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Metodo di Ricerca ed analisi adottato


Il medoto di ricerca ed analisi adottato è riportato suwww.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com

Vds. post in data 30 dicembre 2009 seguento il percorso:
Nota 1 - L'approccio concettuale alla ricerca. Il metodo adottato
Nota 2 - La parametrazione delle Capacità dello Stato
Nota 3 - Il Rapporto tra i fattori di squilibrio e le capacità delloStato
Nota 4 - Il Metodo di calcolo adottato

Per gli altri continenti si rifà riferimento al medesimo blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com per la spiegazione del metodo di ricerca.

sabato 26 novembre 2016

Trump: anche l'Africa è araba

Relazione Usa-Medio Oriente
Trump, se il mondo arabo vuol fare l'antiamericano
Azzurra Meringolo
14/12/2016
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Per il mondo arabo, Usa 2016 è stata la prima campagna presidenziale nel corso della quale l’islamofobia - e con essa l’hate speech - è stata uno strumento strategico utilizzato per incassare consenso.

Dopo che Donald Trump, nel dicembre 2015, ha proposto di vietare l’ingresso dei musulmani negli Stati Uniti, l’appuntamento elettorale è diventato un test in cui alla prova, oltre ai due candidati, c’era l’intero elettorato statunitense chiamato a esprimersi anche sui toni apertamente razzisti del tycoon.

La retorica islamofobiche e le audience arabe
Un sondaggio pre elettorale svolto da YouGov ed Arab News aveva infatti mostrato come la retorica islamofobica della campagna del tycoon stesse alienando le audience arabe: anche se sulle tematiche sensibili, come l’aborto e la condizione femminile, oltre il 75% degli intervistati si sentiva più vicino alle posizioni di Trump, solo il 9% avrebbe dato a lui la sua preferenza.

In aggiunta, un’indagine di opinione realizzata un mese prima dell’election day dall’Arab Center di Washington su un campione di 3600 persone residenti in nove Paesi arabi ha mostrato come oltre il 60% degli intervistati aveva già allora un’opinione negativa di Trump.

Nonostante questo, meno del 20% credeva che il cambio di guardia alla Casa Bianca potesse avere un impatto significativo sulla politica estera globale e regionale degli Stati Uniti. E solo il 13% pensava che con Trump alla presidenza questo impatto potesse essere positivo.

All’indomani del risultato, Trump ha comunque ricevuto le congratulazioni di tutti i leader arabi, ma il pragmatismo dei governanti arabi non ha contagiato le società arabe. Sono infatti rimasti critici sia la maggioranza dei cittadini che i rappresentanti dell’Islam più radicale.

Basta pensare alle prime parole pronunciate da Abu Muhammad Al-Maqdisi, ideologo di Al-Qaeda, che non ha esitato a definire il successo di Trump l’inizio del declino più profondo e della disintegrazione degli Stati Uniti. Secondo Al-Maqdisi, infatti, l’elezione di Trump ha messo a nudo, una volta per tutte, la mentalità razzista e islamofobica degli statunitensi. Questo potrebbe quindi motivare i musulmani nemici degli Stati Uniti a reagire.

Reazioni immediate a parte, in pochi si sono sbilanciati nel fare previsioni sulla politica estera di Trump nella regione. Come già scritto su questa rivista, l’approccio al mondo del neo eletto presidente è infatti poco prevedibile.

Per abbozzare qualche pronostico si può al massimo riflettere su tre elementi che hanno caratterizzato la campagna elettorale di Trump: il nazionalismo estremamente realista; la preferenza per accordi bilaterali con le potenze regionali e la riluttanza a intervenire militarmente su larga scala. Anche questi però vanno presi con cautela, visto che le prime dichiarazioni del Trump presidente hanno in parte rinnegato gli annunci fatti durante la campagna elettorale.

Molto dipenderà dai nomi degli uomini che andranno a comporre la sua squadra. E le prime nomine non fanno ben sperare. Anzi visti i profili, il timore è che l’islamofobia che Trump ha usato per fare campagna elettorale, diventi ora un pilastro della sua pratica politica che in Medio Oriente avrà come priorità la lotta al terrorismo.

