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Metodo di Ricerca ed analisi adottato


Il medoto di ricerca ed analisi adottato è riportato suwww.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com

Vds. post in data 30 dicembre 2009 seguento il percorso:
Nota 1 - L'approccio concettuale alla ricerca. Il metodo adottato
Nota 2 - La parametrazione delle Capacità dello Stato
Nota 3 - Il Rapporto tra i fattori di squilibrio e le capacità delloStato
Nota 4 - Il Metodo di calcolo adottato

Per gli altri continenti si rifà riferimento al medesimo blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com per la spiegazione del metodo di ricerca.

giovedì 31 marzo 2016

LIBIA. Ad un mese di distanza

Il 3 marzo alcune milizie del Consiglio Militare di Sabratah (CMS), città nell’ovest della Libia, si sono scontrare con gruppi armati rivali probabilmente afferenti al network dello Stato Islamico. Nel corso del conflitto a fuoco sono rimasti uccisi due ingegneri italiani, Fausto Piano e Salvatore Failla, rapiti lo scorso luglio nei pressi di Mellitah. Permangono numerosi dubbi sulla dinamica dell’accaduto. Infatti secondo alcune ricostruzioni, i due italiani sarebbero rimasti uccisi durante l’offensiva delle milizie del CMS contro un covo dello Stato Islamico nelle campagne a ovest di Sabratah. Al contrario, secondo altre indiscrezioni, i due ingeneri italiani sarebbero rimasti uccisi in seguito ad una imboscata subita dal gruppo che li teneva in ostaggio mentre era in corso il loro trasferimento da Sabratah ad una non meglio precisata destinazione.
Il giorno successivo, gli altri due ingegneri italiani ostaggio dei miliziani libici, Gino Tullicardo e Filippo Calcagno, sono stati rilasciati e presi in consegna dalle autorità italiane.
I tragici avvenimenti di Sabratah non solo confermano il grado di instabilità e insicurezza che caratterizza la Libia, ma anche l’estrema frammentazione del mosaico delle milizie e la graduale espansione del network dello Stato Islamico nel Paese. Infatti, il movimento jihadista, grazie alla propria capacità di cooptare ed assorbire le istanze tribali e miliziane, è riuscito a porre sotto il proprio ombrello un ampio ventaglio di formazioni armate, non necessariamente estremiste ma consapevoli dei benefici logistici, mediatici e propagandistici ottenibili mediante l’affiliazione, seppur formale, allo Stato Islamico.
Desta particolare preoccupazione la presenza di un alto numero di miliziani tunisini a Sabratah, città ormai diventata sia la testa di ponte di Daesh nell’ovest del Paese sia il punto di raccolta e passaggio per i combattenti provenienti dal nord Africa. Tale tendenza testimonia l’estrema concretezza del rischio di internazionalizzazione del conflitto libico e di trasformazione del Paese in un nuovo ed attrattivo fronte del jihad globale. 

Fonte CESI 

Geopolitical Weekly n°209

giovedì 24 marzo 2016

Libia: Si è formato il governo libico

Medio Oriente
Libia: il governo autocertificato di Al-Sarraj
Roberto Aliboni
21/03/2016
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Esiste veramente un governo libico, come si apprende dai media e dalle dichiarazioni dei governi occidentali? Fra gennaio e oggi la Camera di Tobruk ha condotto un crescente boicottaggio per impedire che il governo presentato dal primo ministro Fayyed al-Sarraj sia eletto.

La settimana passata una deputata della Camera, Siham Sirsiua, ha ben descritto la situazione dichiarando che 101 membri del parlamento sostengono la fiducia ,ma che “Tutti gli altri membri si oppongono al voto e boicottano le sessioni di modo che il quorum non sia raggiunto”.

In questa situazione, con la pressione dell’Onu e dei governo occidentali alle spalle, il 12 marzo il primo ministro libico al-Sarraj ha emesso un comunicato che autocertifica la legittimità del governo sulla base delle dichiarazioni extraparlamentari dei 101 ed esorta le istituzioni libiche e la comunità internazionale a riconoscere l’autorità del governo da lui designato e a sostenerlo.

L’Occidente trova il governo libico 
Il giorno dopo, 13 marzo, nel dare notizia di quanto appena detto, la Associated Press informa che “Alcuni governi europei e gli Stati Uniti subito hanno dato il benvenuto alla dichiarazione e il Dipartimento di Stato ha definito la nuova entità come ‘il solo governo legittimo in Libia’ esortando tutte le parti ad ‘agire responsabilmente’ e ‘dargli pieno sostegno’.

