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Metodo di Ricerca ed analisi adottato


Il medoto di ricerca ed analisi adottato è riportato suwww.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com

Vds. post in data 30 dicembre 2009 seguento il percorso:
Nota 1 - L'approccio concettuale alla ricerca. Il metodo adottato
Nota 2 - La parametrazione delle Capacità dello Stato
Nota 3 - Il Rapporto tra i fattori di squilibrio e le capacità delloStato
Nota 4 - Il Metodo di calcolo adottato

Per gli altri continenti si rifà riferimento al medesimo blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com per la spiegazione del metodo di ricerca.

domenica 21 dicembre 2014

Tutti verso nord

Immigrazione
Breccia aperta nella Fortezza Europa
Enza Roberta Petrillo
08/12/2014
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Partita in sordina poco prima del delicatissimo passaggio di consegne ai vertici dell’Unione europea, la “EU-Horn of Africa Migration Route Initiative” è il primo tentativo europeo di tradurre in pratica il cambio di passo in materia di immigrazione.

Per quanto l’intesa sottoscritta a Roma il 28 novembre scorso sia soltanto una dichiarazione di intenti, molti credono che una breccia sia stata aperta nella mura di “Fortezza Europa”.

Dal processo di Rabat a quello di Khartoum
“Per controllare i flussi migratori che dalle aree di crisi si riversano sull'Europa non si può solo alzare un muro, né bastano le azioni di cooperazione: serve una strategia di lungo termine che mescoli la cooperazione con i paesi in difficoltà, alla ricostruzione dei paesi vicini al collasso totale”.

Parola di Paolo Gentiloni, neo-ministro degli esteri italiano che ha coordinato la riunione informale dei ministri degli Affari esteri e dell’interno dell’Ue promossa dalla Presidenza italiana dell'Unione.

Gentiloni ha approfittato dell’occasione per fare il punto sul Processo di Khartoum avviato lo scorso ottobre durante la conferenza regionale sul traffico di esseri umani nel Corno d’Africa organizzata dall’Unione africana in collaborazione con il governo del Sudan, l’Alto Commissariato dell’Onu per i Rifugiati e l’Organizzazione internazionale per le migrazioni.

Concepito sulla falsa riga del Processo di Rabat – nato nel 2006 per promuovere un foro di dialogo regionale sull’immigrazione tra l’Ue e i paesi dell’Africa occidentale, centrale e mediterranea - il neonato Processo di Khartoum punta a stabilire un tavolo di confronto con i paesi dell’Africa orientale e settentrionale da cui partono e transitano gran parte dei migranti che approdano in Europa.

Eritrea, Somalia, Etiopia, Gibuti, Sudan, Sud-Sudan, Kenya, Tunisia, Libia, Egitto. Potrebbe partire da qui la nuova stagione della politica migratoria europea all’insegna della diplomazia preventiva e della cooperazione con i Paesi di origine e transito. Obiettivi che procedono di pari passo con la necessità di restituire protagonismo alla dimensione della protezione umanitaria rispetto a quella del mero controllo delle frontiere esterne dell’Ue.

dati diffusi dal Viminale, del resto, parlano chiaro: la stragrande maggioranza dei migranti che si affida ai trafficanti per attraversare il Mediterraneo è alla ricerca di protezione internazionale.

Ma c’è di più: mentre in Italia il numero degli sbarchi continua a registrare un’impennata esponenziale, il numero delle richieste d’asilo decresce progressivamente. Il caso dei siriani è eloquente. Dei 23.945 migranti sbarcati tra gennaio e settembre 2014, soltanto 405 hanno richiesto protezione umanitaria. Una tendenza analoga a quella degli eritrei: soltanto 367 dei 28.557 migranti sbarcati in Italia hanno richiesto protezione.

Italia, terra di transito più che di approdo
Terra di transito più che di approdo, l’Italia, nel 2013, ha ricevuto soltanto il 6,1% delle domande d’asilo complessivamente presentate nell’Unione. Cifra esigua rispetto alle 77.109 domande avanzate in Germania, perlopiù da cittadini siriani.