Trump come Bush figlio 
L’enfasi posto dal nuovo presidente su questo ultimo aspetto ha spinto molti analisti a paragonare Trump con Bush figlio e a prevedere che il pendolo che registra l’andamento dell’azione statunitense nel mondo subirà una significativa oscillazione, tornando nella posizione già occupata durante l’epoca di Bush, ovvero l’estremo opposto di quello nel quale si è posizionato con l’arrivo di Obama.

Anche se sull’interventismo Trump è stato cauto, è probabile che con il suo ingresso alla Casa Bianca gli Stati Uniti prenderanno le distanze dalle politiche della “mano tesa” volute (e spesso rimaste solo parole), da Obama.

Come Bush, che voleva trasformare il Medio Oriente in una parte di mondo più stabile, anche Trump potrebbe commettere una serie di errori che porterebbero al risultato opposto, al contempo nutrendo le istanze antiamericane. Quelle sempre esistite e congenite alla regione; ma anche quelle sopite dall’avvento di Obama e dal restyling di immagine a cui questo ha costretto gli Stati Uniti appena entrato alla Casa Bianca.

L’antiamericanismo nell’epoca Trump
Anche se la burocrazia di Washington riuscirà ad imbrigliare il nuovo presidente, il suo arrivo alla Casa Bianca contribuirà a delineare l’immagine degli Stati Uniti nel mondo; tanto più se Trump continuerà a utilizzare i toni incendiari della sua campagna.

In generale però, la figura presidenziale ha un peso relativo sull’evoluzione dell’antiamericanismo. E questa è probabilmente una buona notizia per gli osservatori preoccupati da un’eventuale crescita dell’antiamericanismo dovuta all’arrivo alla Casa Bianca di un personaggio tutt’altro che amato nel mondo arabo.

Consapevole di non essere un uomo popolare in Medio Oriente, all’indomani della vittoria, Trump è sembrato pronto a ricorrere ai ripari. Per scongiurare il peggio è andato a ripulire il suo programma elettorale, ritoccando la versione online dalla quale è scomparso il punto relativo al divieto di ingresso dei musulmani nel Paese. Un aggiustamento fatto probabilmente pensando alle conseguenze, in primis per la sicurezza della nazione, di una politica dagli spiccati toni islamofobici.

Se da un lato è quindi prematuro prevedere un inasprimento sostanziale dell’antiamericanismo arabo legato esclusivamente alla nuova figura presidenziale, dall’altro si può già ipotizzare che se Trump si limiterà a modifiche cosmetiche del suo programma, cercando nei fatti di realizzarlo, avrà poche carte per contenere e combattere attivamente l’antiamericanismo arabo - un fenomeno che pur avendo radici relativamente giovani nella regione necessita ricette elaborate e di lungo periodo per essere estirpato.

Né media diplomacy, né soft power riusciranno a vincere, da soli, le menti e i cuori degli arabi che negli ultimi decenni hanno maturato, per svariate ragioni e in diversa misura, un risentimento più o meno profondo nei confronti della Casa Bianca.

Con l’arrivo del neo eletto, il timore è che la componente più virulenta dell’antiamericanismo possa, nel tempo, diffondersi e radicarsi in una fascia più ampia della popolazione, trasformandosi da mentalità a ideologia.

Qualora questo accadesse, i pericoli per la Casa Bianca sarebbero certamente maggiori: in un mondo sempre più interconnesso, una volta cristallizzate, le ideologie sono più complesse da estirpare rispetto a mentalità che non portano direttamente alla creazione di pregiudizi.

Azzurra Meringolo è ricercatrice presso lo IAI e caporedattrice di AffarInternazionali. Coordinatrice scientifica di Arab Media Report. Potete seguirla sul suo blog e su twitter a @ragazzitahrir.

mercoledì 16 novembre 2016

Tunisia: sostegno dall'Europa

Medio Oriente
Tunisia: verso la zona di libero scambio con l’Ue
Giulia Cimini
12/11/2016
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Sostegno alla società civile e alla riforma della pubblica amministrazione e del settore giudiziario, miglioramento della governance, riduzione delle disparità sociali e della disoccupazione giovanile, lotta al terrorismo: sono solo alcuni degli obiettivi contenuti nelle conclusioni del Consiglio dell’Unione europea, Ue, del 17 ottobre sulla Comunicazione congiunta “Un sostegno rafforzato per la Tunisia” presentato a Bruxelles dall’Alto rappresentante dell'Unione europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Federica Mogherini, e dal Commissario Ue per l'Allargamento e la politica europea di vicinato, Johannes Hahn, a fine settembre.