Nello stesso giorno si sono incontrati al Quai d’Orsay a Parigi i ministri degli Esteri di Francia, Germania, Italia, Regno Unito e Stati Uniti per sancire l’appoggio al governo al-Sarraj. Il 14 marzo si è riunito il Consiglio Affari Esteri dell’Ue che ha imposto sanzioni su tre leader dell’opposizione al governo al-Sarraj, che dunque diventa l’unico e valido interlocutore dell’Occidente (e chi non è con lui, peste lo colga).

L’Occidente perciò ha finalmente trovato quel “governo legittimo” che costituisce la condizione formale e politica dell’intervento militare destinato a stabilizzare la Libia. Quindi un intervento ci dovrebbe essere, accanto ed oltre quello di controterrorismo che è già in corso.

Tuttavia, se a Tobruk le condizioni formali per l’elezione del governo al-Sarraj sono mancate e continuano a mancare è perché mancano innanzitutto quelle politiche. A mostrarlo anche il rifiuto, da parte dei governi di Tripoli e Tobruk, dell'ingresso in città del governo di Serraj. Il “premier" di Tripoli in particolare aveva minacciato Serraj dicendo che qualora provasse “ad entrare in Libia ci saranno delle conseguenze".

Fuori Haftar
In Libia è in corso un ennesimo, estremo scontro di potere su più fronti. Al-Sarraj è l’espressione di una coalizione di liberali nazionalisti, misuratini e islamisti moderati - buona parte dei Fratelli Mussulmani - che si ispira alle finalità e ai principi cui l’Onu ha puntato nella sua lunga mediazione e ha poi riversato nell’accordo di Skhirat.

Questa coalizione ha due forti avversari. Innanzitutto, una coalizione che vede il progetto Onu come un ostacolo all’affermazione delle correnti islamiste più intransigenti nonché come un impedimento esterno ad un’intesa “fra libici”. In secondo luogo, la coalizione di militari e funzionari ex-gheddafiani, tribù cirenaiche e separatisti che fa riferimento al generale Khalifa Haftar e al suo progetto di “zero islamisti” nel paese, in alleanza innanzitutto con l’Egitto.

In questo quadro, al-Sarraj ha subito nominato un ministro della Difesa, il generale Mahdi al-Barghati, che non fa parte della cerchia di Haftar, con il compito di attuare l’obiettivo politico centrale del suo governo, sulla base dell’articolo 8 dell’accordo di Skhirat: ritirare il comando supremo delle forze armate e il portafoglio della difesa a Haftar e partire da qui per ricostituire la catena di comando e procedere, con l’aiuto dei paesi occidentali, a quella riforma del settore della sicurezza che in effetti è indispensabile sia per la democrazia libica di domani sia per mettere fine allo scontro civile in atto e alle interferenze straniere che lo alimentano

Ma la nomina di al-Barghati e il progetto sottostante alla nomina sono stati immediatamente osteggiati nel Consiglio presidenziale da due membri del Consiglio, alleati di Haftar e delle forze che lo appoggiano in Cirenaica, al-Qatrani e al-Aswad. Questa opposizione si è riflessa nel parlamento di Tobruk che alla fine di gennaio ha approvato l’accordo di Skhirat, ma non l’articolo 8 e, appena più tardi, ha iniziato il boicottaggio del governo al-Sarraj da parte dei deputati vicini alle due coalizioni che gli si oppongono. Non solo è diviso il parlamento, ma anche il Consiglio presidenziale, che negli accordi di Skhirat è una sorta di guida collettiva del governo.

Politici, più voglia di avventure militari dei militari
Se queste sono le condizioni politiche che prevalgono in Libia, è evidente che avere un appiglio di legittimità formale non serve a superare le obiezioni che si sono fin qui fatte a un intervento militare senza che questo abbia alle spalle il requisito dell’unità nazionale libica.

Al-Farraj non fornisce questo requisito e quindi la coalizione occidentale che intervenisse - come spesso asserito anche nelle dichiarazioni dei governi - diverrebbe la scintilla di una nuova fase di guerra civile, nel cui ambito la crisi libica si aggraverebbe, il governo al-Farraj subito apparirebbe un governo marionetta e, di conseguenza, susciterebbe un’ondata di nazionalismo che rafforzerebbe i radicali d’ogni genere. Con tutto ciò le stesse, scarse possibilità di condurre con successo la lotta all’Isis sarebbero compromesse.

