uno a livello governativo, che si inquadra in quello generale del 2010 (confermando che ci vogliono anni per costruire un rapporto di reciproca fiducia e conoscenza) e due a livello industriale, il contratto per Fincantieri e una lettera di intenti vincolante per MBDA Italia.

Questa soluzione è anche l’inevitabile risultato della nostra normativa che prevede solo lo svolgimento da parte del Ministero della Difesa di attività di supporto tecnico-amministrativo a favore di Stati esteri per l’acquisizione di equipaggiamenti militari: differentemente dai principali concorrenti (Usa, Francia, Regno Unito) non può esplicitamente firmare un contratto che, quindi, va sottoscritto dall’impresa interessata.

Quadro normativo da modificare?
La preoccupazione del legislatore è stata quella di non coinvolgere il Ministero in operazioni commerciali, sottovalutando il fatto che la tendenza internazionale è, invece, proprio quella di realizzare accordi governo-governo col duplice vantaggio di ricondurre la cessione di armamenti alla politica internazionale e rimuovere dall’origine ogni rischio di inquinamento ad opera del sottobosco degli intermediari che operano anche su questo mercato (proteggendo l’industria fornitrice da possibili pressanti richieste da parte dello stesso cliente).

Questa nuova esperienza richiama, di conseguenza, l’attenzione sull’opportunità di modificare il quadro normativo, allineando l’Italia ai paesi amici e alleati e rafforzando il valore politico delle esportazioni militari.

Un ulteriore insegnamento è legato alla selezione delle reali possibili commesse acquisibili sul mercato internazionale. Né l’industria né il sistema-paese hanno le risorse per inseguire ogni potenziale vendita.

Si devono compiere, con largo anticipo, precise scelte sulla base dei nostri interessi nazionali e di una valutazione obiettiva delle possibilità: la prossima riforma del Ministero della Difesa con la costituzione di una specifica Direzione Nazionale degli Armamenti e della Logistica offrirà la migliore occasione per impostare e gestire più efficacemente una strategia nazionale in questo settore, in stretto coordinamento con tutte le altre Amministrazioni coinvolte e la Presidenza del Consiglio.

Michele Nones è consigliere scientifico dell’Istituto Affari Internazionali.

domenica 12 giugno 2016

Egitto: il problema della comunicazione

Medio Oriente
Egitto, libertà di stampa ostaggio dei gattopardi
Azzurra Meringolo
07/06/2016
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Almeno altri 45 giorni di carcere. È questa la sorte che spetta ad Ahmed Abdallah, presidente della commissione egiziana per i diritti e le libertà, accusato di aver partecipato a manifestazioni non autorizzate.

Insieme a lui, resta in carcere anche l’avvocato Malek Adly, ritenuto colpevole di aver incitato gli egiziani a criticare, con manifestazioni di strada, il dono con il quale presidente Abdel Fattah al-Sisi ha deciso di omaggiare la casa regnante saudita: ovvero i due isolotti del Mar Rosso di Tiran e Sanafir.

Oltre alle accuse ufficiali del momento,in entrambi i casi pesa il fatto cheAdly e Abdallah siano due attivisti da anni invisi al regime di turno e ora ancora più ingombranti visto l’aiuto dato alla famiglia e ai legali di Giulio Regeni che cercano di fare luce sulla tragica morte del giovane ricercatore.

Giornalisti in rivolta
Questi eventi, arrivati alle nostre orecchie perché vicini a un caso a cui siamo più sensibili, sono in realtà la cartina di tornasole dell’ennesima ondata repressiva che sta attraversando l’Egitto di Al-Sisi e che nelle ultime settimane ha preso di mira soprattutto la libertà di stampa. A mostrarlo è stato, la settimana scorsa, l’arresto di Yehia Qalash, presidente del sindacato dei giornalisti. Gesto, quest’ultimo, che ha messo a nudo la battaglia tra ministero degli Interni e sindacato. Uno scontro che sta toccando un apice mai raggiunto prima nella storia dell’Egitto repubblicano.

La miccia che ha aperto lo scontro con il sindacato dei giornalisti è stata il raid con il quale, il 1° maggio, la polizia ha fatto irruzione nella sede della corporazione per arrestare Mahmoud al-Sakka e Amr Badr. Questi giornalisti (entrambi fondatori, nel 2015, di Bidaia, il movimento - in fretta bandito - che da mesi chiedeva la ristrutturazione del ministero degli Interni e l’abolizione della severa legge sulle manifestazioni) avevano organizzato un sit-in di protesta contro le precedenti retate con le quali la polizia aveva cercato di azzittire quanti criticavano la cessione di due isolotti del Mar Rosso.