Una situazione complessa che ha spinto il ministro degli esteri Frank-Walter Steinmeier a dichiarare che la reazione europea non può più limitarsi alle misure di emergenza allestite ai confini esterni dell’Ue.

Messaggio rivolto soprattutto all’Italia che con i suoi 154.075 migranti arrivati via mare dall’inizio dell’anno è l’avamposto più esposto ai flussi in arrivo dalla sponda sud del Mediterraneo. Un dato quadruplicatosi rispetto al 2013 (allora gli arrivi furono 38.882) e che cresce contestualmente all’acuirsi delle crisi istituzionali e umanitarie che vanno infiammando paesi come la Siria, l’Eritrea, il Mali o la Somalia.

Il processo di Khartoum, per quanto appena avviato e giuridicamente non vincolante, suggerisce quali potrebbero essere i passaggi da compiere: superare le mere azioni di polizia e le misure umanitarie emergenziali.

Mappare le cause strutturali dell’immigrazione per pianificare azioni a lungo termine. Potenziare i partenariati con i paesi di origine e transito. Obiettivi innegabilmente ambiziosi considerata la fragilità istituzionale di molti dei paesi che partecipano a questo neonato forum euro-africano.

Seae e immigrazione
Congiuntamente, i ministri degli esteri italiano e tedesco hanno dichiarato di voler affrontare questa questione spinosa intensificando le azioni diplomatiche a sostegno della stabilità politica dei paesi dell’Africa orientale e sostenendo le missioni di pace delle Nazioni Unite e dell’Ue. Piano che chiama direttamente in causa il ruolo che il Servizio europeo per l'azione esterna (Seae) intende giocare nei paesi di provenienza e transito dei migranti.

Come e con quali risultati il Seae riuscirà a eludere le idiosincrasie degli stati membri e la storica autoreferenzialità della direzione generale per gli Affari Interni dell’Ue lo si appurerà nei prossimi mesi.

Di promettente c’è l’impegno preso all’unisono dall’Alto rappresentante dell'Unione per gli affari esteri Federica Mogherini e dal Commissario europeo per l’Immigrazione Dimitris Avramopoulos ad agire in modo coordinato al fine di massimizzare l'impatto delle politiche e dei progetti dedicati all’immigrazione.

Una promessa che poggia sull’ambizione di affrontare in modo concreto i fattori strutturali dei flussi migratori irregolari: fragilità statuali, povertà e conflitti. Dossier sui quali l’Europa dovrà imparare a parlare con una voce sola.

Enza Roberta Petrillo è ricercatrice post-doc, Università La Sapienza di Roma; esperta di politica e geopolitica est-europea, si occupa dell’analisi dei flussi migratori con particolare attenzione al ruolo svolto dalla criminalità organizzata transnazionale nei traffici illeciti transfrontalieri (enzaroberta.petrillo@uniroma1.it).
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mercoledì 3 dicembre 2014

Libia: richiesto alla Unione Europea un intervento militare

Medio Oriente
Forze di pace in Libia?
Roberto Aliboni
21/11/2014
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Il professore Vandewalle, studioso statunitense noto in Italia per un’ottima storia della Libia, ha di recente proposto che l’Unione europea invii una forza militare in quel paese con il compito di proteggere le istituzioni legali uscite dalle elezioni del 25 giugno scorso, le infrastrutture e la produzione di petrolio così da rafforzare il governo e accendere una speranza di stabilità (The New Yok Times, 11 novembre 2014). Questa proposta risponde a un sentire diffuso. Cosa pensarne?

La Corte Suprema invalida le elezioni
In effetti, la Libia è sempre più avvitata nella sua guerra intestina. La mediazione avviata dalle Nazioni Unite, basata sul riconoscimento delle istituzioni uscite dalle elezioni è stata affondata dalla sentenza della Corte Suprema libica che il 6 novembre le ha dichiarate invalide, in quanto l’emendamento costituzionale sulla cui base sono state indette non sarebbe stato a suo tempo votato con la necessaria maggioranza.

Al tempo stesso, il conflitto libico appare sempre più come una “proxy war” nel quadro dei più generali conflitti della regione. Le due coalizioni libiche sono incoraggiate dagli appoggi dei rispettivi alleati a confidare nella loro vittoria e quindi non sono per nulla inclini a negoziare.