Che farà l’Italia? Nelle ultime settimane il presidente del consiglio Matteo Renzi era sembrato più stringente e cauto sulle condizioni dell’intervento italiano, ma le dichiarazioni del ministro degli Esteri Paolo Gentiloni alla riunione di Parigi accettano pienamente l’autocertificazione di al-Sarraj come condizione necessaria di tale intervento. Si va quindi verso un intervento?

Un’intervista di Paolo Valentino al ministro italiano della Difesa, Roberta Pinotti, sul Corriere della Sera del 14 marzo, suona accenti più pacati. Del resto, una teleconferenza del 15 marzo fra i ministri della Difesa dei paesi riunitisi a Parigi il 13 marzo in presenza di un governo patentato come legittimo, ma assolutamente non rappresentativo di qualsiasi unità nazionale ha ripresentato le note riserve all’intervento.

Come si è visto in altre occasioni, i politici hanno più voglia di avventure militari dei militari. Resta ora da sentire il Parlamento, ma anche da conoscere il piano di contingenza che il governo intende attuare, non dimenticando che i libici, anche gli “amici” del governo al-Sarraj, si aspettano solo un intervento tecnico che non faccia la guerra al loro posto, ma solo li metta in condizioni di farsela tra loro.

Roberto Aliboni è consigliere scientifico dello IAI.
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Libia: un problema aperto

Medio Oriente
La politica della non-guerra in Libia
Giuseppe Cucchi
14/03/2016
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Per anni ci siamo lamentati che la Libia fosse in preda al caos senza che la comunità internazionale sentisse alcun dovere di intervenire. Abbiamo stigmatizzato il modo in cui Gheddafi era stato rovesciato, senza avere però alcuna idea sul come gestire il vuoto di potere creatosi. Non siamo arrivati a dire "si stava meglio quando c'era lui!" ma ce lo avevamo sulla punta della lingua.

Per anni abbiamo recepito con allarme la tendenza di Nato ed Unione Europea ad occuparsi solamente di quanto avveniva nell'Est continentale, dimenticando quella sponda sud del Mediterraneo così scomodamente e pericolosamente vicina a casa nostra.

Abbiamo pontificato asserendo che l'unica via possibile per arrestare il flusso di migranti che si abbatte incontrollabile sulle nostre coste consisteva nel rimettere ordine in quel caos libico che favoriva e proteggeva la criminale proliferazione degli scafisti.

Eppur si muove
Ora qualcosa si sta muovendo. Dopo tutto il tempo perso con la mediazione affidata ad un diplomatico spagnolo che, a conclusione del suo mandato, aveva fatto il possibile per screditare se stesso, l'organizzazione di appartenenza ed il risultato che sembrava aver raggiunto, le Nazioni Unite sembrano aver trovato la strada e la persona giuste per avviare il processo che dovrebbe, con una difficile traiettoria, riportare ad unità ciò che ancora appare come un puzzle di potere estremamente complesso.

È comprensibile come la definizione di un Governo unico, se non gradito, perlomeno accettabile per le maggiori parti in causa, stenti ancora ad imporsi nonostante i numerosi passi avanti già compiuti.

Rimane l'ostacolo non indifferente costituito non tanto dai Governi ed i Parlamenti che da Tobruk e Tripoli si contrappongono l'uno all'altro, con duplice dubbia legittimità, ma piuttosto dalle medie potenze regionali che sostengono i due campi contrapposti in quella che, se non una guerra, è perlomeno una feroce competizione per la leadership in campo sunnita, condotta " per “proxies" e senza esclusione di colpi.

I veri ostacoli all'accordo che dovrebbe aprire la strada, in progressiva successione, prima ad una richiesta di aiuto all'Occidente formulata da un Governo legittimo ed universalmente riconosciuto, ed in seguito ad un intervento di nation rebuilding che l'Italia appare da tempo destinata a guidare, non sono quindi tanto né i Parlamenti né le personalità militari e politiche contrapposte in Libia, bensì l'Egitto, la Turchia, l'Arabia Saudita, il Qatar, gli Emirati Arabi Uniti, il Sudan, e l'elenco potrebbe continuare.

