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Metodo di Ricerca ed analisi adottato


Il medoto di ricerca ed analisi adottato è riportato suwww.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com

Vds. post in data 30 dicembre 2009 seguento il percorso:
Nota 1 - L'approccio concettuale alla ricerca. Il metodo adottato
Nota 2 - La parametrazione delle Capacità dello Stato
Nota 3 - Il Rapporto tra i fattori di squilibrio e le capacità delloStato
Nota 4 - Il Metodo di calcolo adottato

Per gli altri continenti si rifà riferimento al medesimo blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com per la spiegazione del metodo di ricerca.

mercoledì 23 dicembre 2015

Libia: i risultati del vertice di Roma

Medioriente
A Roma cambio di passo sulla Libia 
Roberto Aliboni
16/12/2015
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Il vertice di Roma sulla Libia ha segnalato sviluppi importanti. Non ha chiesto all’Onu uno sforzo di miglioramento dell’accordo proposto dall’organizzazione e avversato da vari gruppi.

Ha invece avallato la proposta delle Nazioni Unite così com’è, incoraggiando quelle parti che già l’hanno approvata (e che si riuniranno a Skhirat mercoledì prossimo, 16 dicembre) a farlo in via definitiva, soprassedendo ad ogni ulteriore tentativo di intendersi con gli islamisti di Alba libica e gli altri oppositori della proposta stessa.

Verso Skhirat
Dal comunicato finale e dalle dichiarazioni del segretario Usa, John Kerry, risulta chiaramente che i partecipanti alla conferenza di Roma hanno ritenuto inutile ogni ulteriore tentativo di raggiungere un comprensivo accordo nazionale e intendono invece sostenere un governo che subirà, sì, una più o meno forte opposizione interna, ma avrà anche un vasto appoggio internazionale per venire a capo di questa opposizione, riprendere in mano l’economia del paese e porre le premesse per un contrasto efficace all’autoproclamatosi “stato islamico”, Isis.

Kerry ha detto “È tempo di sbloccare la situazione”, ed ha poi aggiunto che i paesi riuniti a Roma “non appena questo governo sarà formato, sono pronti ad incontrarlo al più presto per cominciare a stabilire cosa è necessario al fine di sostenere le misure da prendere”.

Le decisioni prese a Roma mettono in evidenza posizioni nuove. Hanno cambiato posizione innanzitutto gli occidentali che, non arrivando il governo comprensivo ed inclusivo da essi ritenuto necessario a stabilizzare la Libia, hanno deciso di accettare un governo meno comprensivo, ma disposto ad aprire la porta ad interventi di stabilizzazione dall’esterno che evidentemente vengono ormai ritenuti irrinunciabili. Il motore primo è l’espansione dell’Isis in Libia.

Ma - il che è forse anche più notevole - hanno cambiato posizione le potenze regionali che finora hanno sostenuto questa o quella delle parti in presenza esercitando forti interferenze.

Anche se resta da vedere fino a che punto e fino a quando ad Ankara, Riad e Doha resisterà questo cambiamento di posizione, vale la pena notare che un cambiamento è intanto emerso nel più impervio quadro siriano, dove questi tre paesi hanno, nei mesi scorsi, trovato un’intesa sul piano militare e ora hanno collaborato con successo, nella riunione di Riad del 10 novembre, a formare la delegazione unica che il “processo di Vienna” esige e che sembrava impossibile si potesse mai formare fra milizie e gruppi separati da profondi dissensi se non ostilità.

Variabile russa
L’entrata in guerra della Russia è probabilmente il fattore che ha convinto questi paesi a mettere da parte le discordie e avvicinarsi agli Usa. L’abbattimento del bombardiere russo da parte della Turchia può anche essere visto in questa chiave (e al tempo stesso come affermazione nella gara per la leadership fra le potenze regionali sunnite).

È cambiata anche la posizione russa, sempre molto critica verso le politiche occidentali riguardanti la Libia? Mosca si è tenuta un po’ sui margini della conferenza di Roma, inviando un viceministro degli Esteri invece del ministro.Nella conferenza stampa Kerry ha però riferito di un giudizio positivo e convergente da parte della Federazione Russa.

Dietro questo più cauto atteggiamento russo, come dietro la concordia delle potenze sunnite, si intravvedono gli sforzi in corso per trovare nuovi equilibri in Siria e dare possibilmente uno sbocco alla lunga crisi in questo paese e nella regione.

Se così è, lo si vedrà al procedere del processo di Vienna nei prossimi trenta-quaranta giorni. Siamo qui di fronte a fattori più o meno tattici che però rafforzano la nascente strategia occidentale e il suo fuoco sull’Isis.

La scommessa che gli Usa e gli europei hanno sostenuto a Roma con successo non ha però prospettive facili. Il governo di unità nazionale minoritario che nascerebbe a Skhirat potrebbe essere così debole da non riuscire neppure ad utilizzare il sostegno che gli viene promesso.

Un intervento in Libia rischia di restare illegittimo agli occhi della maggioranza del paese e di suscitare problemi poi difficili da risolvere. Non si tratta solo di reazioni negative da parte dei settori islamisti più radicali. Ci sono interessi e contrapposizioni anche da parte di interessi territoriali (come quelli dei così detti federalisti) e personali (come quelle del generale Heftar).

Gli ostacoli che abbiamo illustrato in un precedente articolo restano immutati. Inoltre, su una fine duratura delle interferenze da parte delle potenze regionali si può dubitare.

Infine, se le cose andranno secondo il percorso auspicato a Roma, l’Italia - con il chiaro appoggio degli Usa, prima che degli europei - è facile che riceva quel ruolo nel sostegno al governo di unità nazionale che il governo Renzi ha tanto auspicato. Ci saranno però difficoltà e occorre prudenza.

Roberto Aliboni è consigliere scientifico dello IAI.
- See more at: http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=

martedì 15 dicembre 2015

LIbia: alla ricerca del governo unitario

Libia
Roma prova a rilanciare il negoziato libico
Roberto Aliboni
11/12/2015
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Tutto è pronto. Domenica, il Ministero degli Esteri ospita una riunione internazionale sulla Libia, promossa da Italia e Stati Uniti, alla quale parteciperanno esponenti delle parti libiche.

Gli ultimi sviluppi in questo paese sono in effetti assai preoccupanti: da un lato, si conferma il radicamento dell’autoproclamatosi “stato islamico”, Isis, soprattutto nell’area di Sirte (con inediti afflussi di “foreign fighters” dall’Africa saheliana e sub sahariana); dall’altro, il mandato di mediazione sotto la guida di Bernardino Léon si è concluso con un nulla di fatto.

Il “governo di concordia nazionale” che dovrebbe riportare ordine nel paese, riavviare la produzione di idrocarburi, filtrare l’emigrazione illegale verso l’Europa e combattere l’Isis sul terreno appare quanto mai lontano. La prospettiva economica e finanziaria del paese, affidata alle restanti riserve della banca centrale, è infine agli sgoccioli.

Gli schieramenti politico-militari che si erano formati con lo scoppio della guerra civile nel luglio del 2014 si sono molto erosi sia nell’un campo che nell’altro. Le milizie ora si combattono fra loro, ora si alleano per combattere l’Isis, ma è evidente che i sia pur deboli nessi esistenti con le forze politiche non esistono praticamente più.

Il parlamento di Tobruk, uscito dalle elezioni del giugno del 2014, ha terminato il suo mandato in ottobre. Quel che ne resta è molto diviso. Le istituzioni di Tripoli non sono meno divise e smarrite. C’è un vuoto istituzionale, ma soprattutto è assente una qualsiasi prospettiva poiché la proposta di soluzione dell’Onu appare sempre più screditata e oppugnata.

La mediazione di Léon ha acquisito partigiani da una parte e dall’altra delle due coalizioni, scompattando trasversalmente le parti, ma non è riuscita a creare una dinamica sufficientemente unificante. La Libia appare di nuovo frammentata, come prima della guerra civile iniziata nel luglio del 2014.

Léon, dopo la Libia gli Emirati 
Occorre anche sottolineare che lo scandalo suscitato dalle rivelazioni del “Guardian” circa le intese personali che sarebbero intercorse fra Léon e il governo di Dubai (che mostrano un pregiudizio di Léon a favore di Tobruk a fronte di una ben remunerata posizione del diplomatico quale direttore di un think tank del governo degli Emirati), vere o false che siano, hanno largamente eliminato quel tanto di fiducia libica che Lèon era bene o male riuscito a riscuotere.

In questo contesto, l’ambasciatore Martin Kobler ha preso il posto di Léon. La sua scelta è di continuare a premere sulle parti affinché approvino e mettano in atto la bozza Léon.

Ha dei sostenitori, specialmente nell’ambito del parlamento di Tobruk, ma molti oppositori, specialmente a Tripoli, ma anche a Tobruk. Fra questi ultimi, un gruppo di deputati dell’una e dell’altra parte si è riunito in Tunisia da dove ha lanciato la proposta di un dialogo fra libici, articolato in un processo semplice e breve, da iniziare subito, in alternativa a quello dell’Onu. La proposta suscita un non indifferente interesse in Libia.

Le opzioni che potranno essere prese in considerazione a Roma non sono facili. Il proposito dell’Onu di insistere “comme si de rien n’était”, puntando sugli appoggi che la bozza Léon nondimeno riscuote (almeno nella versione meno partigiana adottata alla fine dell’estate), ma senza che si veda come superare le numerose e crescenti opposizioni, non sembra quella giusta.

Kobler, alla ricerca della fiducia perduta
Kobler dovrebbe offrire nuove proposte e una prospettiva di ulteriore modifica della piattaforma.

Innanzitutto dovrebbe assicurare maggiore trasparenza dei negoziati, che sotto la guida di Léon hanno proceduto nella continua separatezza delle parti. Le parti devono essere riunite attorno allo stesso tavolo e non sospettare che ci sia il pregiudizio che lo scandalo ha rivelato a favore di una delle due. Kobler dovrebbe cercare di recuperare la fiducia che è venuta meno - a torto o ragione che sia.