Tuttavia, anche se per questi motivi la necessità di un’operazione di pace internazionale appare più cogente, la fattibilità legale e politica resta problematica.

Libia, cercasi mediazione
Vandewalle indica l’Ue perché nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite la Russia certamente si opporrebbe. Il Consiglio ha da poco approvato la Risoluzione 2174 in tema di sanzioni e altre penalità e non pare probabile che ci sia la volontà e la disponibilità per andare oltre.

Ma in realtà qualsiasi intervento dell’Ue è ugualmente subordinato a un mandato Onu: senza questo mandato l’Ue non interverrà mai.

I paesi dell’Ue potrebbero decidere di intervenire anche senza mandato, ma sempre sotto il crisma della legalità internazionale qualora percepissero l’urgente necessità di proteggere la popolazione libica e si inducessero perciò a esercitarne la relativa responsabilità.

Ma qui la legalità non sarebbe sorretta dalle necessarie condizioni politiche, poiché questa protezione è già stata esercitata con effetti disastrosi, suscitando molte polemiche, specialmente e ancora da parte della Russia, che nell’intervento del 2011 si sentì ingannata e considerò l’operazione di rovesciamento del presidente Muammar Gheddafi non meno politicamente sbagliata del tentativo di rovesciare il raìs siriano Bashar al-Assad.

La “responsabilità di proteggere” non è allo stato dei fatti una dottrina universalmente accettata né ben definita nelle sue articolazioni. Un’entità debole e politicamente divisa com’è oggi l’Ue non intraprenderà mai, da sola, questa strada.

Dagli Stati Uniti si può avere una percezione ottimistica, tanto più se capita, come al professor Vandewalle, di partecipare a un’audizione del Parlamento italiano e restare colpito dalla “naturalezza con la quale alcuni deputati ribadivano che solo una forza a guida europea potesse trovare una via di uscita alla recente impasse.”

Un intervento dell’Ue avrebbe senso e, se l’Ue avesse una consistenza politica, sarebbe la cosa giusta da fare, ma la solidarietà politica dell’Ue è una merce in via di sparizione che in relazione alla Libia esiste solo nei comunicati, che non a caso continuano ad affermare invece la necessità della mediazione ormai fallita dell’Onu.

Se l’Ue beneficiasse di una solidarietà di politica estera il modo di intervenire, anche senza un mandato dell’Onu, potrebbe essere quello di raccogliere la richiesta delle istituzioni libiche che hanno vinto le elezioni.

Questa richiesta c’è stata. Naturalmente è una richiesta discutibile, specialmente dopo la sentenza della Corte Suprema, ma una forte e solido attore internazionale lo farebbe senza troppi problemi.

Tuttavia, con questa iniziativa l’Ue sceglierebbe di appoggiare un governo secolarizzante, simile a quello che si è installato in Egitto con il presidente Abdel Fattah al-Sisi, e di combattere i Fratelli Musulmani.

Molti in Europa non sarebbero d’accordo, perché i Fratelli Musulmani, malgrado la cattiva prova dell’ex presidente egiziano, l’islamista Mohamed Morsi, restano ancora la speranza di una prospettiva democratica nella regione, come d’altra parte si è visto in Tunisia. Perciò, anche se la necessaria solidarietà istituzionale europea spuntasse overnight, nondimeno essa non sarebbe sorretta dalla necessaria solidarietà politica.

Coalizione anti-Califfo
Un’altra ipotesi di intervento potrebbe essere racchiusa nella dinamica della coalizione contro l’Isis e l’estremismo islamista che oggi combatte nel Vicino Oriente.

Se questa coalizione dovesse espandersi al nascente jihadismo libico e saldarsi con il jihadismo che la Francia già tiene a bada nel Sahel, allora l’intervento armato in Libia ci sarebbe e avverrebbe dalla parte del governo libico che la comunità internazionale considera ancora legale - cioè quello legato all’Egitto, agli Emirati e all’Arabia Saudita, che combatte contro tutti gli islamismi e ha ottime relazioni con i governi occidentali.

Non è però sicuro se, a conti fatti, tutto ciò corrisponderebbe ai fini che il professor Vandewalle e la stessa Ue hanno in mente.