Dopo questa inedita retata, unica lungo il Nilo,Qalash aveva indetto un’assemblea sindacale durante la quale sono state prese una serie di decisioni per portare avanti la protesta contro il ministero degli Interni, il vero obiettivo di quasi tutti i manifestanti egiziani che negli ultimi mesi hanno trovato il coraggio di tornare in strada.

Ma ancora prima di combattere contro quello che è ritenuto il nemico esterno, i giornalisti devono fare i conti in casa propria. L’ala del sindacato più lealista al regime, quella che da mesi si limita a pubblicare o a leggere le veline del governo, ha infatti convocato un’altra assemblea per prendere le distanze “da quanti vogliono trasformare il sindacato in un partito politico”.

Visto dai corridoi dei sindacati, lo scontro fratricida - ben evidente dalle diverse titolazioni dei media statali rispetto a quelle dei media privati che ora, dopo un paio di anni di allineamento, tornano a fare sentire la loro voce - sembra aver consegnato la vittoria all’ala rivoluzionaria. Ma potrebbe trattarsi di una vittoria di Pirro. A mostrarlo non è solo la fine fatta da Qalash, ma anche le dinamiche all’interno dell’ambiente mediatico egiziano.

Lifting di regime
Solo nelle ultime due settimane, si è assistito ad acquisizioni e fusioni di canali televisivi di tale importanza che si può parlare di un vero e proprio rimodellamento della mappa multimediale egiziana. Un restyling che sembra in realtà un lifting di regime.

Il volto più rappresentativo di questa evoluzione è quello di Elham Sharshar, moglie di Habibel-Adly, ultimo ministro degli Interni dell’epoca di Hosni Mubarak e deus ex machina della repressione di regime di allora. La notizia dell’apertura di un nuovo giornale da parte di Sharshar è arrivata poche ore dopo quella - da confermare - secondo la quale el-Adly sarebbe pronto a riconciliarsi con il regime.

Restando nella cerchia dei gattopardi, c’è un altro nome che in questi giorni ricompare sulla stampa egiziana. È quello di Makram Mohammed Ahmed, giornalista dichiaratamente pro-regime che in passato è stato ai vertici del sindacato. Secondo le voci che circolano, potrebbe essere lui a prendere il posto di Qalash.

Il risveglio del sindacalismo 
Questa notizia - che solo il tempo potrà confermare - mostra che la battaglia interna al sindacato dei giornalisti è tutt’altro che sopita. Qualora vincessero i lealisti, veline, censura, e incensamento del regime tornerebbero a diventare non solo pane quotidiano degli operatori dell’informazione, ma anche pratiche istituzionali. E la stampa di corte racconterebbe solo di strette di mano, visite ufficiali, accordi commerciali.

Qualora a spuntarla fossero invece le voci stonate, c’è da scommettere che queste proverebbero ad assumere la leadership della protesta sindacale che a inizio anno ha già visto insorgere l’ordine dei medici. Le sinergie tra questi due sindacati si sono già manifestate e non si può escludere che diventino contagiose. Non sarebbe la prima volta. Nel 2011, i giornalisti ci misero la testa, gli altri i numeri. E ora, dopo due anni e mezzo di apatia, le centinaia di sindacati nati dopo la rivoluzione sembrano pronti a rimboccarsi le maniche.

Azzurra Meringolo è ricercatrice presso lo IAI e caporedattrice di Affarinternazionali. Coordinatrice scientifica di Arab Media Report. Potete seguirla sul suo blog e su twitter a @ragazzitahrir.

martedì 7 giugno 2016

Prospettive per il Continente nero

Paesi in via di sviluppo
Africa, la quarta rivoluzione industriale 
Chiara Rogate
06/06/2016
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Connettere le risorse dell'Africa attraverso la trasformazione digitale. È stato questo il titolo del 26esimo incontro annuale del Forum economico mondiale (Fem) di Kigali focalizzato sull’Africa.

Mentre nel 2015 la maggior parte delle economie africane sono scese ai livelli di crescita del 2009, quella ruandese è diventata la quinta economia africana in rapida espansione grazie a politiche e investimenti diretti a sviluppare il settore dei servizi ed a trasformare il Paese in un punto di riferimento regionale per l’alta tecnologia.