Il Consiglio, infatti, si è espresso favorevolmente sulle misure contenute nella Comunicazione, ribadendo il suo sostegno alla transizione in atto nel Paese e l’impegno a rafforzare gli aiuti alla Tunisia sulla base del progresso delle riforme annunciate nel piano di sviluppo quinquennale 2016-2020 presentato recentemente dal governo.

In particolare, l’Ue raddoppierà l’assistenza finanziaria alla Tunisia prevista per il 2017, erogando fino a 300 milioni di euro. Questa cifra va ad aggiungersi ai due “pacchetti” dell’assistenza macro-finanziaria, uno strumento complementare agli aiuti del Fondo Monetario Internazionale, approvati nel 2014 e questa estate (rispettivamente 300 e 500 milioni di euro).

I versamenti, ancora parziali, sono condizionati all’attuazione di riforme strutturali, tra cui la riforma delle istituzioni pubbliche e delle società statali e la riduzione dei sussidi energetici.

Alle origini delle relazioni Tunisia-Ue
Dal 2011, la Tunisia è stata uno dei principali beneficiari dei fondi europei erogati attraverso diversi programmi su base geografica, in primis lo Strumento europeo di vicinato (Eni), e di natura tematica, come lo Strumento europeo per la democrazia ed i diritti umani (Eidhr), lo Strumento inteso a contribuire alla stabilità e alla pace (IcSP) e lo Strumento per le Organizzazioni della società civile e Autorità locali.

Le sue relazioni con l’Ue datano alla fine degli anni Sessanta (nel 1969 il primo accordo commerciale con la Cee). Nel 1995, la Tunisia è stato il primo Paese a firmare un Accordo di Associazione con la Ue nel quadro del Partenariato euro-mediterraneo inaugurato dal cosiddetto “Processo di Barcellona” e, a partire da gennaio 2008, il primo Paese della sponda sud del Mediterraneo ad entrare a tutti gli effetti nella zona di libero scambio per i prodotti industriali con l’Europa, dopo un periodo transitorio di progressivo smantellamento tariffario.

Dal 2012, la Tunisia ha uno “statuto avanzato” con l’Ue, che mira principalmente all’attuazione del controverso Accordo di Libero Scambio Completo e Approfondito (Dcfta/Aleca) i cui negoziati sono stati avviati ufficialmente ad ottobre 2015. Il Dcfta, in continuità con gli accordi precedenti, mira ad estendere la zona di libero scambio a tutti i prodotti manifatturieri e a nuovi settori, tra cui quello dei servizi e dell’agricoltura attraverso la liberalizzazione commerciale.

Emergenza economica tunisina
In un’intervista radiofonica, Fadhel Abdelkefi, Ministro per gli investimenti, lo sviluppo e la cooperazione internazionale del nuovo governo tunisino di unità nazionale di Youssef Chahed aveva descritto il Paese in uno “stato di emergenza economica”.

Le tensioni sociali che hanno segnato la prima metà del 2015 con le proteste nella regione interna di Kasserine e in altre aree del Paese, le ripercussioni sul turismo - settore trainante dell’economia tunisina - a seguito dei passati attacchi terroristici, sono stati i principali driver della performance economica della Tunisia nello scorso anno.

Il rapporto annuale 2016 della Banca Mondiale ha registrato una crescita del Pil 2015 dello 0.8% soltanto (in calo rispetto agli anni precedenti), un tasso di disoccupazione al di sopra del 15%, in particolare giovanile, e un debito pubblico che ha raggiunto il 52% del Pil, contro il 40% nel 2010. A preoccupare è soprattutto la mancanza di investimenti, che dovrebbero beneficiare della nuova legge sugli investimenti recentemente adottata dall’Assemblea dei Rappresentanti del Popolo in Tunisi.