Alcuni nomi, come quello di Khalifa Haftar e Abdelk Rahman Suihaili dovrebbero essere nuovamente discussi poiché suscitano rigetti dall’una e dall’altra parte. La composizione dell’autorità esecutiva proposta nella bozza Léon dovrebbe essere ripresa in mano onde conferirle un migliore equilibrio di rappresentanza delle tre parti del paese.

Kobler infine dovrebbe incoraggiare una più stretta e idonea applicazione delle Risoluzioni Onu 1970 e 2174 e delle sanzioni e punizioni colà previste. Questo orientamento riguarda non solo e non tanto Kobler, ma soprattutto i membri dell’Onu, fra i quali ci sono anche sponsor regionali che da una parte invocano una soluzione, ma dall’altra di fatto la sabotano appoggiando una o l’altra delle parti in presenza.

Infine, Kobler e la comunità internazionale dovrebbero riconsiderare la questione della sicurezza. Il grande successo della mediazione di Léon è stato quello di staccare la città di Misurata dall’estremismo della coalizione di “Alba Libica”.

Tuttavia, pur avendo suscitato una corrente trasversale di adesione all’accordo nazionale, non ha dato soluzione a una serie di questioni concrete e scottanti, come in particolare la riforma del settore della sicurezza del paese. Questa questione non può essere semplicemente affidata a una fase successiva all’accordo.

È necessario che il nuovo governo abbia già alle spalle un minimo di consenso e direttiva sulla sua soluzione prima di potere materialmente procedere a compiti così rilevanti come esonerare il generale Haftar dalle sue funzioni di Capo supremo delle Forze Armate Libiche e dissolvere queste ultime ovvero integrare le forti milizie di Zintan, Tripoli e Misurata in una compagine unitaria di sicurezza nazionale.

Riforma del settore della sicurezza libica
Occorre riconoscere che questa è forse la questione più complessa in qualsiasi tentativo di risolvere la crisi libica. Tutti i governi più interessati, e da ultimo anche la Nato, affermano di essere disponibili a sostenere operazioni di pace per mantenere l’ordine e proteggere luoghi e persone - l’Italia in prima fila - ma a condizione che ci sia un governo.

Ma se questo governo non ha un mandato chiaro e un sostegno sufficiente delle parti almeno sulle condizioni di base per la riforma del settore della sicurezza, chiedendo l’intervento di forze di pace, metterebbe queste forze di fronte a un compito difficilmente sostenibile oppure, peggio, di fronte al rischio di trasformarsi in una forza partigiana ed essere quindi coinvolta in una nuova guerra civile.

Se davvero la comunità internazionale desidera sostenere e affermare una soluzione pacifica e politica alla crisi libica il compito è molto oneroso e impegnativo, sia per l’Onu che per quei paesi che tendono ad assumere la leadership di questa soluzione, come ora - si direbbe - l’Italia e gli Stati Uniti.

Occorre rettificare e riprendere in mano il negoziato su basi più neutrali e convincenti. Occorre contrastare le politiche d’interferenza nella crisi di alcune potenze regionali. Occorre infine lavorare per il varo e l’attuazione di una riforma del settore di sicurezza. Se questa riforma sarà impostata e la fiducia restaurata, si potranno mandare forze di pace per sostenerla, altrimenti è meglio lasciar perdere.

Un’ultima avvertenza è necessaria. Occorre che il nesso fra l’espansione dell’Isis in Libia e la soluzione politica della crisi libica sia inteso correttamente. Se, come in Siria, il problema dello “stato islamico” diverrà preminente nella percezione dei paesi oggi più interessati a dare una mano e condizionerà la soluzione al problema Libia, ci sarà un forte rischio di fallimento.

Roberto Aliboni è consigliere scientifico dello IAI.
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mercoledì 2 dicembre 2015

Libia: sempre più giù


Libia somalizzata, un assist agli estremisti 
Mirko Bellis
04/12/2015
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La Libia rischia di diventare “la prossima emergenza”, come ha ribadito Matteo Renzi durante il suo incontro a Parigi con il presidente francese François Hollande.

Quasi quattro anni dopo la caduta del regime di Muammar Gheddafi, la Libia è ancora nel caos con due governi rivali e due parlamenti: la Camera dei Rappresentanti a Tobruk, riconosciuta dalla comunità internazionale, e il Congresso Generale Nazionale con sede a Tripoli, sostenuto dalla coalizione filo-islamista di Alba Libica.

Da Léon a Kobler, gli sforzi della diplomazia 
La formazione di un governo di unità nazionale - dopo gli accordi raggiunti in ottobre a Skhirat in Marocco - deve ancora realizzarsi. Bernardino Léon, l’ex inviato speciale delle Nazioni Unite in Libia, in vista della scadenza del suo mandato, annunciò la formazione di un governo di unità nazionale guidato da Fayez El Sarraj, deputato della Camera dei Rappresentanti.

I partecipanti al processo di dialogo dovevano votare il nuovo governo prima del 20 ottobre. A più di un mese dalla scadenza però l’esecutivo libico non ha ancora visto la luce.

Anche se la maggioranza dei membri dei due parlamenti ha annunciato pubblicamente di appoggiare il piano proposto dalle Nazioni Unite, una minoranza di deputati - sia a Tripoli che a Tobruk - si oppongono alla votazione del nuovo governo di transizione.

La scorsa settimana a Tunisi, 27 membri della Camera dei Rappresentanti e del Congresso Generale Nazionale hanno espresso il loro rifiuto al piano presentato dall’Onu in quanto "non coerente con i principi della riconciliazione”.

Secondo quanto riportato da fonti locali, quanti si oppongono sono contrari a qualsiasi ingerenza straniera sul futuro della Libia. A questo si sommano le vicende legate al ruolo di Léon.

Sospettato di sostenere Tobruk a discapito di Tripoli, prima di uscire di scena Léon ha annunciato che andrà a lavorare, per 50 mila dollari al mese, nell’accademia di formazione diplomatica degli Emirati Arabi Uniti, un paese che non solo è coinvolto fino al gomito negli affari della Libia, ma che appoggia esplicitamente uno dei due governi, proprio quello orientale di Tobruk.

Tutto ciò ha aumentato la diffidenza dei libici verso la mediazione straniera. L’incontro di Tunisi tra i politici libici segna quindi una preoccupante battuta d’arresto dopo i passi avanti degli ultimi mesi.

Martin Kobler, il nuovo inviato Onu per la Libia, sta cercando di riannodare le fila attorno al processo di dialogo intrapreso da Leon. Kobler, dopo aver visitato la settimana scorsa Italia, Qatar, Emirati Arabi Uniti, Francia, Tunisia ed Egitto, sarà in questi giorni ad Algeri per la settima conferenza dei ministri degli esteri dei Paesi vicini della Libia.

La pressione diplomatica della comunità internazionale affinché venga presto approvato il nuovo governo è massima. Alla riunione di Algeri infatti prenderanno parte anche la Lega araba, l’Unione europea e l'Unione africana.

L’avanzata del Califfato in Libia
In Libia senza un governo legittimo continua intanto l’avanzata jihadista. Diverse fonti locali hanno riferito che i jihadisti dell’autoproclamatosi “stato islamico” stanno trasportando armi pesanti e veicoli da Sirte verso le città di Harawa, Nufaliya e Bin Jawad con l’obiettivo di estendere la loro influenza nei territori ricchi di petrolio e su Ajdabiya, a 150 chilometri da Bengasi.

Per cercare di limitare la loro avanzata, l’aviazione libica ha colpito duramente Ajdabiya la settimana scorsa. La lotta alle milizie islamiche condotta dall’esercito guidato dal generale Khalifa Belqasim Haftar non sembra però aver ottenuto grandi risultati. I combattenti dell’Is controllano ormai gran parte della strada costiera del Golfo della Sirte.

La controversa figura del generale Khalifa Haftar, inoltre, è giudicata da molti osservatori internazionali come un ostacolo alla normalizzazione della Libia.

Le azioni militari del generale sono state spesso condannate dal governo di Tripoli. Il premier del Congresso Generale Nazionale, Khalifa al-Ghwell, ha promesso di vendicare i raid dell’aviazione su Ajdabiya, definiti da Tripoli come “un atto criminale”. Non è ancora chiaro quale sarà la risposta di Alba Libica però questa situazione rischia di favorire l’espansione dell’influenza dello “stato islamico”.

Emirato petrolifero
Nella lotta per il potere tra Tobruk e Tripoli,infine, non deve essere sottovalutata la figura di Ibrahim Jadran, giovane ex rivoluzionario e comandante dei reparti posti a protezione dei giacimenti petroliferi in Cirenaica.

Jadran, formalmente avversario degli islamisti, nel caso di una divisione territoriale della Libia potrebbe decidere di fondare un proprio “emirato petrolifero” con l’appoggio della sua tribù Magharba.

Nel complicato scenario libico, al di là delle divisioni tribali o ideologiche, il controllo dei proventi del petrolio - pari al 97% del Pil della Libia - appare come il vero nodo della battaglia politica.

Nel paese nordafricano, dove ogni milizia rappresenta un centro di potere autonomo, l’assenza di un governo di unità nazionale allontana sempre di più la stabilizzazione dopo 42 anni di dittatura.

Mirko Bellis, Laurea in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali, Università di Trieste, Master in Comunicazione e conflitti armati presso la Università Complutense di Madrid, è regista, sceneggiatore di documentari e giornalista.
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venerdì 27 novembre 2015

Gibuti: la prima base cinese all'estero


La ristrutturazione militare cinese passa da Gibuti 
Elvio Rotondo
01/12/2015
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Rivoluzione militare in Cina. Pechino apre per la prima volta nella storia una base militare all’estero e mette in moto un cambiamento strategico radicale che segnala una nuova fase della proiezione militare cinese nel mondo.

L’obiettivo è quello di trasformare l’esercito in una struttura “più ampia, più integrata, multifunzionale e flessibile”. Per farlo, crescerà anche il bilancio della difesa cinese, che è destinato ad aumentare di un ulteriore 10% rispetto allo scorso anno, raggiungendo circa 145 miliardi di dollari. Secondo molti analisti stranieri la percentuale potrebbe essere anche più elevata.

