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Metodo di Ricerca ed analisi adottato


Il medoto di ricerca ed analisi adottato è riportato suwww.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com

Vds. post in data 30 dicembre 2009 seguento il percorso:
Nota 1 - L'approccio concettuale alla ricerca. Il metodo adottato
Nota 2 - La parametrazione delle Capacità dello Stato
Nota 3 - Il Rapporto tra i fattori di squilibrio e le capacità delloStato
Nota 4 - Il Metodo di calcolo adottato

Per gli altri continenti si rifà riferimento al medesimo blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com per la spiegazione del metodo di ricerca.

lunedì 23 febbraio 2015

Libia: le fonti energetiche a rischio

Libia
L’avanzata del Califfo e il futuro energetico libico 
Nicolò Sartori
17/02/2015
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Oltre ai gravi rischi per la sicurezza del continente europeo e dell’Italia, l’avanzata dell’auto proclamatosi “stato islamico” in Libia rischia di avere forti ripercussioni sul destino dei nostri approvvigionamenti energetici.

I crescenti attacchi alle infrastrutture energetiche libiche potrebbero mettere a serio repentaglio la capacità della Noc, la compagnia energetica nazionale, di mantenere gli attuali livelli di produzione ed esportazione di idrocarburi tornati a livelli accettabili sul finire del 2014, dopo gli alti e bassi determinati dall’instabilità politica interna degli ultimi anni.

Partnership strategica tra Libia e Italia 
La Libia è un partner energetico chiave per l’Italia. Nonostante le turbolenze politiche, infatti, nel 2014 è stata il terzo fornitore di gas del nostro paese insieme all’Algeria, alle spalle solo di Russia e Norvegia.

Il paese nordafricano ha esportato 6,5 miliardi metri cubi (Bcm) di gas, facendo registrare un incremento del 14% rispetto all’anno precedente. Il gas libico, trasportato attraverso il gasdotto sottomarino Greenstream, contribuisce a circa il 12% delle importazioni italiane.

Nel settore del petrolio, nel 2014 Tripoli si è piazzata al sesto posto tra i fornitori dell’Italia, alle spalle di Russia, Azerbaijan, Arabia Saudita, Iraq e Kazakistan.

Nei primi dieci mesi dell’anno ha esportato verso il nostro paese due milioni di tonnellate di greggio - in calo rispetto agli anni precedenti a causa di una progressiva contrazione dei consumi italiani - ma comunque garantendo circa il 5% delle importazioni petrolifere totali.

Si tratta di un’incidenza minore rispetto al settore del gas naturale, determinata dal fatto che il portfolio degli esportatori di greggio è ben più ampio e diversificato.

Non soltanto il sistema socio-economico nazionale è dipendente dagli approvvigionamenti libici per il suo regolare funzionamento, ma anche il campione energetico italiano, Eni, ha forti interessi industriali nel paese nordafricano.

Operando in loco dal 1959, Eni è storicamente la maggiore compagnia internazionale operativa nel paese. Nonostante l’instabilità geopolitica, la Libia continua a rappresentare la prima fonte di idrocarburi della società italiana con 76mila barili di greggio e 9 Bcm annui di gas naturale (dati 2013).

Energia sotto attacco
Con l’avanzata dello “stato islamico” aumentano i rischi per l’integrità delle installazioni energetiche libiche, nel mirino dei combattenti sin dall’inizio del conflitto nel 2011. In questo contesto, negli ultimi anni la produzione di idrocarburi del paese nordafricano è oscillata in modo significativo in virtù dell’evoluzione delle ostilità tra le milizie schierate sul campo.

A gennaio, l’output petrolifero libico è crollato nuovamente dopo che, verso la fine del 2014, la produzione si era attestata attorno al milione di barili al giorno.

L’incremento rispetto ai mesi precedenti è stato determinato dalla ripresa delle attività nel giacimento di El-Sharara, a lungo bloccato per far fronte ai danni ai siti di stoccaggio della raffineria di Zawiya, causati dai combattimenti.