In particolare, grandi speranze si nutrono attorno alla Conferenza Internazionale degli Investimenti che si terrà a Tunisi a fine novembre, tanto che recentemente il comitato consultivo del partito islamista Ennahda - parte del governo Chahed - ha richiamato all’unità politica per assicurare la riuscita di questa iniziativa economica, intesa come piattaforma fondamentale per il rilancio degli investimenti nazionali ed esteri in tutti i settori e la ripresa più in generale dell’economia.

Non mancano posizioni molto critiche sulla natura sbilanciata e l’equilibrio delle relazioni commerciali ed economiche tra la Tunisia e l’Ue, in particolare per quanto riguarda il controverso accordo sul libero scambio. Si pensi, ad esempio, al comunicato congiunto co-firmato a febbraio 2016 da parte di diverse organizzazioni della società civile tunisina - tra cui il sindacato Ugtt e la Lega dei diritti dell’uomo - e francese in occasione del voto del Parlamento europeo sull’apertura dei negoziati per il Dcfta.

A suscitare non poche perplessità è la mancanza di un cambiamento nella strategia europea che consenta al Paese nordafricano uno sviluppo sostenibile nel lungo periodo, un approccio che trascura le specificità del tessuto industriale tunisino e la sua competitività con la controparte e limita la libertà dello stato di proteggere gli investimenti in nome della “libera concorrenza”.

Giulia Cimini è dottoranda di ricerca in Studi Internazionali presso l'Università degli Studi di Napoli L'Orientale.

sabato 12 novembre 2016

Una visione africocentrica del Diritto

Diritto internazionale
Corte penale internazionale, gli africani che vogliono abbandonarla
Anastasia Buscicchio
13/11/2016
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Continua lo scacco alla Corte Penale Internazionale, Cpi, da parte degli stati africani. Più volte è stata considerata in seno all’Unione Africana, Ua, l’ipotesi di un “recesso di massa” dallo Statuto di Roma.

Sebbene durante l’ultimo vertice dell’Ua alcuni Paesi tra cui Botswana, Nigeria, Senegal, Costa d’Avorio e Tunisia si siano pubblicamente opposti all'idea, nelle ultime settimane Burundi, Sudafrica e Gambia hanno manifestamente espresso la loro volontà di abbandonare la Corte.

In ogni caso, il recesso entrerà in vigore a decorrere da un anno dalla notifica al Segretario Generale delle Nazioni Unite, che ne è depositario in conformità all’art. 127 dello Statuto di Roma.

È bene tener presente che a norma dello stesso articolo, il recesso di uno Stato non lo esonera dagli obblighi posti a suo carico quando ne era parte, né compromette qualsiasi cooperazione concordata con la Corte in occasione d’inchieste e procedure penali alle quali lo Stato che recede aveva il dovere di cooperare e iniziate prima della data in cui il recesso è divenuto effettivo.

Tale atto di rinuncia non impedisce neppure di continuare a esaminare qualsiasi questione di cui la Corte era già investita prima della data in cui il recesso è divenuto effettivo. Di conseguenza, i crimini che si sono commessi in precedenza alla data della notifica di recesso restano comunque perseguibili.

Burundi, Sudafrica e Gambia votano il recesso dallo Statuto di Roma
Il Parlamento del Burundi ha votato a favore del recesso dallo Statuto di Roma il 12 ottobre 2016, a poco più di un mese dalla pubblicazione del rapporto della Commissione di Indagine Indipendente delle Nazioni Unite in Burundi (Uniib), il quale registra prove di manifeste violazioni dei diritti umani e la potenziale commissione di crimini contro l’umanità da parte del governo di Bujumbura e degli organi agenti a proprio titolo.

Appena una settimana dopo l’approvazione del recesso da parte del parlamento in Burundi, il 19 ottobre 2016, la Repubblica Sudafricana ha notificato al Segretario Generale delle Nazioni Unite la propria volontà di recesso con documento firmato dal Ministro degli Esteri Maite Nkoana-Mashabane.