Prima base militare cinese all’estero 
La prima base militare cinese all’estero aprirà a Gibuti, paese piccolo ma strategico per la sua posizione a guardia del Corno d’Africa. Piccolo Stato situato all'imbocco dello stretto di Babel Mandeb tra il Mar Rosso e l'Oceano Indiano e punto strategico del Corno d'Africa, Gibuti è sempre stato visto con interesse dalla Cina, che sarebbe riuscita, siglando un accordo della durata di 10 anni, nell’intento di installarvi una “base” di supporto logistico.

La Marina militare cinese, nell’ambito delle operazioni anti-pirateria, utilizza già da tempo il porto di Gibuti, come un punto d'appoggio per gli approvvigionamenti.

La “base”, concepita come una struttura di sostegno logistico, sarà destinata principalmente alla fornitura di servizi, oltre al fatto che sarebbe il primo avamposto militare cinese all'estero, fatto sicuramente non trascurabile.

Gibuti,oltre a essere una rara oasi di stabilità nel Corno d'Africa, è indubbiamente un punto strategicamente importante da cui partire per proteggere le importazioni di petrolio dal Medio Oriente che attraversano l'Oceano Indiano verso la Cina.

La tela cinese in Africa
A tale scopo, la Cina conduce pattugliamenti anti-pirateria dal 2008, con un totale di 21 flotte di scorta, più di 60 navi, per effettuare missioni nel Golfo di Aden e al largo della Somalia facendo affidamento, finora, su porti stranieri per il rifornimento.

Il portavoce del Ministero degli Esteri cinese, Hong Lei, ha dichiarato che "la costruzione delle strutture aiuterebbe ulteriormente la marina militare cinese e l'esercito nella partecipazione alle operazioni di mantenimento della pace delle Nazioni Unite, nelle missioni di scorta nelle acque vicino alla Somalia e al Golfo di Aden, e nell’assistenza umanitaria".

La Cina vuole infatti avere un ruolo maggiore nel garantire la pace e la stabilità regionale e gli accordi nell’interesse di entrambi i paesi.

La struttura, oltre a servire da hub logistico, consentirà ai cinesi di "estendere la loro portata". Una base cinese nel Corno d’Africa aumenterebbe la presenza della Cina nel continente africano, dove ha già una presenza militare permanente di circa 2mila truppe, schierate in missioni di mantenimento della pace delle Nazioni Unite.

In futuro potrebbero essercene molti di più. Dalla tribuna dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite il presidente cinese Xi Jinping ha parlato di una Cina disposta ad aderire al nuovo sistema per la preparazione delle operazioni di pace delle Nazioni Unite, annunciando che opererà un contingente permanente di forze di polizia e riservisti formato da 8mila uomini.

Gibuti, potenziale hub del traffico internazionale
L’accordo della Cina con Gibuti, secondo quanto riportato dal New York Times, si inserisce nel piano di sviluppo del piccolo paese africano, il cui governo si sta concentrando su "strade, porti, aeroporti e infrastrutture di telecomunicazioni per rendere Gibuti l’hub del traffico regionale e internazionale".

Con una popolazione di circa 900 mila abitanti, Gibuti starebbe pianificando di investire $ 6 miliardi nell'iniziativa, ed è anche alla ricerca di ulteriori investimenti stranieri. Siti ufficiali affermano l’intenzione di costruire almeno altri sei porti.

Oltre alla base cinese, Gibuti ne ospita anche una statunitense a Camp Lemonnier, dove sono ospitati circa 4.000 soldati, incluse forze speciali e civili. Recentemente, gli Usa hanno rinnovato l’accordo per la permanenza nella base per dieci anni con l’opzione per altri dieci.

Anche la Francia mantiene una base a Gibuti, ex colonia francese. Il Giappone partecipa alle operazioni antipirateria delle Nazioni Unite con aerei di sorveglianza e personale vario.

Gli italiani sono presenti con circa 80 militari che compongono il nucleo permanente della missione. La Base fornisce supporto ai contingenti nazionali che operano nell’area del Corno d’Africa e nell’Oceano Indiano.

La crisi del Dragone e gli effetti in Africa
Secondo alcuni dati riportati dal Foreign Times, molte nazioni africane, in particolare esportatori di materie prime, sono state duramente colpite dal recente rallentamento economico della Cina che è stato il primo mercato per le merci di molti paesi.

Gli scambi commerciali tra Cina e Africa nel 2014 hanno superato i 220 miliardi di dollari, rispetto ai 10 miliardi del 2003. La Cina è stata il più grande partner commerciale del continente dal 2009, superando gli Stati Uniti.

L’accordo con Gibuti rappresenta un grande risultato per la Cina, che a lungo ha cercato di rafforzare la sua influenza in luoghi considerati passaggi strategici obbligati, consolidando così una presenza davvero massiccia nel continente africano.

Elvio Rotondo è Country Analyst de “Il Nodo di Gordio”.

venerdì 20 novembre 2015

Nord Africa: un quadro allarmannte

Libia, Egitto, Algeria
Stato islamico in Nord Africa: rivalità e alleanze
Umberto Profazio
31/08/2015
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Complice la situazione di estrema instabilità in Libia, l’avanzata del terrorismo di matrice jihadista in Nord Africa non sembra conoscere soste.

Nella prima metà di agosto il gruppo terrorista dello Stato Islamico si è gradualmente impadronito della città libica di Sirte, provocando nuovi timori sia da parte delle principali potenze regionali, sia da parte delle diplomazie occidentali.

Il 20 agosto un attacco nella periferia di Sousse, in Tunisia, ha provocato la morte di un poliziotto. Il giorno stesso un’autobomba è esplosa di fronte a un edificio di proprietà delle forze di sicurezza egiziane nel distretto di Shubra el-Kheima, nella periferia del Cairo, toccando anche il tribunale adiacente e provocando 29 feriti. Gli episodi si susseguono ravvicinati.

Lo Stato Islamico e al-Mourabitun
Nonostante la maggior parte degli attentati sia stata attribuita agli uomini di Abu Bakr al-Baghdadi, la realtà sembra essere molto più complessa. Il fronte del terrore in Nord Africa non è compatto e monolitico come a prima vista potrebbe sembrare, ma nasconde una ricca diversità di posizioni.

Questo è quanto si può desumere dall’annuncio con cui il 24 agosto i miliziani dello Stato Islamico hanno chiesto la testa di Mokhtar Belmokhtar, a capo del gruppo terroristico al-Mourabitoun.

Conosciuto per il tragico attacco del gennaio 2013 presso l’impianto di gas algerino di In-Amenas, al-Mourabitoun è nato dalla fusione tra le Brigate al-Mulathameen e il Movimento per l’unità del Jihad in Africa occidentale.

Le origini qaediste della formazione si desumono dal fatto che le Brigate al-Mulathameen furono create da Belmokthar come una fazione dissidente di al-Qaeda nel Maghreb islamico. Tuttavia la scissione non è stata così profonda da fare rinnegare a Belmokhtar la sua appartenenza a al-Qaeda.

Nonostante il 15 maggio Adnan Abud Walid Sahraoui, capo della branca saheliana dell’organizzazione, abbia prestato giuramento di fedeltà allo Stato islamico, sono arrivate subito le smentite.

Il 17 luglio al-Mourabitoun ha rinnovato la sua bay’ah (sottomissione) a Ayman al-Zawahiri, dichiarando di rappresentare al-Qaeda in Africa occidentale e di continuare la sua battaglia contro la Francia e i suoi alleati.

L’organizzazione ha anche ribadito la leadership di Belmokhtar, smentendo così le notizie relative alla sua uccisione in un raid condotto dall’aviazione statunitense a Ajdabya a giugno.

La natura saheliana di al-Mourabitoune la scelta dell’Algeria quale teatro principale delle sue azioni, sembra rappresentareun ostacolo all’espansione dello Stato islamico in questo Paese.

Soprattutto a seguito della repressione degli uomini di al-Baghdadi da parte delle forze di sicurezza algerine: nel dicembre 2014, infatti, i militari di Algeri sono riusciti a annientare il gruppo Jund al-Khilafa, affiliato allo Stato islamico, eliminando anche il suo presunto capo Abdelmalek Gouri.

I dissidenti di Ansar Beit al-Maqdis
In questo quadro estremamente dinamico, risulta naturalmente importante il teatro egiziano, dove la minaccia principale deriva da Ansar Beit al-Maqdis, formazione originariamente di stanza nel Sinai che negli ultimi mesi ha allargato il suo raggio di azione.

Nonostante la sua bay’ah allo Stato Islamico e la ridenominazione in Wilyat Sinai, il processo di affiliazione è stato dibattuto, con alcuni membri che hanno preferito abbandonare il gruppo e prendere altre strade.

Tra questi un’importanza fondamentale sembra avere Hisham Ali Ashmawy, che s’è meritato anch’egli l’inserimento nella lista dei ricercati da parte dello Stato islamico.

Ritenuto dalle autorità del Cairo responsabile dell’uccisione il 29 giugno del procuratore generale Hisham Barakat, Ashmawy infatti avrebbe partecipato alle operazioni contro lo Stato islamico nella città libica di Derna, allineandosi alle posizioni del Mujhaideen Shura Council.

Le indagini sugli attentati in Tunisia
Ancora più complesso sembra essere il panorama tunisino. Lo Stato islamico ha infatti rivendicato i principali attentati nei Paese, compresi quelli del museo del Bardo del 18 marzo e dell’Imperial Marhaba Beach Hotel di Sousse del 26 giugno.

In un primo momento le autorità tunisine sono sembrate riluttanti a attribuire la responsabilità di entrambi gli attacchi allo Stato islamico. Le indagini per l’attentato del Bardo si erano indirizzate sulla pista delle Brigate Okba Ibn Naafa, gruppo qaedista attivo soprattutto nella regione montuosa del Chembi, al confine con l’Algeria.

Solo a seguito dell’inchiesta della polizia britannica, è emerso un collegamento diretto tra l’attacco del Bardo e quello di Sousse: si ritiene infatti che i responsabili di entrambi gli attacchi siano passati dal medesimo campo di addestramento di Sabratha in Libia. Presumibilmente nello stesso periodo.