La crescente vulnerabilità dei Paesi africani a fluttuazioni del prezzo delle materie prime, svalutazioni monetarie, insostenibilità del debito e instabilità geopolitiche, sottolinea nuovamente l’urgenza di investimenti per la diversificazione economica e per uno sviluppo inclusivo.

L’Africa subsahariana, bypassata dalle precedenti rivoluzioni industriali, si presta per molti aspetti a saltare sul carro delle più recenti innovazioni tecnologiche, ma per una crescita sostenibile, l’impatto dei cambiamenti climatici sul continente non può essere ignorato né considerato in isolamento.

Africa e innovazione digitale
Dopo Davos, i tre giorni a Kigali si sono concentrati sul tema della “quarta rivoluzione industriale”, questa volta per il futuro delle economie africane. Il termine, coniato dal Professore Klaus Schwab (fondatore e presidente del Fem) è apparso per la prima volta nel dicembre 2015 in Foreign Affairs e vede al centro dei meccanismi di produzione, competitività e consumo, strumenti quali l’intelligenza artificiale, la bio- e la nanotecnologia, e la fusione di tecnologie prima appartenenti alle sfere della fisica, del digitale e della biologia.

L’Africa è in una posizione unica per trarre vantaggio dall’economia digitale: è giovane (il cosiddetto “dividendo demografico” potrebbe contribuire ad un incremento del Pil tra l’11 e il 15 percento nel periodo 2011-2030); meglio educata che in passato (l’alfabetizzazione è quasi ovunque al 70 percento); più ricca (il tasso di povertà estrema è calato dal 56 al 35 percento dal 1990); e vi è un rischio minore di contrarre Aids e malaria (tra il 2000 ed il 2012 la mortalità per malaria è calata del 50 percento).

Un terzo della popolazione è in possesso di un telefono cellulare, i sistemi di moneta elettronica (e-mobile systems) sono in rapida espansione (si veda il successo di M-Pesa in Kenya), ed una rete di start-up ispirato alla Silicon Valley si sta velocemente sviluppando, con 200 centri d’innovazione già esistenti e finanziamenti in crescita letteralmente esponenziale (da 40 milioni di dollari nel 2012 a 414 milioni nel 2014).

Siccità e crisi alimentare 
Per quanto promettente, questo scenario cela la fragilità dei progressi ottenuti. Non solo una vera e propria trasformazione economica non si è ancora realizzata, ma la crescita è dipendente dai settori (agricoltura e pesca) maggiormente vulnerabili agli impatti dei cambiamenti climatici (alluvioni e siccità, per esempio) ed il continente stesso è a livello globale il più esposto ed il meno preparato ad adattarsi.

Il settore agricolo, che impiega il 70 percento della popolazione sub-sahariana e contribuisce ad un quarto del Pil, sarà il più colpito, con gravi ripercussioni per la sicurezza alimentare già sotto pressione demografica. Per il 2030, le più recenti stime della Banca mondiale in Africa e Asia prevedono una diminuzione dei raccolti del 5 percento, un incremento del 12 percento dei prezzi alimentari, ed una perdita tra il 40 fino all’80 percento dei terreni arabili (per il 2030/2040). È inoltre previsto un incremento del 5 percento nell’incidenza della malaria e del 10 percento della dissenteria.

A queste, si sommano le perdite nel settore della pesca, del turismo, un aumento dei disastri naturali, del numero e della propagazione di virus (nel 2015, l’Ebola ha provocato nell’insieme una diminuzione del 12 percento del Pil per Guinea, Sierra Leone e Liberia), dei flussi migratori e delle instabilità politiche e sociali. L’impatto aggregato dei cambiamenti climatici sul Pil è dunque difficile da stimare, tanto che a seconda del modello usato (e del paese) i costi annuali in termini di Pil fino al 2030 variano dall’1,5 al 10 percento.

Un futuro tridimensionale
Per quanto sia mitigazione che adattamento dipendano da uno sviluppo economico “intelligente”, dall’impiego di tecnologie pulite a colture resilienti, il Fem ha discusso i cambiamenti climatici brevemente e fuori dall’agenda principale.

Tuttavia, i cambiamenti climatici riducono la produttività, le possibilità di risparmio ed investimento ed inficiano la crescita economica nel breve e lungo periodo. Per essere sostenibile, la crescita non può più tener separate la dimensione economica, sociale ed ambientale. L’alternativa, è un futuro con 100 milioni di poveri in più tra Africa e Asia già nel 2030

Fonte dei dati: Banca Mondiale.