La recente esplosione di un oleodotto nei pressi del grande giacimento di El-Sarir, causata probabilmente dall’avanzata dei militanti dello “stato islamico” ha determinato non soltanto la riduzione della produzione del giacimento e la sospensione del flusso di greggio verso il terminal di Hariga, ma ha anche spinto i vertici della Noc ad annunciare il possibile blocco delle attività di esplorazione e produzione in tutti i pozzi del paese.

Qualche giorno prima, le milizie del Califfo avevano provato a far saltare una conduttura nel giacimento di Bahi nella Libia centrale, senza tuttavia causare gravi danni.

Se è vero che l’offensiva dello “stato islamico” potrebbe determinare un blocco totale del settore energetico libico, non è da escludere che le milizie possano cercare di mantenere operativi i giacimenti qualora dovessero cadere sotto il loro controllo.

Il modello adottato in Iraq, infatti, mostra come produzione ed esportazione di greggio siano funzionali al mantenimento/espansione del potere dello “stato islamico” sul territorio.

Se l’avanzata del Califfo sulla costa mediterranea del paese dovesse proseguire, garantendo il controllo sui principali terminal di esportazione, il greggio libico potrebbe addirittura raggiungere i mercati internazionali alla ricerca di acquirenti senza scrupoli pronti ad acquistarlo.

Caos libico e mercati energetici globali
Nonostante la gravità della situazione, l’impatto del caos libico sui mercati energetici globali potrebbe essere tutto sommato limitato. Malgrado la perdurante instabilità, la crescita della produzione non-convenzionale statunitense, il rallentamento dei consumi in Cina e l’incapacità dell’Opec di definire una strategia per ridurre la produzione totale hanno determinato una riduzione dei prezzi del 50% da giugno a oggi.

Le tensioni nel paese nordafricano potrebbero determinare un leggero rialzo dei prezzi, ma la sicurezza degli approvvigionamenti non sembra essere oggi in pericolo a causa di un eccesso di offerta sui mercati internazionali.

Per l’Italia la situazione potrebbe rivelarsi più critica, soprattutto nel settore del gas naturale. Alla luce del conflitto in Ucraina e dei costanti rischi di sospensione per il transito del gas russo, le forniture provenienti dalla Libia giocano oggi un ruolo fondamentale nell’assicurare la nostra sicurezza energetica.

Sebbene la situazione non sia ancora giunta a livelli drammatici, anche perché l’inverno è nella sua fase conclusiva e le importazioni dall’Algeria possono essere comunque incrementate senza maggiori difficoltà, l’avanzata dei jihadisti aggiunge ulteriore incertezza al destino dei nostri approvvigionamenti energetici.

Nicolò Sartori è responsabile di ricerca del Programma Energia dello IAI (Twitter: @_nsartori).
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sabato 21 febbraio 2015

Libia: che fare di fronte ad uno stato fallito

Medio Oriente
Intervento in Libia, i pro e i contro
Natalino Ronzitti
12/02/2015
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La Libia si trova ormai da tempo in una situazione di anarchia. È quello che in diritto internazionale viene qualificato come uno stato fallito (failed state). Il governo di Tobruk, che è generalmente riconosciuto come il governo legittimo dalla comunità internazionale, controlla ben poco.

Le milizie la fanno da padrone, ingenerando insicurezza negli operatori stranieri, tanto che la produzione di petrolio è calata vertiginosamente. Vendite illegali di petrolio e traffici di armi aggravano la situazione, divenuta ancora più pericolosa con la proclamazione di un califfato islamico a Derna.

C’è il rischio di una nuova Somalia a due passi dalle nostre coste, con tutto quello che ne può seguire per la minaccia terroristica. Il paventato dissolvimento della Libia con la nascita di due o più stati indipendenti non si è finora realizzato poiché le tribù e le bande armate non sono riuscite a organizzarsi in un modello statale, almeno secondo i canoni classici della comunità internazionale.