Un’ulteriore complicazione deriva dal fatto che il campo di Sabratha è notoriamente gestito da Ansar al-Sharia in Libia, il cui rapporto con lo Stato islamico risulta ambivalente. Nonostante tale formazione non abbia mai fatto voto di sottomissione a al-Baghdadi, pare che molti dei suoi ex membri siano successivamente entrati nelle file dello Stato islamico, rafforzando l’organizzazione.

Una libertà di movimento assoluta
In un contesto caratterizzato da scarsa trasparenza, inaffidabilità delle fonti e strumentalizzazioni politiche, l’unica certezza è che il fattore complessità sembra avvantaggiare lo Stato islamico.

Facendo del Nord Africa un’immensa Siria dove l’assenza di una componente settaria in grado di infervorare gli animi viene compensata da un’incredibile pluralità di attori, tutti con differenti agende e caratterizzati da un’irriducibile rivalità. E i cui movimenti vengono agevolati dall’assoluta mancanza di controlli alle frontiere.

A metà agosto il valico di Musaid tra Libia e Egitto è rimasto sguarnito, per un immotivato ritiro delle guardie di frontiera libiche. E a Sirte si stanno moltiplicando le notizie relative alla presenza di numerosi combattenti nigeriani tra le fila dello Stato islamico.

Questo presunto afflusso, tramite le porose frontiere tra Nigeria e Niger e tra quest’ultimo e la Libia, dà un contenuto concreto alla bay’aha al-Baghdadi annunciata dall’organizzazione nigeriana nei mesi scorsi.

Nella non più remota eventualità di un intervento in Libia (sia da parte occidentale che della Lega Araba), il controllo delle frontiere assume un’importanza sempre più cruciale e decisiva.

Umberto Profazio è dottorando in Storia delle Relazioni Internazionali presso l’Università di Roma “Sapienza” e analista per la Nato Defence College Foundation. Il suo primo e-book “Lo Stato Islamico: origini e sviluppi” è edito da e-muse.
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mercoledì 18 novembre 2015

Libia: siamo alla impotenza


Libia: aspettando l’accordo come Godot o agire
Giuseppe Cucchi
28/08/2015
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Nella primavera del 1944 l'Unione Sovietica, esasperata dalla lunga, e sino a quel momento vana, attesa dell'apertura di un secondo fronte alleato in Europa che allentasse la pressione esercitata dalla Germania verso Est, scriveva su uno degli organi di stampa di regime "Ci sono due strade per un simile intervento.

La prima è quella naturale che prevede la discesa dall'alto dei cieli dell'Arcangelo Michele con la sua spada fiammeggiante. La seconda è quella sovrannaturale, che troverebbe espressione in uno sbarco di forze Usa e del Commonwealth nei Paesi Bassi o nel Nord della Francia".

Una valutazione surreale che però, fatti i dovuti adeguamenti, ben si adatta anche a quanto sta avvenendo in questo momento in area libica, dando con precisione l'idea di quale sia stato sino ad ora in questa crisi il comportamento di alcuni Paesi che dovrebbero essere fra i più grandi del mondo.

Paesi che, posti di fronte ad un incendio che divampa alle porte di casa, sono capaci soltanto di lanciarsi in sterili esortazioni, perennemente basate sulla speranza che alla fine sia qualcun altro ad impegnarsi, pagando di tasca propria ogni eventuale conto e rischiando di sporcarsi le mani in ciò che la lunga inerzia internazionale ha permesso divenisse un terribile pantano di lotta fra fazioni.

La lezione della ex Jugoslavia
Certo, la ricerca di una soluzione negoziale è auspicabile in ogni crisi, qualsiasi siano la sua entità e le sue dimensioni. Altrettanto certo è il fatto che eventuali canali di dialogo fra le parti debbano essere mantenuti aperti anche nei momenti in cui le armi fanno sentire con maggiore intensità la loro voce.

Nel contempo però è irenicamente assurdo sperare che tutti i contenziosi possano trovare una accettabile soluzione intorno ad un tavolo di trattative.

Se ci si lascia guidare da questa idea si rischia di non concludere nulla e di ritrovarsi domani con una crisi ancora da risolvere ma approfondita e peggiorata dal trascorrere del tempo. E non si tratta della peggiore delle possibili ipotesi, considerato come il volere raggiungere un accordo a tutti i costi possa magari indurre le parti a concordare su tregue o paci talmente insostenibili da portare in sé i germi di future, peggiori catastrofi.

In particolare, come tra l'altro in tempi relativamente recenti ci hanno tragicamente dimostrato le guerre della dissoluzione jugoslava, ogni crisi ha un suo preciso momento di culmine superato il quale il bilancio di sangue versato è divenuto tanto pesante, e gli odi reciproci così profondi, che diviene inutile sperare che le parti possano accettare di aprire un dialogo e condurlo avanti, più o meno autonomamente, sino ad un accordo.

Il dialogo, se dialogo ci sarà, potrà soltanto essere imposto dall'esterno, da altri protagonisti più forti, disposti ad impegnarsi in prima persona per costringere, sorvegliare, garantire.

È il ruolo che nella catastrofe jugoslava hanno svolto gli Stati Uniti, riuscendo a tirarsi dietro sotto le bandiere della Nato anche buona parte di una Unione europea (Ue) i cui sforzi si erano limitati sino a quel momento a sagge esortazioni alla ragione, tanto ripetute quanto vane.

Interventi diplomatici internazionali ‘leggeri’
Nella crisi libica siamo ancora palesemente a quel medesimo stadio, nonostante il fatto che la situazione sull’altra sponda del Mediterraneo divenga di giorno in giorno più complicata e pericolosa, con l'Isis che potrebbe a breve scadenza dilagare a macchia d'olio da Sirte e che già ora costella di focolai di infezione tutti i paesi vicini, primo fra tutti l'Egitto.

Di fronte a simili dati di fatto che cosa possiamo mettere sul tavolo? Una iniziativa delle Nazioni Unite, affidata oltretutto non a una personalità di spicco che potrebbe conferirle l'adeguato peso politico ma ad un diplomatico spagnolo bravo quanto si vuole ma estremamente leggero sul piano della considerazione internazionale.

Non c'è così da stupirsi se l'esercizio diplomatico ha finito col trasformarsi in una ripetitiva e sterile partita di ping-pong fra il governo di Tobruk e quello di Tripoli, impegnati a rimpallarsi in eterno accuse e responsabilità.

Alla mediazione delle Nazioni Unite s’è aggiunta di recente "l'esortazione" alle parti promossa dal ministro degli Esteri italiano Paolo Gentiloni. Iniziativa certamente lodevole - cui hanno subito aderito alcuni fra i maggiori protagonisti della scena internazionale, ben contenti di avere trovato il modo di poter dire domani "Ho tentato di fare qualcosa!" -, ma che rischia di essere completamente inutile se non verrà integrata a breve scadenza da misure concrete e decisive.

Così come essa è ora, l'iniziativa ricorda infatti soltanto l'esortazione che San Filippo Neri rivolgeva ai bambini del suo oratorio: "Buoni, state buoni … se potete!". No, questi bambini libici sono bambini che per il momento proprio non possono stare buoni!

Che cosa possiamo fare? Alternative
Ritorna quindi, insistente e sino ad ora pressoché totalmente inevasa, la domanda "Che cosa possiamo fare"? E soprattutto che cosa può fare l'Italia, un Paese che è in prima fila per ciò che riguarda gli elementi di danno e di rischio connessi alla crisi, ma che nel contempo assolutamente non dispone della forza necessaria a farvi fronte da sola?

Al di là della tentazione di far tintinnare le sciabole, che sempre più spesso si individua nell'ambito di alcuni settori della nostra politica e dei nostri mass media, da ogni equilibrata valutazione emerge infatti con impressionante chiarezza come un eventuale nostro sforzo in senso militare potrebbe concretizzarsi al massimo nell'invio in area di una forza composta da un totale di 10/15 mila uomini: 15 nel caso in cui lo sforzo dovesse essere di breve durata, 10 se esso fosse destinato a prolungarsi nel medio e lungo termine.

Una disponibilità tanto esigua di forze rende indispensabile per l'azione la costituzione di una qualsiasi forza multinazionale di dimensioni adeguate. Il che significa muoversi sotto una delle tre bandiere possibili, vale a dire in primo luogo quella delle Nazioni unite, poi quella della Nato ed infine quella della Ue.

Non possedendo né la leadership degli americani né la disinvoltura neo colonialista della Francia non possiamo infatti pensare a ‘coalitions of the willings’ cui possano associarsi, sollecitati da una nostra iniziativa, altri Paesi dell'area mediterranea dotati, essi sì, di forze militari di entità sufficiente a configurare una forza di peacekeeping credibile. Il riferimento è chiaramente all'Egitto e alla Algeria, minacciati quanto noi e per molti aspetti più di noi dalla crisi libica.

Non subordinare l’azione al consenso libico
Perché esista domani una forza di peacekeeping - anzi per essere precisi di peaceenforcing! - destinata ad operare nel Paese occorre però che sin da oggi qualcuno inizi a proporne la costituzione nelle sedi dovute, chiarendo tra l'altro che essa dovrebbe comunque essere messa in piedi indipendentemente da quell'assenso congiunto dei due governi di Tobruk e di Tripoli, entrambi per molti versi illegittimi, che potrebbe in futuro venire o più probabilmente non venire.

È tempo quindi che l’Italia inizi a muoversi in quella direzione, cercando magari di dare forza alla sua voce con il tentativo di imporre la sicurezza europea come un unicum inscindibile che renda impossibile separare ciò che avviene in questo momento a nord est, in Ucraina ed ovunque i nostri interessi contrastino con quelli russi, con quanto sta succedendo a sud, dall'altro lato di quel mare Mediterraneo che in questo particolare periodo storico unisce ed accomuna molto più di quanto non separi.

A corollario e a premessa, come più volte già indicato in sedi autorevoli ma mai realizzato, occorrerebbe cercare di tagliare i cordoni finanziari che ancora alimentano le fazioni in lotta permettendo loro di perpetuare gli scontri.

Tagliare i cordoni finanziari
Una operazione quanto mai difficile, che da un lato richiederebbe adeguate pressioni politiche sui vari sponsor dei combattenti, un elenco molto lungo che coinvolge buona parte del mondo arabo, e non soltanto di quello.