Chiara Rogate si occupa di sviluppo energetico nel Dipartimento di Africa della Banca mondiale a Washington
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sabato 4 giugno 2016

Algeria: nuovi rapporti con la sponda nord

Mediterraneo
Energia, tavolo Algeria-Ue
Lorenzo Colantoni
27/05/2016
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Il primo Business Forum su tema energetico tra Unione europea, Ue, e Algeria. È quello che si è appena concluso ad Algeri e che ha visto coinvolti il Commissario europeo al clima e all’energia Miguel Arias Cañete e il ministro dell’Energia algerino Salah Khebri.

L’iniziativa riapre il discorso sullo sfruttamento delle risorse di idrocarburi nel paese e il suo rapporto con l’Ue, in una situazione in cui però l’instabilità politica latente, un’organizzazione del settore non adeguata alla promozione di nuovi investimenti e la presenza di alcune rigidità del sistema algerino rischiano di impedire lo sfruttamento adeguato delle vastissime risorse. Problemi che potrebbero incrinare ulteriormente la già fragile situazione politica interna.

Algeria, potenza energetica in declino
Le potenzialità dell’Algeria sono estremamente significative: è il primo produttore di gas naturale in Africa, uno dei tre principali di petrolio. Secondo i dati dell’Oil and Gas Journal del 2016, le sue riserve di gas naturale sono le undicesime più grandi al mondo, le seconde in Africa dopo la Nigeria.

Le stime della Energy Information Administration, Eia, del 2013 mettono le riserve di shale gas addirittura al terzo posto a livello mondiale, dopo Argentina e Cina. Grazie alle sue risorse, alla posizione geografica e ai tre gasdotti che la collegano, due con la Spagna e uno con l’Italia tramite la Tunisia, l’Algeria ha un ruolo significativo per l’Europa, di cui è il secondo fornitore di gas e a cui esporta il 76% del suo greggio. Eppure, nonostante le potenzialità, la produzione di gas e petrolio è andata diminuendo negli ultimi anni.

Sonatrach e le difficoltà di attrarre gli investimenti
La difficoltà maggiore per l’Algeria sta nell’attrarre nuovi investimenti, sia per sfruttare le risorse esistenti, sia per proseguire l’esplorazione. È la stessa compagnia nazionale Sonatrach a sostenere che i due terzi del territorio algerino non siano stati esplorati del tutto o in maniera adeguata e i problemi non riguardano esclusivamente le diffuse proteste verso l’utilizzo delle risorse non convenzionali.

Nelle ultime aste per gli appalti per lo sfruttamento di gas e petrolio pochi sono stati i lotti assegnati: 4 su 31 nel 2014, mentre nel 2015 le aste sono state direttamente cancellate.

Le ragioni sono molteplici, ma soprattutto relative alle sfavorevoli condizioni imposte dal governo algerino alle compagnie straniere dopo la revisione dell’ultima legge sullo sfruttamento degli idrocarburi, del 2005, avvenuta l’anno successivo.

Al momento, Sonatrach deve possedere il 51% di qualsiasi nuovo progetto estrattivo, ma i costi sostenuti durante la fase di esplorazione sono interamente a carico dell’investitore privato. Regole che rendono gli investimenti in Algeria meno attraenti, soprattutto se si aggiunge i rischi della corruzione endemica alla stessa Sonatrach; lo scandalo legato alle tangenti del 2012 portò con sé anche Saipem, che nel 2013 perdette il 34% del proprio valore in borsa.

Il forum ha quindi ruotato principalmente intorno a questi problemi, vista anche la partecipazione tanto a livello istituzionale che privato, con oltre 170 imprese partecipanti agli incontri tra imprese locali ed europee (B2B). Se una nuova legge sugli idrocarburi sarebbe la soluzione preferibile, è forse però quella meno probabile, ed è più facile pensare a una serie di piccole riforme, come già fatto nel 2006, ma questa volta in senso positivo per gli investitori.

Il punto è quello di creare un business environment che permetta una maggiore attrazione degli investimenti tramite procedure amministrative più snelle, accordi migliori in termini di tassazione, superficie dei lotti e con una presenza statale inferiore al monolitico 51%.

L’energia e l’instabilità algerina
Un rinnovato sviluppo del settore degli idrocarburi in Algeria è fondamentale, anche per garantire quella stabilità che al paese sembra mancare in maniera crescente. Da una parte l’Algeria vede la domanda di energia crescere, con la generazione elettrica però ancora coperta per il 93% dal gas naturale nel 2013, secondo l’Eia.