Eubam e Unsmil
I rimedi tentati dalle istituzioni internazionali non hanno finora avuto successo. A parte l’European Union Border Assistance Mission (Eubam), missione civile dell’Unione europea (Ue), le speranze maggiori sono riposte nell’opera delle Nazioni unite che agiscono mediante l’UN Support Mission in Libya (Unsmil). Si tratta di una missione non armata, di natura politica, volta a favorire il dialogo tra le varie componenti del mosaico libico che si sono incontrate recentemente a Ginevra.

L’Unsmil, il cui mandato è stato più volte rinnovato dal Consiglio di sicurezza (Cds), opera sotto l’egida del Segretario Generale dell’Onu e del suo rappresentante speciale, Bernardino Leon. Non si tratta quindi di una missione di peace-keeping con il dispiegamento di una forza armata sul terreno.

L’Italia, attraverso le parole del suo Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale, Paolo Gentiloni e del Vice-Ministro Lapo Pistelli, ha dichiarato il suo appoggio a Leon e si è resa disponibile a un intervento militare, ma solo sotto l’egida Onu, escludendo ogni intervento unilaterale.

In questa sede si indicano le opzioni ammissibili sotto il profilo del diritto internazionale e conformi alla nostra Costituzione.

Legittima difesa
Un attacco missilistico o di un gruppo terroristico provenienti dalla costa libica sul nostro territorio non è da escludere. In tal caso l’Italia avrebbe il diritto di reagire in legittima difesa, senza dover chiedere autorizzazione del Cds.

Ormai è riconosciuto che la legittima difesa può essere esercitata non solo nei confronti di uno stato, ma anche di un attore non statale. La reazione potrebbe essere messa in atto dopo che l’attacco armato sia stato sferrato, ma anche nell’imminenza dello stesso, ad es. se fonti di intelligence dovessero accertare che i missili puntati verso l’Italia sono pronti a partire.

Gli alleati potrebbero intervenire a fianco dell’Italia, che avrebbe il diritto di invocare l’art. 5 della Nato, ma anche l’art. 47 del Trattato Ue (troppo spesso si dimentica che, secondo tale disposizione, in caso di aggressione i partner europei sono obbligati a fornire all’aggredito aiuto e assistenza con tutti i mezzi in loro possesso).

L’azione in legittima difesa può durare per tutto il tempo necessario e comportare una presenza armata in territorio libico.

Missione di Peace-Enforcement 
Di regola il peace-enforcement richiede l’autorizzazione del Cds. Esso comporterebbe uno stabile dispaccio di una forza multinazionale in territorio libico, con il compito di pacificare il territorio e ricostruirne il tessuto istituzionale. Tale forza potrebbe operare sotto l’egida del Segretario Generale dell’Onu, ma anche sotto comando di uno stato.

L’Italia sarebbe il candidato più naturale. Si potrebbe però avere anche una missione congiunta Ue-Unione africana. Le difficoltà consistono nell’ottenere l’assenso di tutti i membri permanenti del Cds. La Russia, scottata dall’intervento Nato del 2011, difficilmente si pronuncerebbe a favore e quasi sicuramente opporrebbe il veto.

Coalizione di volenterosi
Si tratterebbe di un’operazione senza cappello Onu e quindi indigeribile per Gentiloni. Entrare in territorio altrui senza il consenso dello stato territoriale e senza l’autorizzazione del Cds è illegittimo, anche se vi sono fautori dell’intervento umanitario (tra cui non è da annoverare il sottoscritto).

L’ancora di salvataggio (o se si vuole la foglia di fico) potrebbe essere costituita dal Governo di Tobruk, quantunque non si tratti di un governo effettivamente rappresentativo. Come dimostra l’esperienza (Kosovo, Iraq 2003), una risoluzione a posteriori del Cds potrebbe legittimare il fatto compiuto, sempre che Russia (e Cina) non si oppongano).

Missione di peace-keeping
A differenza del peace-enforcement, il peace-keeping ha come scopo il mantenimento della pace, senza prendere posizione tra le fazioni in lotta e la forza di pace non è autorizzata ad usare la forza, tranne a protezione dei suoi membri.