D'altro canto, invece, su scala nazionale, bisognerebbe costringere l'Eni a cercare altrove fornitori sostitutivi della aliquota di idrocarburi per cui ancora dipendiamo dalle forniture della Libia, interrompendo così oltre al flusso di petrolio e gas verso l’Italia, anche quel continuo flusso di valuta che dall'Italia raggiunge la Banca centrale libica, organismo preposto a smistarlo poi in maniera equilibrata fra tutte le parti in lotta.

Un flusso la cui esistenza fa sì che gli italiani possano essere annoverati non solo fra le maggiori vittime, ma altresì fra i maggiori responsabili del perdurare di questa crisi.

Per quanto grandi possano apparire le difficoltà, bisogna quindi tentare di agire, essendo pronti se necessario ad adottare soluzioni imperfette e pericolose e sapendo che spesso bisognerà scegliere il male minore e turarsi eventualmente il naso accettando se indispensabile alleati per molti versi discutibili.

Il tutto nella piena consapevolezza del fatto che il tempo gioca contro di noi e ci obbligherà quindi, qualora decidessimo di impegnarci, ad adottare tutta una serie di quelle "decisioni sul tamburo" che le grandi democrazie hanno sempre difficoltà a concepire ed accettare.

Ci sono soluzioni alternative? Sì, forse quella di attendere anche noi la discesa dal cielo di un Arcangelo Michele armato di spada fiammeggiante e disposto a risolvere tutti i nostri problemi!

Giuseppe Cucchi, Generale, è stato Rappresentante militare permanente presso la Nato e l’Ue e Consigliere militare del Presidente del Consiglio dei Ministri.
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martedì 10 novembre 2015

Libia: l'onu e l'accordo zoppo


Libia: un arduo percorso dopo Skhirat
Roberto Aliboni
26/07/2015
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L’11 luglio, le delegazioni libiche presenti a Skhirat (Marocco) hanno siglato la quinta versione di Léon per un accordo di concordia nazionale. L’accordo non è stato accettato dagli irriducibili della coalizione “Alba della Libia”, la coalizione che siede a Tripoli.

Nel corso dei primi sei mesi di quest’anno, “Alba” si è frantumata. Via via che gli ultimi round del negoziato lasciavano emergere l’accordo, i duri e gli irriducibili hanno costituito al posto di “Alba” un “Fronte della Fermezza” di milizie con un buon seguito nel Congresso Nazionale Generale (Cng) - la delegazione che non è andata a Skhirat e non ha firmato l’accordo.

Le istituzioni internazionalmente riconosciute di Tobruk hanno firmato, in particolare la Camera dei Rappresentanti (CdR). Tuttavia, dietro la firma appare in piena evidenza la spaccatura in merito alla presenza e al ruolo del generale Hiftar: circa la metà dei Rappresentanti non lo ha mai voluto e non lo vuole come capo supremo dell’Esercito Nazionale Libico.

Questi rappresentanti e altre forze, anche in seno allo stesso Esercito, aspettano che l’accordo di Skhirat entri in vigore per fare fuori il generale.

Il percorso che l’accordo prefigura
L’accordo - in sostanza una “road map” - prevede ora l’inizio di una seconda fase negoziale nel cui ambito dovranno essere regolati dettagli cruciali: la nomina del presidente e la formazione del Consiglio di Presidenza (che deciderà all’unanimità); la nomina dei membri del nuovo Alto Consiglio di Stato (una sorta di Senato con poteri consultivi - e forse alcuni poteri decisionali negli adempimenti politici maggiori - destinato a cooptare nelle istituzioni i membri del Cng di “Alba” fermo restando il legittimo ruolo di legislatoredella CdR); il governatore della banca centrale; il presidente della compagnia petrolifera di stato (Noc).

Infine, il Consiglio di Presidenza dovrà procedere allo scioglimento delle milizie e alla ricostituzione della catena di comando: è in questa prospettiva che i nemici trasversali di Hiftar prefigurano l’estromissione di Hiftar e dei suoi accoliti.

Dunque, la mediazione dell’Onu ha raggiunto il risultato di enucleare e poi aggregare al centro le forze moderate del paese, interessate e pronte al compromesso, ma - ciò facendo - ha altresì messo ai margini i loro bracci armati e consegnato la guida della transizione a delle forze politiche inermi, esposte alle prevedibili reazioni dei duri di destra e di sinistra. Né Hiftar né i comandanti delusi di “Alba” sono dei Cincinnati.

È evidente l’estrema fragilità di quello che in sé e per sé è un grande successo negoziale. Come oggi ovunque nella regione, i militari prevaricano ogni sviluppo civile e democratico, riproponendo un deplorevole corso storico nel Medio Oriente contemporaneo.

Come consolidare questo successo della diplomazia e proteggerlo dai rischi di violenze e colpi di mano che stanno appena dietro l’angolo, sia nelle vesti dei militari di Tobruk sia in quelle dei vari comandanti di Tripoli e dei loro patroni politici interni ed esterni?

Estrema fragilità del processo negoziale
Innanzitutto, il negoziato continua, sempre sotto la guida di Bernardino Léon (e della diplomazia americana ed europea che fin qui lo ha sostenuto con forza e competenza).

Léon molto saggiamente ha lasciato la porta aperta a tutti coloro che non hanno firmato a Skhirat, senza porre preclusioni di sorta ad islamisti e comandanti. Si ha ragione di credere che non pochi odierni oppositori finiranno per saltare sul carro di Skhirat: ovunque nel paese i sostenitori della guerra sono sempre più isolati. La previsione, perciò, è che l’accordo vada a consolidarsi.

In questa fase ulteriore del negoziato sarà molto importante il ruolo che sapranno svolgere i membri della comunità internazionale. Essi dovranno saper mettere bene in chiaro sia la loro volontà di aiutare la Libia a ricostruirsi come comunità democratica sia la loro intenzione di astenersi da ogni interferenza politica nei loro interventi a favore di questa ricostruzione.

L’opinione pubblica e le elite della Libia sono estremamente sensibili sul punto dell’interferenza ed il rischio è che qualunque benintenzionata azione dall’esterno sia subito affondata da qualsiasi gratuita accusa di asservimento ad interessi e cospirazioni di potenze straniere.

Il ruolo della Comunità internazionale
Ciò pone un grave problema per quanto riguarda l’aiuto di cui hanno invece estremo bisogno le inermi forze centriste destinate a governare la Libia sulla base degli accordi in corso.

L’emergente governo libico ha bisogno come minimo di forze internazionali destinate a sorvegliare i cessate-il-fuoco e le intese di sicurezza che il Consiglio di Presidenza è chiamato dagli accordi di Skhirat a mettere in pratica.

Più in generale ha bisogno di forze internazionali destinate a proteggere le istituzioni, le grandi infrastrutture e le missioni diplomatiche (una forza di cui è difficile per ora sapere se deve essere di semplice “peace keeping” o di “enforcement”).

È difficile dire quali Paesi potrebbero inviare queste forze: ci sono ovvii inconvenienti per quanto riguarda i Paesi occidentali, ma ce ne sono anche per quanto riguarda i paesi arabi e quelli africani. Tutti sono destinati a confrontarsi con una situazione estremamente volatile sul piano della sicurezza e impervia su quello politico.

Difficile da organizzare, l’intervento dell’Onu può essere facilmente complicato dalle interferenze in atto. La diplomazia occidentale - a prescindere dall’invio di forze di pace - dovrebbe premere sui suoi alleati arabi e africani - soprattutto sui primi - affinché non interferiscano.

Il Qatar alla fine di giugno ha emesso una chiara dichiarazione con la quale si è tirato fuori dal patrocinio che ha esercitato negli ultimi anni a favore delle forze di “Alba”e degli islamisti.

Nelle ultime battute del negoziato, la Turchia sembra essersi ugualmente tenuta da parte. L’Egitto continua invece a perseguire la sua forte interferenza a favore di Tobruk e soprattutto di Hiftar. È giunto il momento di riportare il Cairo alla ragione.

‘Astensioni’ e sanzioni
Infine, è anche giunto il momento di erogare le dovute sanzioni personali ai “cattivi” leader che si oppongono all’accordo e già agiscono come suoi “spoilers”.

La Reuters riportava il 20 luglio che l’Ue sta considerando una lista alla cui testa si trovano Abdulrahman Suweihli, un irriducibile di Misurata (in netta controtendenza con la sua stessa città), e Salah Badi, un noto “comandante” islamista. Sulla lista ci sarebbero anche Hiftar e il suo capo dell’aviazione, Jaroushi.

Sembrano mancare invece altri nomi di indomiti guerrafondai ed estremisti, come Nuri Bu Sahmein, il leader del Blocco dei Martiri e presidente del Cng. Avrà l’Ue il coraggio di farlo? Non è la prima volta che considera delle liste, ma finora nessuna decisione è stata presa. Una lista, convergente con quella Ue circola anche a livello del Consiglio di Sicurezza. Anche qui è arrivato il momento di agire.

Le misure che la crisi libica richiede per essere condotta a buon fine mostrano non poche volte l’esistenza di contraddizioni rispetto agli interessi di sicurezza dei Paesi della comunità internazionale chiamati a metterle in atto.

Abbiamo già evocato il caso dell’Egitto, ma anche la coalizione anti-Is, gli Usa, la Francia e l’Italia hanno degli interessi e delle urgenze che potrebbero portarli a forzature o strumentalizzazioni nell’interpretazione e nell’esecuzione di dette misure.

La pressione della lotta al sedicente Stato islamico, la necessità di proteggere gli interessi italiani e francesi in Egitto e nel Sahel, l’urgenza posta dall’emigrazione clandestina potrebbero indurre questi paesi e l’Ue a interventi in Libia - come il piano di lotta militare ai trafficanti - che a conti fatti si rivelerebbero dannosi alla nuova transizione democratica libica e, perciò, nel medio-lungo periodo, anche agli interessi nazionali che s’intende proteggere o promuovere.

Francia, Usa, Egitto e Italia hanno mezzi e motivazioni per intervenire e sostenere la società libica a uscire dalla sua crisi: ci si aspetta che lo facciano ma con la pazienza e la lungimiranza necessarie a non essere troppo influenzati dalle loro urgenze nazionali.