Mentre la produzione diminuisce, l’aumento del consumo rischia di erodere la quantità di gas e petrolio disponibile, che rappresentano, secondo il Fondo monetario internazionale, il 95% delle esportazioni e il 25% di tutto il Pil del paese. Questo aggrava una situazione già colpita dai prezzi bassi del petrolio, con un punto percentuale di Pil in meno dal 2014 al 2015 e misure di austerità già prese nel dicembre 2015 dal governo algerino.

Il tutto in una situazione politica di estrema instabilità: sempre nel dicembre 2015, il New York Times riportava il vuoto di potere dovuto alle pessime condizioni di salute del presidente Abdelaziz Bouteflika e un presunto soft coup operato dall’entourage del presidente, provato dalle sostituzioni ai livelli top delle forze armate e dell’intelligence e alla stretta sulla libertà dei media, già fortemente compromessa.

Le violazioni ai diritti sono infatti diffuse: nel febbraio 2016 Euromed Rights, ong impegnata nella difesa dei diritti umani nell’area mediterranea, riportava le numerose violazioni alle libertà individuali, di associazione e di stampa in Algeria, come quelle relative alle proteste del luglio 2015 e quelle, più gravi e strutturali, che potrebbero derivare dalla prevista revisione della costituzione.

Un rinnovato sviluppo del settore energetico, in collaborazione con l’Ue, potrebbe contribuire con una crescita più solida allo stabilizzarsi della situazione politica, anche tramite le energie rinnovabili che potrebbero diminuire la pressione del consumo sulle risorse fossili. È questo il motivo per cui la Commissione ha destinato in occasione del Business Forum dieci milioni di euro per i due programmi algerini per le energie rinnovabili e per l’efficienza energetica (Pner e Pnee).

Il settore energetico, d’altronde, non ha che perdere dall’instabilità: nel marzo 2016, a seguito dell’attacco agli impianti di estrazione di gas rivendicati da Al Qaeda, BP e Statoil hanno dovuto ritirare i propri dipendenti dai due più grandi giacimenti di gas algerini. La prova di un pericoloso circolo vizioso tra energia, crescita e stabilità politica, che l’Algeria dovrà cercare di fermare.

Lorenzo Colantoni è Junior Fellow presso lo IAI –Twitter@colanlo.
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Egitto: alla ricerca della sicurezza perduta

Sicurezza negli aeroporti: le sfide
Dopo Bruxelles, il disastro Egyptair
Sofia Cecinini, Alessandro Marrone
27/05/2016
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In attesa di sapere le vere dinamiche del disastro aereo Egyptair, il tema della sicurezza negli aeroporti è tornato al centro del dibattito tra le autorità internazionali. Se le indagini confermassero che si è trattato di un attentato, significherebbe che, ancora una volta, c'è stata qualche falla nella sicurezza di uno dei luoghi ritenuti più a rischio.

Come quanto accaduto all’aeroporto dii Bruxelles Zaventem due mesi fa, lo Charles-de-Gaulle è stato setacciato dalle autorità francesi alla ricerca di possibili indizi che siano in grado di dare una spiegazione alla catastrofe. Già nel mese scorso, l'Unione europea, Ue, e gli Stati membri avevano iniziato a discutere una serie di misure per far fronte alla minaccia terroristica verso gli aeroporti europei.

Le mosse dell’Ue
Diversi gli obiettivi più importanti fissati dal comunicato congiunto dei ministri della giustizia e degli interni dell'Ue riunitisi il 24 marzo. Si parte dall’attuazione della direttiva sul codice di prenotazione, Pnr, contenente tutte le informazioni riguardo ai passeggeri.

È previsto infatti che ogni Stato membro stabilisca una propria “Unità di informazione passeggeri”, Uip, per raccogliere i dati delle compagnie aeree e scambiarli reciprocamente nel minor tempo possibile. Tali dati dovranno essere conservati per un periodo di cinque anni.

Vi è poi il tema della condivisione delle informazioni tra le autorità e gli operatori dei trasporti in modo da adottare misure di attenuazione ove necessario. Altri obiettivi sono il completamento della legislazione in materia di lotta contro il terrorismo e l’attuazione di controlli sistematici delle frontiere esterne dell'area Schengen, portando avanti un'ulteriore cooperazione antiterrorismo tra l'Ue, la Turchia e i Paesi del Nord Africa, del Medio Oriente e dei Balcani occidentali.