I tre messaggi degli occidentali
In questa ottica gli avvenimenti delle ultime settimane, che hanno registrato un particolare, inedito attivismo tanto degli Stati Uniti, che con l'attacco a Sirte hanno sottolineato il loro ritorno sulla scena nord africana, quanto di parecchie nazioni europee - la Francia, l'Inghilterra, la stessa Italia - che hanno a più riprese sottolineato ufficialmente come reparti delle loro forze speciali siano da tempo in territorio libico, appaiono come un ben preciso messaggio politico indirizzato ad interlocutori di differente livello.

Il primo gruppo è ovviamente costituito dalle potenze regionali sunnite, cui l'Occidente sta comunicando (e per far ciò utilizza le proprie forze militari, ma il messaggio rimane squisitamente politico) come il lungo periodo in cui Stati Uniti ed Europa non si interessavano del Nord Africa sia definitivamente terminato. Con tutte le conseguenze che ciò comporta.

Il secondo comprende le forze che si contendono sul terreno la sovranità della Libia, in primo luogo i Parlamenti di Tripoli e Tobruk, ma certo non soltanto quelli. A questo gruppo viene spiegato come esista per il momento una disponibilità occidentale ad aiutarlo nella lotta per la sopravvivenza contro l'Isis.

Come in tutte le cose vi è però un prezzo da pagare per poter fruire della mano tesa, e tale prezzo consiste nel rapido conseguimento di una unità nazionale che almeno nei primi tempi potrebbe anche essere soltanto di facciata. L'importante è che vengono rispettate le forme richieste per la legittimità di un intervento internazionale.

Per questo gruppo, alla offerta si associa anche una minaccia, che la stampa internazionale ha già abbondantemente ripresa conferendole rilievo, che è quella di un futuro consenso occidentale ad una eventuale spartizione della Libia nelle tre componenti distinte di Cirenaica, Tripolitania e Fezzan. Si tratta di una ipotesi cui le passate storie coloniali europee conferiscono una particolare credibilità.

Il terzo gruppo riunisce tutta quella parte della popolazione libica che non dipende da una indefinita prosecuzione della instabilità nazionale per la propria materiale sopravvivenza ma che è invece disperatamente stanca di una situazione in cui la vita ed i beni di ciascuno sono messi a rischio ogni giorno.

Il caos libico ha ormai raggiunto il quinto anno: sta quindi superando quella soglia temporale oltre la quale si ha di norma, nei paesi in conflitto, un crollo della volontà di combattere che viene progressivamente sostituita da un insopprimibile crescente desiderio di pace.

Anche a questo terzo gruppo, che si potrebbe definire come "la società civile libica", si indirizza un particolare e preciso messaggio occidentale: " La pace è qui con noi e possiamo portarvela, sempre che anche voi lo vogliate".

L'idea di base è dunque quella che questi tre messaggi, diversi fra loro ma sostanzialmente convergenti ed indirizzati a tre gruppi diversi, possano, ciascuno a suo modo e nel proprio ambito, contribuire a ricreare nel paese quel clima di unitarietà che è premessa indispensabile per procedere oltre.

Il quarto messaggio e la guerra
Un quarto messaggio, di tenore ben diverso, è infine quello che le mosse effettuate dagli occidentali sulla scacchiera libica nel corso delle ultime settimane dedicano all'Isis, comunicandogli quanto fosse illusorio per il Califfato pensare di poter trasferire la propria sede dalla Siria/Iraq alla Libia sperando in un allentamento della tensione.

I raid americani, gli accordi sui droni di Sigonella, la presenza di vari contingenti di forze speciali, chiariscono come anche a Derna od a Sirte a quel tipo di estremismo islamico non sarà concesso alcun quartiere.

È dunque guerra questa, come hanno precipitosamente sostenuto alcuni fra i partiti politici italiani, innescando una polemica che sembra più ispirata ai normali contrasti fra gli schieramenti contrapposti del nostro Parlamento che basata su un lucido e lungimirante esame dei fatti.

Il recente e tempestivo intervento del Primo Ministro Renzi sembra ora aver chiarito come in sostanza non si tratti affatto né di mascherare la prematura adesione del nostro paese ad un conflitto, né di intraprendere una strada che ad esso inevitabilmente condurrebbe. Stiamo semplicemente facendo politica, sviluppando - per una volta tanto in concordia di intenti con i nostri alleati - una politica estera comune che ci consenta di prenderci cura coralmente di quanto sta avvenendo sull'altra sponda del Mediterraneo.