Roberto Aliboni è consigliere scientifico dello IAI.

giovedì 29 ottobre 2015

Egitto: il nuovo parlamento

L’Egitto normalizzato al voto parlamentare
Azzurra Meringolo
24/10/2015
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Da tre anni privo di legislativo, l’Egitto sta eleggendo il parlamento più grande della sua storia: 596 deputati, 124 in più rispetto alla vecchia assemblea.

Durante due tornate elettorali, quella terminata il 19 ottobre e quella che si terrà il 22-23 novembre, gli elettori sceglieranno tra i candidati individuali (448) e di lista (120), ai quali si sommeranno i 28 parlamentari nominati dal presidente Abdel Fattah al-Sisi.

Numeri a parte però, poche le novità che si attendono dalle urne. Con un risultato scontato, il dato più atteso è quello dell’affluenza.

Tutto questo nonostante la lunga attesa alla quale sono stati costretti gli egiziani, privati del loro organo legislativo praticamente dal gennaio 2011. In questo lasso di tempo, a legiferare è stato esclusivamente il potere esecutivo, che si è servito dello strumento del decreto.

Da quando è diventato capo dello Stato, Al-Sisi esercita non solo il potere esecutivo - come previsto dal suo mandato - ma anche quello legislativo, che è ancora formalmente nelle mani di nessuno. Ecco perché molti analisti si chiedono quanto l’ex-generale senta davvero il bisogno - immagine internazionale a parte - di un’assemblea con la quale confrontarsi.

Gattopardi dentro, Fratelli fuori
È comunque un parlamento per il quale competono soprattutto candidati individuali che provengono dai circoli del vecchio regime. Mubarak è stato deposto, la sede del suo partito bruciata dai rivoluzionari, ma quasi la metà dei candidati a queste elezioni ha per anni camminato nei corridoi del National Democratic Party, NDP.

E se si passa ad osservare le liste, il quadro non cambia di molto. Quella più accreditata, “For the Love of Egypt”, è composta soprattutto da vecchi ufficiali, rappresentanti dell’intelligence, ex-membri dell’NDP, giornalisti e intellettuali vicini ai militari e al presidente.

Ad affiancarli è la lista dell’“Egyptian Front” che insieme all’“Independence Current” candida altri ex membri dell’NDP più vicini all’ala di Ahmed Shafiq, ultimo premier di Mubarak.

Visto che la frastagliata opposizione di sinistra sta ancora valutando se boicottare o meno i seggi, gli unici avversari del “nuovo” regime sono i salafiti di Al-Nour che hanno invitato anche i copti a scendere in campo con loro, provocando l’ira e le critiche del capo della chiesa copta, Papa Tawadros.

Forte in alcune regioni storicamente più vicine agli islamisti, Al-Nour non potrà però contare sui voti degli ex-elettori della Fratellanza musulmana, i cugini che ha contribuito a fare uscire di scena - partecipando alle manifestazioni del luglio 2013, conclusesi con la deposizione del presidente islamista Mohammed Morsi.

I Fratelli musulmani sono nuovamente confinati, dal dicembre 2013, alla clandestinità ed esclusi dalla vita politica del paese, perché ritenuti un’organizzazione terroristica. Stanno ora cercando di riorganizzare la loro leadership sconvolta da retate, arresti e condanne di morte di massa (poche delle quali eseguite, ma pur sempre comminate in gran numero e in modo sommario).

La Fratellanza deve poi fare i conti con uno scontro interno che rischia di cambiare il carattere dell’organizzazione. Infatti, mentre quanti sono riusciti a scappare si sono rifugiati in Qatar e Turchia da dove cercano di coordinare la loro resistenza, chi è rimasto in Egitto non è disposto a cedere le redini del movimento che si è dovuto però riorganizzare, affrontando la necessità di agire nuovamente solo in modalità clandestina.

La Fratellanza Musulmana riorganizza la sua leadership
All’interno del paese, la riorganizzazione della leadership è passata attraverso un processo di consultazione interno che ha portato all’elezione, nel febbraio 2014, di una commissione per la gestione della crisi.

Anche se Mohammed Badie - guida suprema del movimento, condannato a morte e in prigione dal 2013 - è stato confermato leader spirituale, i militanti hanno eletto anche il vertice di quella che chiamano la “commissione per la gestione della crisi”. L’organo è coadiuvato da un segretario incaricato di supervisionare le questioni prettamente organizzative e da un ufficio per gestire gli affari esteri della Fratellanza.

Secondo Georges Fahmy, ricercatore egiziano presso il Carnegie Middle East Center di Beirut, con queste nuove elezioni si sarebbe sostituito il 65% della leadership. Il 90% di queste new entry sarebbero giovani, ovvero quei quarantenni che solo tre anni fa la vecchia leadership considerava troppo freschi per far parte dell’esecutivo del movimento.

Questo cambiamento ha avuto un riflesso immediato sulla tattica politica della Confraternita. Ritenendo fallimentare la gestione dei loro predecessori, sembra che i più giovani non si facciano scrupoli a tornare alla lotta armata, caratteristica della Fratellanza dei primi decenni. Per ora l’obiettivo sembra quello di farne un uso limitato, ricorrendovi solo per operazioni che mirano a colpire il regime, ma non nei confronti di civili.

Anche questo approccio sembra però ora essere messo in discussione da un recente comunicato ai media, inviato dagli organi di comunicazione della Fratellanza stessa, che è critico nei confronti dell’attuale gestione.

Secondo quanto scritto in questo messaggio, sulla cui autenticità si è aperto un dibattito che ha coinvolto Fratelli egiziani, londinesi, qaterini e turchi, la Confraternita dovrebbe rivedere la sua tattica, pensando magari di partecipare alla competizione politica in base a qualche forma di accordo con gli altri partiti ammessi.

Apatia popolare attorno al voto
Per il momento però, la principale forza di opposizione al regime non ci sarà e questo renderà le prossime elezioni prive di una vera competizione. A partecipare, e quindi anche a vincere, saranno soprattutto candidati collusi con il vecchio regime e con una buona disponibilità economica che ha permesso loro di condurre una campagna elettorale, per quanto blanda.

A mostrarlo sono anche i numeri dei candidati. Se nel 2011, all’indomani della rivoluzione, a competere erano state oltre 10.000 persone, ora che i seggi da riempire sono ancora di più, i candidati individuali sono circa 5.400, pochi di più rispetto ai 5.100 del 2005 (una delle elezioni più nere dell’epoca di Mubarak).

Ed è possibile che questo scarso entusiasmo si rifletta anche sulla partecipazione elettorale. Una fetta della popolazione non troverà i suoi candidati, e d’altra parte quanti sostengono il regime sanno che questo trionferà anche senza il loro voto. Tutto ciò potrebbe quindi influire sull’unica vera variabile ancora incerta del voto, cioè il tasso di affluenza alle urne.

Per il resto ci prepariamo a un quadro già visto: elezioni non realmente competitive, dove a giocarsela saranno solo quanti ne hanno la possibilità - politica ed economica. A cui seguirà la nascita di un parlamento acquiescente. È per questo che Al-Sisi non sembra troppo preoccupato di vedere limitato il suo potere da un legislativo che molto probabilmente si limiterà a timbrare e avallare le sue decisioni.

Azzurra Meringolo è ricercatrice dello IAI. Coordinatrice scientifica di Arab Media Report. Potete seguirla sul suo blog e su twitter a @ragazzitahrir. Questo articolo è stato pubblicato su Aspeniaonline.
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lunedì 19 ottobre 2015

LIBIA: l'impegno di tre flotte per l'immigrazione

Lotta al traffico di uomini
Eunavfor Med guarda alla Libia
Alessandro Ungaro
15/10/2015
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La seconda fase di Eunavfor Med è ufficialmente iniziata. Lanciata il 22 giugno scorso e ribattezzata Sophia (dal nome della bambina nata su una nave militare lo scorso agosto durante una delle missioni di ricerca e soccorso a largo delle coste libiche) è “un’operazione di law enforcement attuata tramite mezzi militari”.
Fonte: Marina Militare

Il suo obiettivo è di interdire il network delle reti criminali associato al traffico e sfruttamento di migranti attraverso il Mediterraneo e ridurre il flusso migratorio via mare in conformità al diritto internazionale applicabile.

Essa dovrebbe concludersi entro 12 mesi a partire dalla piena capacità operativa (Full Operational Capability, Foc) conseguita il 27 luglio; questo non esclude tuttavia una sua estensione, come accaduto altresì per altre missioni navali, ad esempio Atalanta.

Il controllo politico della missione è nelle mani del Comitato politico e di sicurezza (Cops) dell’Ue mentre il quello operativo è affidato all’European Operational Headquarter (IT EU-Ohq) presso la sede del Comando Operativo di vertice Interforze (Coi) a Roma guidato dall’Ammiraglio Credendino che proprio l’8 ottobre, all’indomani dell’inizio della seconda fase, ha tenuto una prima audizione al Parlamento per fare il punto sugli ultimi sviluppi.

Da fase 1 a fase 2…guardando la Libia
Dopo la prima fase di raccolta e analisi di informazioni e intelligence, valutata positivamente dal Consiglio dell’Ue lo scorso settembre, si è passati alla seconda, certamente più muscolare e robusta.

Questa, denominata “fase 2 alpha”, prevede la possibilità di procedere a fermi, ispezioni, sequestri e dirottamenti in alto mare di imbarcazioni sospettate di essere usate per il traffico e la tratta di esseri umani.

Al momento è pertanto escluso che il dispositivo aeronavale possa operare nelle acque territoriali libiche (“fase 2 bravo”), a meno di una risoluzione Onu e di una richiesta esplicita di un eventuale governo libico.

In modo analogo, anche la terza fase - che si configura come quella più “cinetica” in termini militari - richiederebbe gli stessi presupposti giuridici e, sul piano militare, una collaborazione con gli stessi libici.