Forse il peace-keeping potrebbe ottenere il consenso (o la non opposizione) della Russia, qualora fosse ancorato a un chiaro mandato. Sennonché la situazione libica richiede l’“imposizione” della pace, non il “mantenimento” di una pace inesistente! Molto dipenderà dall’iniziativa di Leon e dall’esito delle trattative politiche, al cui successo potrebbe essere condizionato il successivo invio di una forza di peace-keeping.

Trattato italo-libico del 2008 
Un’eventuale azione militare italiana deve fare i conti con il Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione del 2008. Esso contiene un paio di disposizioni che ribadiscono il divieto della minaccia e dell’uso della forza (art. 3) e stabiliscono il divieto di compiere atti ostili in partenza dai rispettivi territori (art. 4).

Le due disposizioni furono superate con disinvoltura durante l’intervento del 2011. Esse non impedirebbero un intervento in legittima difesa o sotto l’egida delle Nazioni unite. Il solo dubbio potrebbe essere sollevato in relazione a un’azione armata non in legittima difesa e non autorizzata dall’Onu. Ma è sempre in vigore (o quantomeno sospeso) il Trattato del 2008? Questione complessa che non è qui possibile esaminare.

In conclusione, il diritto internazionale offre sulla carta un ampio ventaglio di possibilità per un intervento in Libia a protezione dei nostri interessi. Ovviamente però, la legittimità internazionale deve essere coniugata con l’opportunità politica e la disponibilità economica. E queste sono un’altra cosa!

Natalino Ronzitti è professore emerito di Diritto internazionale (Luiss Guido Carli) e Consigliere scientifico dello IAI.
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venerdì 13 febbraio 2015

Egitto: una normalita pesante

Medio Oriente
Egitto, verso un Parlamento che sa di usato
Azzurra Meringolo
09/02/2015
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Delle 45 formazioni che si erano presentate alle elezioni del 2011 - le prime realmente democratiche nella storia egiziana - nessuna potrebbe essere in grado di assumere un ruolo rilevante. All’orizzonte delle parlamentari previste entro marzo s’intravedono diversi schieramenti di ex mubarakiani pronti a tornare alla ribalta.

Anche se del partito dell’ex dittatore non resta che un palazzo bruciato che si affaccia sul Nilo, da mesi i gattopardi del vecchio regime si stanno muovendo per accaparrarsi una poltrona nel nuovo parlamento.

Legge elettorale che marginalizza i partiti 
La legge elettorale che governerà le prossime votazioni - ultima tappa della road map iniziata dopo la deposizione del presidente islamista Mohammed Mursi nel luglio 2013 - spiana infatti la strada al loro ritorno.

A emanare la legge, sbloccando l’impasse durata mesi, è stato l’ex presidente ad interim Adly Al-Mansour - l’uomo ai quali i militari hanno affidato la guida del paese prima che le presidenziali di giugno lo traghettassero nelle mani di Abdel Fattah Al-Sisi.

Il punto più controverso del nuovo regolamento elettorale passato per decreto è quello relativo alla distribuzione dei seggi del nuovo Parlamento, il primo monocamerale dopo l’abrogazione del Maglis Al-Shura (la camera alta). D’ora in poi i parlamentari saranno 567: 59 in più rispetto al Parlamento eletto nel 2011. Di questi: 120 saranno assegnati in base alle liste e 27 verranno scelti dal presidente della repubblica. I candidati indipendenti si spartiranno i rimanenti 420 seggi.

A opporsi a questa legge sono stati in primis i partiti nati dopo la rivoluzione che temono di essere messi ai margini da un regolamento che svantaggia i partiti, favorendo i candidati con più disponibilità economiche e influenza anche a livello tribale.

La marginalizzazione dei partiti è del resto evidente. Lo stesso presidente Al-Sisi ha deciso, a differenza di Mubarak, di non creare nessuna formazione politica che lo sostenga. Ciononostante, già tre coalizioni si schierate a suo sostegno. Ai loro vertici si trovano uomini che non nascondono i loro legami con il vecchio dittatore.