I ministri riunitisi hanno poi deciso di sostenere il Gruppo contro-terrorismo, Ctg, e la creazione di una piattaforma dedicata allo scambio multilaterale di informazioni in tempo reale, prevedendo anche un più frequente ricorso a squadre investigative congiunte europee al fine di coordinare le indagini e raccogliere e scambiare prove.

Simili punti si trovano nel documento per contrastare le minacce “ibride” adottato dalla Commissione europea e dall'Alto Rappresentante il 6 aprile, in cui viene sottolineato anche che la cooperazione ed il coordinamento tra Nato e Ue è di fondamentale importanza.

Nuove sfide per l’Europa
Se fino ad oggi le procedure di controllo sono state volte ad evitare che i potenziali terroristi salissero a bordo dei velivoli, le esplosioni nelle sale delle partenze a Zaventem hanno reso evidente che le grandi aree pubbliche sono oggi vulnerabili ad attacchi.

L'Europa deve quindi fronteggiare la necessità di incrementare fortemente i livelli di sicurezza nei cosiddetti “soft target”, ovvero le aree comuni di passaggio. Da qui la necessità di introdurre monitoraggi più completi, anche delle aree meno frequentate dai viaggiatori, con telecamere e sistemi di rilevamento in grado di individuare l'introduzione nell'area di materiale pericoloso, così come l'aumento della presenza dei unità cinofile all'interno delle sale delle partenze.

L'efficacia di queste misure tuttavia è strettamente connessa alle capacità di prevenzione delle autorità nazionali e internazionali e alla loro interazione. Non a caso, si è molto discusso di errori da parte belga che hanno posto il Paese al centro di polemiche a livello internazionale.

Non è la prima volta che Bruxelles riceve critiche per la cattiva gestione delle indagini relative al terrorismo. Ad esempio, una volta catturato Salah Abdeslam, responsabile degli attacchi coordinati di Parigi del 13 novembre, la notizia diffusa dalle autorità belghe riguardo la collaborazione del terrorista con gli inquirenti potrebbe aver accelerato l’attuazione di nuovi attentati da parte dei jihadisti ancora in libertà. Probabilmente, se la notizia fosse stata mantenuta riservata, l’intelligence belga avrebbe potuto fare un utilizzo diverso delle informazioni ottenute per cercare di prevenire le mosse di altri terroristi.

Israele può essere un modello?
Una delle critiche più severe è venuta dall'ex Direttore di sicurezza dell'aeroporto di Tel Aviv considerato uno dei più sicuri al mondo, che ha affermato che un attacco del genere non sarebbe mai potuto accadere al suo Ben Gurion.

Sui media internazionali si è discusso se e come certe pratiche considerate da molti “troppo dure” possano contribuire a una sicurezza efficace. Ad esempio, in Israele i passeggeri vengono interrogati da agenti addestrati ancora prima di raggiungere il check-in. Questa attività, chiamata Profiling, può durare qualche minuto o un'ora intera, a seconda delle caratteristiche della persona che emergono durante il colloquio, con lo scopo di identificare individui potenzialmente pericolosi.

Basandosi sul presupposto che gli attacchi terroristici vengono compiuti da persone in grado di essere riconosciute e fermate, il “fattore umano” è considerato la chiave del modello di sicurezza israeliano. Tale approccio è completato da un monitoraggio totale da parte di telecamere anche delle aree dell'aeroporto meno frequentate dai viaggiatori, e da sistemi di rilevazione per individuare l'introduzione nell'area di materiali pericolosi.

Se può essere utile considerare tale modello di sicurezza i 73 milioni di passeggeri annui negli aeroporti europei - contro i 15 milioni di Ben-Gurion - rendono più difficile attuare le medesime misure anche in ambito Ue.

Non bisogna infine dimenticare che l'esigenza di migliorare la sicurezza negli aeroporti europei deve essere affiancata da un aumento immediato della condivisione di informazioni tra le autorità dei singoli Paesi membri, soprattutto tra i rispettivi servizi di intelligence nazionali, per evitare che la violenza jihadista riesca nuovamente a colpire il Vecchio Continente.

Sofia Cecinini è stagista presso l’area Sicurezza e Difesa dello IAI; Alessandro Marrone è responsabile di ricerca del Programma sicurezza e difesa dello IAI (Twitter @Alessandro__Ma).
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