Spiace soltanto che, anche in presenza di temi tanto gravi e capaci di mettere in gioco le vite di cittadini italiani, come dimostrano i luttuosi avvenimenti dell’ultima settimana, la nostra politica non riesca a volare più alta innescando finalmente quel guizzo che consenta al nostro Paese di mostrare ad amici e nemici un volto bipartisan nel fronteggiare la grave necessità incombente!

Giuseppe Cucchi, Generale, è stato Rappresentante militare permanente presso la Nato e l’Ue e Consigliere militare del Presidente del Consiglio dei Ministri.
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lunedì 14 marzo 2016

Egitto: tutto a protezione del canale di Suez

Egitto
Sermoni unificati e predicatori certificati, così Al-Sisi costruisce il consenso
Azzurra Meringolo
02/03/2016
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Ancora una volta sermoni sotto i riflettori. E non perché veicolano messaggi terroristici, ma perché criminalizzano ogni tentativo di contestare il “nuovo” regime egiziano nelle mani del presidente Abdel Fattah Al-Sisi.

Anche se il Ministero degli Affari religiosi guidato da Mokktar Gomaa continua a ribadire che i predicatori non dovrebbero usare il pulpito per parlare di questioni politiche, l’avvicinarsi del quinto anniversario dello scoppio della rivoluzione di piazza Tahrir ha mostrato che dentro le moschee accade esattamente il contrario. Le prediche pronunciate in occasione della preghiera comunitaria del venerdì veicolano sempre di più messaggi esplicitamente politici.

Esaltazione dell’apparato di sicurezza 
Discorsi alla mano, basta leggere i titoli di queste prediche per capirne il taglio. Il sermone dell’8 gennaio si intitolava “Unità per la costruzione e la salvaguardia del paese - una domanda legittima e un dovere nazionale”, mentre quello della settimana successiva è stato dedicato alla benedizione della sicurezza.

In un momento in cui le nuove istituzioni stanno erodendo sempre di più lo spazio pubblico, tali discorsi si presentano come una fonte di legittimazione a questo ennesimo giro di vite. Così facendo, si allineano alla lunga serie di leggi, decreti e dichiarazioni attraverso le quali il governo accusa quanti provano a indire manifestazioni di mettere a rischio la stabilità nazionale.

Il controllo del discorso religioso non è una dinamica entrata a far parte della politica egiziana in occasione di quest’ultima ricorrenza. Sin dallo scorso anno, il regime ha infatti cercato di fare della religione uno strumento politico, utilizzandola quindi per garantire la sua legittimazione e contribuire alla sua tenuta.

Per farlo il governo ha in primis rafforzato la sua presa sulle moschee, chiudendo le più piccole, proibendo ai predicatori non certificati di parlare dai pulpiti e controllando i sermoni della preghiera comunitaria del venerdì.

Questo processo ha portato all’introduzione della distribuzione di sermoni standardizzati, scritti dal ministero degli Affari religiosi e consegnati ai vari predicatori che si limitano - o almeno questo dovrebbero fare - a leggerli ogni venerdì ai fedeli che si riuniscono nelle moschee: 80 mila, dopo la chiusura - da parte del regime - di quelle più piccole e informali.

Dopo aver quasi raddoppiato il numero di predicatori stipendiati, per invogliarli all’obbedienza, lo scorso novembre il governo, che già nel 2014 aveva impedito a 12 mila imam non certificati di predicare, ha annunciato di premiare i più ligi con circa 100 euro. Questo bonus non potrà fine nelle tasche di imam che non si attengono rigorosamente alla lettura del sermone inviato, che superano il tempo stabilito dal ministero per la durata della predica e non indossano la divisa ufficiale di Al-Azhar ( la massima autorità dell’Islam sunnita).

Lotta agli avversari, anche dai pulpiti 
Anche se l’introduzione di sermoni standardizzati è stata, sin dal suo avvio, una misura controversa, è soprattutto negli ultimi mesi, quando il loro messaggio politico è diventato sempre più esplicito, che ha iniziato a provocare le reazioni di alcuni imam.