Il passaggio da una fase all’altra è proposto dal Comando Operativo dopo aver valutato la situazione in mare. Nella fattispecie, il passaggio dalla fase 1 alla fase 2 è stato approvato sulla base delle informazioni che dimostravano -con prove alla mano - l’attività illegale degli scafisti nella tratta e nel traffico di essere umani nell’arco dei 108 giorni di operazioni di Eunavfor Med.

Il contributo dell’Italia e degli altri Paesi europei
Insieme all’Italia, altri 21 Paesi contribuiscono sulla carta e in diversa misura all’operazione, sia in termini finanziari, sia fornendo assetti e/o personale militare.

A luglio 2015 erano 14 le nazioni che avevano concretizzato la loro volontà di partecipare alla missione fornendo personale per lo staff del quartier generale o contribuendo al dispositivo aeronavale.

Al momento, l’operazione può contare su 13 assetti, sette unità navali e sei tra velivoli e elicotteri, come il Falcon 50 della Marina francese o l’EH-101 di Marina italiana: la portaerei italiana Cavour - già operativa dalla prima fase dell’operazione - è la nave comando (flagship) della missione, supportata da una fregata e un rifornitore tedeschi, da una nave ausiliaria britannica e da tre ulteriori fregate messe a disposizione da Francia, Belgio e Spagna.

Per quanto riguarda il bilancio della missione, l’Unione europea ha stanziato quasi 12 milioni di euro per coprire, nel corso dei primi 12 mesi dal conseguimento della Foc, le spese comuni dell’operazione attraverso il meccanismo Athena.

A questi si aggiungono gli stanziamenti dei singoli Paesi che coprono i rispettivi costi associati al contributo nazionale. L’Italia, ad esempio, il 30 luglio 2015 ha approvato il decreto legge n. 99 che autorizza la partecipazione del Paese alla missione navale stanziando 26 milioni di euro, reperiti dal fondo missioni per 19 milioni e di rimborsi Onu per 7 milioni, per la partecipazione di 1.020 unità di personale militare e per l’impiego di mezzi aeronavali.

Mare Sicuro, Triton e Eunavfor Med
Attualmente le principali operazioni in corso nel Mediterraneo sono Mare Sicuro, Triton e - appunto - Eunavfor Med. Sebbene le rispettive aree operative siano in parte sovrapposte, tutti e tre i dispositivi interagiscono attraverso uno stretto scambio di informazioni e di personale con l’obiettivo di mantenere le attività delle navi impegnate nelle differenti missioni nell’ambio dei rispettivi mandati.

Questo è vero soprattutto per Mare Sicuro ed Eunavfor Med che potrebbero, a prima vista, sembrare due operazioni molti simili, soprattutto ora che il dispositivo europeo è entrato nella seconda fase.

Tuttavia è bene ricordare che Mare Sicuro è un’operazione italiana a tutela degli interessi nazionali (come ad esempio il presidio delle zone di pesca e la protezione delle piattaforme energetiche off-shore), mentre Eunavfor Med è innanzitutto un’iniziativa europea il cui mandato è ben limitato e circoscritto.

Questo non esula però le unità appartenenti a tutti e tre i dispositivi di eseguire missioni Sar (Search and Rescue) in caso di necessità. Non a caso, anche gli assetti di Eunavfor Med sono stati più volte coinvolti in attività di ricerca e soccorso, contribuendo al salvataggio di oltre tremila migranti.

Alessandro R. Ungaro è ricercatore del Programma Sicurezza e Difesa dello IAI (Twitter: @AleRUnga).
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mercoledì 14 ottobre 2015

Libia: verso una soluzione?

Medio Oriente
Il fattore Hiftar sulla crisi libica
Roberto Aliboni
07/10/2015
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In Libia il generale Khalifa Hiftar ha fatto fermare due volte il premier Abdallaal-Thinni all’aeroporto di Labraq (Beida) costringendolo a scendere dall’aereo e impedendogli di partire. Non si sa perché. Non è la prima volta che il capo del governo di Tobruk subisce le costrizioni del comandante supremo della Forza Nazionale Libica.

All’inizio di febbraio di quest’anno, mentre il negoziatore Onu Bernardino Léon conduceva a Ginevra i colloqui che avrebbero fatto emergere l’ala moderata di Misurata, Hiftar impedì ad al-Thinni di recarsi a Bengasi per una sua visita ufficiale alla popolazione, con la scusa che non era stato autorizzato dal capo delle Forze Armate, che in Libia non è il capo del governo bensì il presidente della Camera.

Questo dà un’idea di quale ipoteca sovrasta la possibile evoluzione di una soluzione politica nel paese ora che Léon è uscito di scena.

L’accordo raggiunto da Léon
Come è stato detto in un precedente articolo, Léon è uscito lasciando alle parti un bozza di accordo: i rappresentanti dovrebbero riunirsi e intendersi su chi concretamente deve ricoprire le massime cariche esecutive del Governo di Concordia Nazionale.

Una volta accordatisi, dovrebbero votare o respingere il testo. I tempi sono stretti perché la Camera dei Rappresentanti scade alla fine di ottobre. Ciò che più rileva, tuttavia, è che, anche laddove si trovasse un consenso sui nomi, non c’è intesa da parte dei rappresentanti di Tripoli su aspetti fondamentali della bozza come il ruolo del “Senato” e, soprattutto, su Hiftar, in odio non solo a Tripoli ma anche fra molti dei rappresentanti di Tobruk.

Visti i comportamenti non precisamente costituzionali di Hiftar in Cirenaica e al tempo stesso il suo furioso sforzo in corso di sgombrare gli islamisti da Bengasi per sbandierare la vittoria militare sotto il naso degli islamisti di Tripoli (e vanificare quindi ogni possibilità di intesa politica) il dissenso su Hiftar non è un ostacolo secondario. Il rischio è che la situazione trascenda e invece che alla vigilia di un accordo ci si potrebbe trovare in un rinnovato contesto di aspro scontro.

Autorevoli commenti (Frederic Wherey sul New York Times e Karim Mezran su Atlantic Council) accennano a Hiftar come il possibile ritorno di un altro “Gheddafi”, in sostanza di un altro uomo forte.

Se ciò accadesse, sarebbe in Cirenaica. Ha ragione Mezran a evocare a questo proposito l’attuazione del lungamente paventato scenario di una partizione della Libia: almeno in una prima fase, non potrebbe essere l’uomo forte dell’intera Libia ma della Cirenaica sì - dove del resto ha molti alleati - e come tale riceverebbe subito l’appoggio del presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi.

In realtà, la diplomazia egiziana di recente si è messa a sostenere l’accordo proposto da Léon. Tuttavia, di fronte a un pronunciamento di Hiftar in Cirenaica non sarebbe certo il Cairo a preoccuparsene, data la sua posizione generale circa gli islamisti e la rilevanza che ha la Cirenaica per la sicurezza dell’Egitto.

Se la Russia intervenisse in Libia
Mezran evoca anche la possibilità di un intervento russo a favore di Hiftar e contro Isis e islamisti. Le affinità e le motivazioni non mancano di certo. Si può ritenere che i russi sono adesso impegnatissimi in Siria (oltre che in Ucraina), ma in fondo basterebbe loro di inviare pochi uomini e qualche aereo per mettere anche sulla Libia il loro cappello.

Si può anche obiettare che un tale allargamento dell’impegno russo nel mondo arabo comprometterebbe i difficili ma insistenti tentativi che la diplomazia di Putin sta compiendo per allargare le relazioni russe nella regione anche ai sunniti.

Hiftar, ostacolo alla pacificazione
Le implicazioni regionali e internazionali di Hiftar come “rais” della Libia sarebbero comunque forti. Uno dei motivi per cui la mediazione di Léon non ha ottenuto un successo più saldo sta nel fatto che i paesi occidentali hanno appoggiato la mediazione Onu, ma non hanno fatto nulla per togliere di mezzo un fattore, come Hiftar, che ha costituito sulla strada di quella mediazione e continua a costituire oggi un ostacolo di prima grandezza versola pacificazione della Libia.

Quello che gli occidentali non hanno fatto finora, c’è forse modo di farlo adesso, perché la catena di sviluppi immaginata da Mezran (la presa del potere assoluto in Cirenaica, il ritorno di fiamma della guerra civile in Libia, e un possibile intervento dei russi) può apparire così poco plausibile in realtà, ma non è così improbabile.

Se questi sviluppi si verificassero, non sarebbe molto positivo per l’Occidente, che con gli eventi in Siria dopo l’intervento russo appare molto smarrito e non sa che pesci pigliare.

Meglio rendere in qualche modo innocuo Hiftar perché, anche al di là dei possibili sviluppi di cui abbiamo appena parlato, è gran tempo che lo si doveva fare e farlo ora sarebbe particolarmente utile.

Roberto Aliboni è consigliere scientifico dello IAI.
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venerdì 9 ottobre 2015

Africa: nuvo atteggiamento dell'Italia

Cooperazione internazionale
Cooperazione italiana, è giunta l’ora della ribalta
Emilio Ciarlo
02/10/2015
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Il discorso di Matteo Renzi davanti all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, in occasione peraltro dell’approvazione dei nuovi 17 Obiettivi dello Sviluppo Sostenibile, è stato emblematico della nuova cifra della cooperazione italiana come chiave politica di posizionamento dell’Italia nella comunità internazionale.

L’obiettivo del futuro della cooperazione internazionale è infatti andare oltre l’aiuto per essere ancora più efficaci e raggiungere l’obiettivo dello sviluppo e della promozione umana.

Non si tratta di sottovalutare quanto bisogno di sostegno e assistenza materiale vi sia ancora in molti Paesi, ma di far evolvere le Agenzie nazionali e internazionali di cooperazione, così da adeguarle al nuovo scenario economico e geopolitico che abbiamo dinanzi.

Meno i paesi poveri, ma più i fragili
Abbiamo di fronte un nuovo panorama di Paesi emergenti in cui si riducono quelli poverissimi (scesi secondo la Banca Mondiale da oltre 60 a 34) ma aumentano i “paesi fragili” (36 secondo l’Ocse), il cui sviluppo economico è azzoppato da conflitti, debolezze istituzionali, insufficienze delle reti sociali e imprenditoriali.