Fulul che si organizzano
Il primo è Kamal Al-Ganzouri, ex primo ministro di governi mubarakiani che ha ora creato il Fronte Egiziano, uno schieramento che riunisce forze secolari che si oppongono al ritorno in Parlamento della Fratellanza Musulmana, il movimento islamista che vinse le parlamentari del 2011, ma che nel luglio 2013 è stato costretto dai militari alla clandestinità.

Al fianco di Ganzouri c’è Ahmed Shafiq, l’ultimo premier dell’epoca mubarakiana, arrivato secondo alle presidenziali del 2012. Per l’opinione pubblica egiziana, Shafiq è il fulul per eccellenza, il più evidente rimasuglio del vecchio regime.

Il secondo fronte pro Sisi è l’Indipendence Current, un insieme di partiti low-profile nati durante l’epoca mubarakiana, ora unitisi sotto l’ombrello di Ahmed Al-Fadali. A completare il quadro c’è la coalizione dei vecchi militari in pensione del Toghether Long Live Egypt, un’alleanza guidata da Medhat Al-Haddad.

Secondo indiscrezioni, anche Ahmed Ezz - il tycoon rilasciato su cauzione dopo tre anni di carcere per riciclaggio e guadagni illeciti - starebbe cercando di riunire vecchi membri del Partito nazional democratico di Mubarak in un nuovo movimento. Questa voce non è stata però ancora confermata.

Tra coloro che hanno tentato di creare una coalizione in grado di imporsi alle parlamentari c’è anche Amr Moussa, ex segretario generale della Lega araba e presidente dell’Assemblea costituente che ha redatto il testo del 2014.

La sua Alliance of the Egyptian Nation - che comprende anche Ghad, Tagammu e Wafd - non mira direttamente a sostenere Al-Sisi, quanto piuttosto a creare un Parlamento capace di trainare il presidente verso una stagione di riforme. Gli incidenti di percorso attraverso i quali è passata la formazione di questa alleanza mostra però l’esistenza di differenze irriconciliabili tra i diversi partiti liberali egiziani, da sempre scettici sulla figura di Moussa.

Sabahi, l’anti-Sisi
L’unico schieramento che cerca realmente di opporsi all’attuale regime, presentandosi come erede della rivoluzione del 2011, è la Progressive Alliance guidata da Hamdeen Sabahi, storico nasseriano che ha sfidato Al-Sisi alle ultime presidenziali raccogliendo, come previsto, solo poche briciole. Questa alleanza - che marca la differenza tra forze civili e militari - comprende i socialisti di Adbel Ghaffar Shukr, Misra Al-Hurrya di Amr Hamzawy, Al-Karama, Al-Dostrour e il Justice party.

Anche se molti di questi partiti continuano a essere accusati dai media - statali e privati - di sostenere l’agenda della Fratellanza Musulmana, attualmente appaiono come l’unica fragile opposizione contro lo strapotere militare. Non a caso, proprio questa alleanza si è opposta alla legge elettorale approvata a dicembre, minacciando di boicottare le prossime elezioni se i seggi assegnati attraverso la lista non diventeranno almeno 180.

Anche se è ancora presto per dire se queste minacce si trasformeranno in realtà e se è possibile immaginare un’evoluzione delle alleanze, non è prematuro immaginare un nuovo Parlamento formato da candidati tradizionali di un regime che pur avendo perso la testa è ancora radicato nel paese. Un legislativo acquiescente che riducendo la possibilità dei piccoli partiti di farsi sentire ridimensioni l’influenza della già fragile opposizione, spostando l’equilibrio politico ancora di più verso il presidente.

Nei corridoi politici che circondano il Parlamento egiziano si annusa giù odore di vecchio.

Azzurra Meringolo è ricercatrice presso lo IAI e caporedattrice di Affarinternazionali. Coordinatrice scientifica di Arab Media Report. Potete seguirla sul suo blog e su twitter a @ragazzitahrir.
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