Oltre ai sermoni che hanno esaltato il ruolo della polizia e dell’esercito, ultimamente sono sempre più frequenti i richiami contro il terrorismo e l’estremismo religioso. Questi ultimi sono stati usati dal governo per giustificare la sua lotta contro i suoi avversari interni, quelli che vengono generalmente etichettati come terroristi.

Questa evoluzione non ha lasciato silenti i predicatori, soprattutto quelli che durante il periodo islamista hanno fatto il possibile per evitare che la Fratellanza Musulmana li usasse come megafoni del suo messaggio, adoperandosi per evitare il contagio tra religione e politica.

Pur rimanendo nell’anonimato, sono sempre di più coloro che ritengono che i fedeli egiziani non continueranno in eterno ad ascoltare comizi politici all’interno dei luoghi sacri. Soprattutto se il messaggio politico sarà così esplicito e parziale. E qualora questo si verificasse veramente, la tenuta del regime potrebbe risentirne.

Una sfera religiosa parallela
Come già anticipato nel maggio 2014 da Robert Springborg, uno dei più importanti studiosi dell'Egitto contemporaneo, Sisi si è appoggiato all'Islam per legittimare il suo regime autocratico più di quanto abbia fatto credere agli osservatori egiziani e stranieri.

In una realtà dove il controllo del consenso e del conformismo religioso è parte integrante della strategia che ridisegna e consolida il sistema istituzionale ed economico di questo ultimo capitolo della repubblica egiziana, la campagna comunicativa di Al-Sisi altro non è che una strumentalizzazione della religione per fini politici.

Anche se l'obiettivo di queste politiche è quello di rafforzare il controllo statale sulla sfera pubblica, il rischio è che tali misure portino in realtà alla nascita di una sfera religiosa parallela. Uno spazio alternativo che sfuggendo al controllo delle istituzioni statali, diventi un bacino di raccolta per gruppi radicali estremisti che potrebbero qui organizzarsi per diffondere le loro idee e reclutare nuovi membri.

Azzurra Meringolo è ricercatrice presso lo IAI e caporedattrice di Affarinternazionali. Coordinatrice scientifica di Arab Media Report. Potete seguirla sul suo blog e su twitter a @ragazzitahrir.
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mercoledì 9 marzo 2016

LIbia: verso una nuova avventura?


Libia, un piede dentro e due fuori 
Umberto Profazio
04/03/2016
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Il 3 marzo il Ministero degli Esteri italiano ha pubblicato una nota relativa alle immagini diffuse in rete relative a una sparatoria a Sabratha, in Libia.

Secondo la Farnesina, tra le vittime degli scontri potrebbero esserci due italiani, Fausto Piano e Salvatore Failla. Entrambi erano stati rapiti lo scorso luglio assieme a altri due colleghi della ditta Bonatti, società di costruzioni che operava come contractor dell’Eni a Mellitah. Numerose fonti hanno rivelato un coinvolgimento dell’autoproclamatosi “Stato Islamico” nello scontro a fuoco, convincendo ancora di più l’opinione pubblica della necessità di un intervento in Libia.

Forze speciali straniere in Libia
Già da alcune settimane le notizie relative alla presenza di forze speciali straniere in Libia avevano portato molti commentatori a prefigurare la prossimità di un nuovo avventura militare nel Paese. Il 24 febbraio ad esempio il quotidiano francese Le Monde aveva rivelato le presenza di forze speciali francesi nella Libia orientale, incaricate di svolgere operazioni su indicazioni della Direction générale de la sécurité exteriéure (DGSE).

L’obiettivo di Parigi sarebbe quello di colpire lo Stato Islamico attraverso operazioni sotto copertura, eliminando i principali leader dell’organizzazione. Secondo il quotidiano francese l’operazione, organizzata di concerto con la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, avrebbe già condotto all’eliminazione di Abu Nabil al-Anbari, il principale leader dello Stato Islamico in Libia ucciso durante un bombardamento americano a Derna lo scorso novembre.

Lo scoop, all’origine di un’inchiesta per compromissione del segreto di Stato, non sembra aggiungere nulla di nuovo nello scenario libico. Già lo scorso dicembre forze speciali americane erano atterrate presso la base aerea di al-Watiya per poi essere costrette a evacuare a seguito delle minacce di una milizia, ignara o forse contraria alla loro presenza.