Si calcola un gap di infrastrutture per il quale sarebbero necessari 8oo miliardi di dollari l’anno in Asia e quasi 100 miliardi in Africa. Uno scenario in cui si studiano nuovi strumenti di intervento: la finanza sociale per lo sviluppo, il ricorso intensivo e diffuso all’information technology, il contributo del privato e l’insistenza sul trasferimento di know how industriale.

Su tutto, la consapevolezza che i temi della povertà e della sostenibilità si affronteranno con scelte politiche di fondo (dalla tracciabilità dei “minerali da conflitto” alle regole del commercio internazionale) e non semplicemente con il trasferimento di denaro e aiuto.

Ecco perché il dibattito sulla cooperazione deve essere affrontato toccando temi nuovi, coinvolgendo nuove professionalità, con un approccio più agile e trasversale rispetto a quello fino ad ora adottato in questo campo.

Riforma della cooperazione italiana
Non c’è riunione, vertice o incontro in cui il Presidente del Consiglio, Matteo Renzi, non citi la riforma della nostra cooperazione con orgoglio e non indichi con ambizione il traguardo storico di “indossare entro il 2017 la maglietta numero 4” tra i donatori nel club esclusivo del G7. Parliamo di circa un miliardo e mezzo di dollari di nuove risorse da destinare alla cooperazione.

Soldi ben spesi per il Governo non solo perché aiuteranno la stabilizzazione di aree di conflitto, lo sradicamento della povertà e il contrasto al cambiamento climatico, riducendo così la pressione migratoria, ma anche perché garantiranno un ritorno politico per il Paese, per il suo standing internazionale e, non ultimo, stimoleranno una forma di “internazionalizzazione per lo sviluppo” necessaria alle nostre imprese.

Parlando all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, Renzi è partito dall’orgogliosa rivendicazione dell’impegno del Paese per salvare migliaia di vite umane nel Mediterraneo e dallo sforzo di convincere l’Europa a una politica solidale e aperta verso il dramma dei profughi, per spaziare al tema dello sviluppo sostenibile in agenda a dicembre a Parigi, alla sostegno alla moratoria contro la pena di morte fino alla rivendicazione dell’obiettivo di divenire donatore virtuoso nell’aiuto allo sviluppo.

Il tutto con il disegno strategico di ridefinire lo standing internazionale del Paese a partire da queste battaglie e in vista della elezione in Consiglio di Sicurezza del prossimo anno dove ce la dovremmo vedere con Svezia e Olanda, Paesi maestri nell’utilizzare questo tipo di strumenti di “soft power”.

Nuova Agenzia italiana per la cooperazione
In questo nuovo contesto internazionale ma anche sulla scorta di questo inedito impulso politico volto a rafforzare il protagonismo internazionale dell’Italia, saranno importanti i primi passi della neonata Agenzia italiana per la cooperazione, un attore chiave della riforma, all’incrocio tra Farnesina, Palazzo Chigi, il tessuto prezioso della solidarietà internazionale e il mondo del profit responsabile.

Un’Agenzia che deve essere moderna, digitale, trasparente e innovativa, mantenere un rapporto più che virtuoso tra volume di aiuti gestiti e costi, deve diventare partner di Cassa Depositi e Prestiti sui temi della finanza per lo sviluppo e della partnership con il privato ma deve anche essere capace di ridare risorse ai progetti della società civile, della cooperazione popolare e di quella territoriale.

È ora di far uscire la cooperazione dall’angolo in cui per anni l’abbiamo relegata, di riconoscerle il ruolo politico centrale che deve avere nella nostra politica estera, un politica estera che si sta trasformandosi in “global politics”, non più limitata alle grandi trattative internazionali e ai consueti incontri bilaterali ma sempre più giocata trasversalmente su tutti i temi (dall’ambiente all’immigrazione, dalla lotta alla povertà ai trattati commerciali) e in cui proprio la cooperazione allo sviluppo potrà giocare un ruolo centrale come strumento di “soft power” per il Paese e chiave per un contributo positivo dell’Italia nel costruire un mondo più sostenibile, equo e sicuro.

Questi i temi e le prospettive che “Tomorrowland - Una strategia per la nuova cooperazione italiana”, l’e-book di Emilio Ciarlo appena uscito per le edizioni Palinsesto!

Emilio Ciarlo è consigliere del Viceministro degli esteri; esperto di relazioni internazionali si occupa soprattutto di nuova cooperazione, Europa, Mediterraneo (Twitter: @satricum).
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martedì 29 settembre 2015

Libia: una soluzione ancora lontana

Mediazione senza accordo
Libia: Léon exit, che cosa accadrà?
Roberto Aliboni
23/09/2015
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Il 20 settembre, è scaduto il mandato dell’ambasciatore Bernardino Léon come inviato speciale del segretario generale dell’Onu per la Libia. Dovrebbe esserci un nuovo inviato. Si è parlato di un diplomatico austriaco. Non sarà un’eredità facile. È anzi un’eredità assai rischiosa.

Nessun accordo è emerso da una mediazione che è durata un anno, con varie cadute e infaticabilmente di nuovo e ancora resuscitata da Léon. Nel congedarsi l’ambasciatore ha lasciato alle parti la bozza di accordo più avanzata che gli è stato possibile redigere.

Ancora una volta ha sottolineato la necessità di un governo di accordo nazionale, come quello della sua bozza, e ha esortato i libici, adottandola, a non perdere l’ultimo treno.

Ma la realtà è che esistono in Libia e soprattutto fuori della Libia forze che non accettano l’accordo e forze che l’accordo lo vorrebbero ma non hanno voluto o potuto contrastare le forze ad esso ostili nella regione.

L’interferenza degli attori regionali è e rimane un forte ostacolo. I governi occidentali hanno appoggiato la mediazione, ma non hanno impedito o limitato l’interferenza in Libia di alleati ed amici, come l’Arabia Saudita, la Turchia e l’Egitto, allo scopo di assicurarsi nella regione altri interessi e obiettivi, evidentemente ritenuti più importanti.

Perché e dove l’accordo è mancato?
Gli islamisti-rivoluzionari di Tripoli non accettano due significativi provvedimenti approvati dalla Camera dei Rappresentanti di Tobruk: la nomina del generale Hiftar come comandante supremo delle forze armate e la cancellazione della legge di epurazione istituita dagli islamisti-rivoluzionari alla fine del 2013 (indubbiamente due delle cause maggiori della guerra civile).

Inoltre, non accettano di dissolvere il loro parlamento nel Senato di nomina nelle linee di quanto suggerito da Léon, per superare in qualche modo l’antinomia creatasi con la guerra civile fra la Camera dei Rappresentanti, eletta nel giugno 2014, e il Congresso nazionale generale, arbitrariamente riesumato da quelli che le elezioni non le avevano vinte (una controversia questa che sembra echeggiare quella attualmente in corso in Italia).

Su questi punti non c’è una contrapposizione netta fra le due fazioni. Al contrario, ci sono notevoli dissensi interni e raccordi trasversali. Questo anche perché la mediazione di Léon - che in questo ha compiuto il suo capolavoro - ha fatto affiorare la spinta unitaria e democratica della società civile libica.

Questa società di fatto costituisce oggi una maggioranza, che però non ha una sua leadership (un problema comune a tutte le rivoluzioni arabe del 2011) e non riesce a superare quindi gli interessi conservatori delle rispettive forze militari e dei leader politici ad esse legati.

La prospettiva nazionale è un rischio mortale per le milizie islamiste-rivoluzionarie e per le forze di Hiftar. Le milizie hanno già ucciso una volta la transizione libica per i loro interessi. In pratica, si apprestano a farlo una seconda volta.

Le prospettive di un Governo di Accordo nazionale
Un Governo di Accordo Nazionale, come quello evocato nella bozza dell’Onu, ha comunque la sua base e potrebbe nascere da una scissione trasversale delle fazioni, lasciando fuori i militari e i politici faziosi.

Questi però attaccherebbero il nuovo governo rilanciando una nuova guerra civile. Perché il Governo di Accordo nazionale possa affrontare e superare la sua transizione ci dovrebbe essere un forte sostegno, anche militare, della società internazionale: sarebbe normale aspettarselo da parte di quella occidentale.

Ma di questo manca l’appetito, come dicono gli anglosassoni. La prova diplomatica data nel corso della mediazione di Léon, inoltre, non augura bene. Infine, è evidente che, malgrado l’allarme per il sedicente Sato islamico in Libia, gli occidentali (e i russi) sono concentrati sulla Mezzaluna Fertile, la Siria e l’Iraq.

Di fronte poi agli sviluppi della mobilità dei siriani, degli iracheni e degli afghani, finora affollati in Turchia, in Giordania e in Libano, e ora in movimento verso l’Europa, riaprendo la rotta dei Balcani, anche i flussi in arrivo più o meno imperterriti dall’Africa e dal Medio Oriente attraverso il Mediterraneo e l’Italia sembrano diventati minori.

Diplomazia e migrazioni, il ruolo dell’Occidente
Dunque che cosa accadrà? È probabile che la mediazione Onu ricomincerà con un nuovo inviato, ma difficilmente potrà riprendere la linea di Léon - come lui ha suggerito nella sua ultima conferenza stampa a Skhirat.

Potrebbe invece puntare ad aggregare le forze della pace contro i signori della guerra e i loro procuratori politici, come si è appena accennato. Ma in questo caso non potrà esimersi dal trovare e fomentare le forze esterne decise a contribuire militarmente e politicamente all’impresa, tenendo a bada i forti interessi (specialmente nella regione) che invece non sono favorevoli a questo corso. Non è un compito facile, anzi è decisamente difficile.

Per farlo, l’Onu ha bisogno di un deciso e coraggioso appoggio dei governi. I governi europei avrebbero un forte e specifico interesse a sostenere l’Onu in questa strategia.

Se dovessimo giudicare dalla situazione di oggi, questo appoggio europeo è però improbabile, anche se quello che sta accadendo con l’esodo ormai generalizzato dei rifugiati potrebbe fare il miracolo di risvegliare gli europei.

Altrimenti è plausibile che si crei in Libia un’area di confitti endemici e di continuate tracimazioni, nei cui confronti qualsiasi gestione risulterà tanto costosa quanto poco produttiva.

Roberto Aliboni è consigliere scientifico dello IAI.
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