Le prime divergenze tra Sudafrica e Cpi sono nate lo scorso anno, quando Pretoria ha ignorato l’ordinanza d’arresto della Corte nei confronti del presidente sudanese Omar Hassan al-Bashir, accusato di genocidio e crimini di guerra in Darfur.

Il governo sudafricano, inoltre, sostiene che l’effettiva implementazione dello Statuto della Cpi del 2002 si ponga in conflitto con le previsioni disposte dal proprio Diplomatic Immunities and Privileges Act n. 37 del 2001, e le sue obbligazioni riguardo alla risoluzione pacifica dei conflitti siano incompatibili con l’interpretazione proposta dalla Corte.

Analogamente, a pochi giorni dalla notifica, il governo del Gambia si è schierato a sfavore della Corte, pronunciandosi duramente contro l’attività dell’organo, accusato di essere uno strumento umiliante nei confronti degli africani e il cui mirino è rivolto esclusivamente a questo continente, dislocando l’attenzione da altri episodi criminosi diffusi in diverse aree del globo.

“Corte caucasica internazionale”
La Cpi è stata perfino definita “Corte caucasica internazionale” alludendo alle ingerenze dei Paesi Occidentali e dei loro interessi negli affari della Corte. In questo clima di tensione sarebbe più che mai opportuno riconsiderare gli equilibri e soprattutto gli squilibri in seno alla Cpi e agli organi da cui discende.

La critica non è recente: già in passato gli stati dell’Ua avevano biasimato la parzialità dell’organo, mal tollerando l’elevata concentrazione d’indagini sul territorio africano.

Lo scorso settembre, la Procuratrice della Corte penale internazionale Fatou Bensouda ha pubblicato a tal proposito una dichiarazione concernente i parametri di selezione e classificazione dei casi dei quali la Procura è chiamata ad occuparsi.

Oltre a chiarire il potere discrezionale dell’ufficio, il documento precisa i parametri che indirizzano la Procura nella scelta dei casi sui quali indagare, tra cui: la gravità dei crimini, il grado di responsabilità e i capi di imputazione in conformità ai principi di indipendenza, imparzialità e obiettività a fondamento dell’attività della Corte.

L’ufficio istruttorio ha condotto negli ultimi anni indagini in Uganda; Repubblica Democratica del Congo; Darfur, Sudan; Repubblica Centrafricana, mediante due distinte investigazioni; Kenya; Libia; Costa d’Avorio, Mali e Georgia. La Procura ha altresì indetto indagini preliminari riguardo alle situazioni in Afghanistan; Colombia; Guinea; Iraq/UK; Palestina, Nigeria e Ucraina.

Rischio reazione a catena
La preoccupazione principale alla luce degli ultimi avvenimenti è che tali episodi possano provocare una reazione a catena, per cui ogni Stato che si trovi in posizione di dissenso con la Corte Internazionale sarebbe portato a notificare l’atto di rinuncia dallo Statuto.

Il concreto recesso da parte di uno Stato membro rappresenterebbe un grave passo indietro, specialmente riguardo agli sforzi compiuti in virtù dell’universalità dell’Istituzione.

In un momento simile frutterebbe se tutti gli Stati lavorassero congiuntamente, invitando i membri insofferenti a riconsiderare la propria posizione e avviando un nuovo dialogo, per sostenere la Cpi, ma soprattutto assicurarne efficacia e attendibilità per tutelare il sistema di giustizia universale garantito alle vittime di atrocità di massa e contrastare l’impunità innanzi alla brutalità di tali crimini, al di là dei dissapori e i vezzi politici di singoli capi di Stato.

Sebbene imperfetta, la Cpi resta uno strumento cruciale di accesso alla giustizia internazionale, essenziale ad assicurare lo stato di diritto e la tutela dei diritti fondamentali per le vittime delle più gravi violazioni di diritto umanitario.

Con i suoi 124 stati membri, dal 2002, è il primo organismo giudiziario con giurisdizione internazionale permanente per la persecuzione di genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra; in assenza di corti regionali con giurisdizione penale, è l’unica garanzia giudiziale sovranazionale per chi è vittima di crimini internazionali.

Anastasia Buscicchio è assistente di ricerca presso il Budapest Centre for Mass Atrocities Prevention.