La notizia tuttavia segue di pochi giorni un nuovo attacco aereo ordinato dagli Stati Uniti contro lo Stato Islamico proprio presso Sabratha. L’obiettivo principale del raid del 19 febbraio, in cui sono morte almeno 50 persone, era Noureddine Chouchane, figura di rilievo dell’organizzazione in Libia e ritenuto il mandante degli attentati dello scorso anno contro il museo del Bardo a Tunisi e contro il resort turistico di Sousse.

Il giallo su Belmokhtar
Nonostante l’evidente attività sul terreno di diversi attori interessati, le recenti vicende dimostrano l’esistenza di numerosi fattori che rappresentano un freno a un nuovo intervento su larga scala in Libia. Oltre alla perdurante assenza di un governo di unità nazionale, occorre menzionare le numerose difficoltà ambientali riscontrate e l’ostilità dei principali partner regionali.

Per quanto riguarda il primo punto, a seguito del raid su Sabratha fonti del Pentagono hanno affermato che la morte di Chouchane ha eliminato un fattore cruciale per l’espansione dello Stato Islamico in Libia, annientando le sue capacità di reclutamento e di espansione territoriale e riducendo l’eventualità di attacchi contro obiettivi occidentali nella regione.

Molto più stringato è stato il commento della Casa Bianca che ha ribadito la determinazione statunitense nel combattere l’organizzazione di Abu Bakr al-Baghdadi anche in Nord Africa, probabilmente per confutare le voci di una riluttanza di Washington a intervenire nel teatro libico. Tuttavia il portavoce Josh Earnest non ha confermato il decesso di Chouchane.

La cautela dell’amministrazione del Presidente uscente Barack Obama sembra dovuta ai più recenti sviluppi relativi alla sorte di un altro leader jihadista attivo nella regione, Mokhtar Belmokhtar. Lo scorso giugno il leader dell’organizzazione al-Mourabitoun era stato individuato nei pressi di Ajdabiya, Libia, dall’intelligence Usa. Un successivo attacco aereo aveva condotto il governo Usa ad annunciare la morte di Belmokhtar.

Tuttavia, a distanza di otto mesi Washington non è ancora riuscita a ottenere conferme sulla sorte del terrorista algerino, confermando le grosse difficoltà riscontrate dall’intelligence americana nel recuperare informazioni in teatri altamente instabili e dove gli asset a disposizione sono sempre più a rischio.

Tunisia e Algeria temono raid stranieri in Libia
Agli evidenti limiti dell’intelligence nella regione bisogna aggiungere anche i danni collaterali dei raid organizzati dalle potenze occidentali. A titolo di esempio si può indicare la morte dei due diplomatici serbi Sladjana Stankovich e Jovica Stepic, rapiti lo scorso novembre dallo Stato islamico, accusati di traffico di armi e morti durante il bombardamento del campo di Sabratha. Oppure l’offensiva scatenata dal Califfato proprio contro Sabratha pochi giorni dopo il raid Usa, il cui prosieguo avrebbe condotto ai tragici avvenimenti del 3 marzo con la presunta morte di Piano e Failla.

La complessità dello scenario libico non aiuta le scelte degli occidentali, che sembrano caratterizzate più che da un presunto coordinamento, da strisciante competizione. Inoltre gli stessi partner regionali sembrano fortemente ostili a ogni eventuale intervento militare in Libia. La Tunisia ad esempio, dopo aver completato la costruzione di una muro di separazione di 200 km al confine con la Libia, ha annunciato che ogni decisione riguardante un intervento occidentale deve tenere in considerazione gli interessi tunisini.

Dello stesso avviso sembra essere l’Algeria, fortemente preoccupata per gli ultimi sviluppi. Dopo aver innalzato il livello di allerta lungo il suo confine orientale il governo di Algeri ha ribadito il suo sostegno a una soluzione pacifica per la crisi libica che rispetti il diritto internazionale. Il timore di entrambi i Paesi è che ulteriori raid o un intervento militare su larga scala costringano i gruppi terroristi a spostare altrove le loro basi operative, minacciando più da vicino il loro territorio.

Umberto Profazio è dottore di ricerca in Storia delle Relazioni Internazionali presso l’Università di Roma “Sapienza”, Maghreb Analyst per la NATO Defence College Foundation e Junior Researcher per il Centre for Geopolitics and Security in Realism studies. Il suo primo e-book “Lo Stato Islamico: origini e sviluppi”, è edito da e-muse.
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