Perciò, l’intervento militare appare un’ipotesi poco fattibile, piuttosto rischiosa, anche controproducente. Forse, allora, bisogna farsi coraggio e sforzarsi di ritrovare il filo di un’azione diplomatica efficace.

Sulle conseguenze di qualsiasi pur vittorioso intervento militare non coi si può fare molte illusioni: meglio se il successo è raggiunto con mezzi politici e diplomatici.

Roberto Aliboni è consigliere scientifico dello IAI.
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Egitto. Visita del presidente Al-Sisi in Italia

Relazioni Italia-Egitto
La scommessa spericolata di Renzi su Al-Sisi
Azzurra Meringolo
23/11/2014
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Nel vecchio continente per spiegare agli europei "ciò che succede in Egitto e nella regione”. È questa la missione che il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi vuole portare al termine nel suo viaggio tra Italia e Francia dal 23 al 25 novembre.

Realpolitik italiana
La tappa romana si inserisce in una fitta agenda di incontri bilaterali che negli ultimi mesi i ministri del governo di Matteo Renzi hanno avuto con i colleghi egiziani.

Il nostro premier è stato il primo leader occidentale ad atterrare al Cairo, lo scorso agosto, per stringere le mani a Al-Sisi.

Una visita, preceduta da due missioni dell’allora ministro degli Esteri Federica Mogherini, nella quale Renzi riuscì a dire al presidente egiziano tutto quello che questo ex generale, visibilmente commosso dalla comprensione e dalla vicinanza italiana, voleva sentirsi dire. A questo viaggio seguirono quelli del ministro degli interni Angelino Alfano e del ministro della Difesa Roberta Pinotti.

Insomma, l’Italia ha scommesso sul nuovo regime di Al-Sisi e sul ruolo stabilizzatore che questo può giocare nella regione, adottando una realpolitik che parte dalla comprensione e dall’accettazione delle preoccupazioni securitarie egiziane.

Libia, “stato islamico” e controllo delle coste
Molti i temi bilaterali e internazionali in agenda il 24 e il 25 novembre. Partendo dal ruolo dell'Egitto nello scacchiere mediorientale, Al-Sisi presenterà il suo paese come una potenza stabilizzatrice della regione, ricordando il ruolo di negoziatore (seppur svogliato) che il Cairo ha giocato nel conflitto israelo-palestinese e mostrando il suo interesse a risolvere il dossier libico, mal di testa che il nuovo ministro degli Esteri Paolo Gentiloni ha ereditato dal suo predecessore.

Al contempo però, Al-Sisi presenterà l’Egitto come una nazione minacciata dalle cellule jihadiste alleate dell’autoproclamatosi stato islamico che potrebbero usare il Cairo come avamposto per il Maghreb.

È proprio la carta della minaccia terroristica quella che Al-Sisi è pronto a gettare sul tavolo qualora (cosa molto improbabile) qualcuno lo disturbasse con domande relative alla performance democratica del nuovo regime.

Tra i dossier in discussione vi è la questione del controllo delle coste. Anche se non è suggellata da alcun accordo formale, questo continua a essere un dossier sul quale si misura il successo della crescente cooperazione bilaterale.

Business Council italo-egiziano
Ciononostante saranno le trattative commerciali quelle da osservare per giudicare il successo della visita. La scommessa italiana sul nuovo regime egiziano manca infatti di concretezza economica.

Fonte: Eurostat, rielaborati nel settembre 2014 dal Rapporto sulle "Relazioni Economiche tra l’Italia e il Mediterraneo" di SRM.

Il Cairo è uno dei principali partner commerciali dell’Italia che è a sua volta il primo partner dell’Egitto in Europa.

Nel 2013 il saldo della bilancia commerciale è stato positivo per l’Italia (quasi 1,0 miliardi di euro), con un trend in crescita rispetto agli ultimi due anni. I due paesi si sono scambiati beni per un valore di 4,7 miliardi di dollari, un trend cresciuto secondo le stime del 6,5% nella prima metà del 2014.

Ciononostante, gli investitori italiani sono scoraggiati a fare business in Egitto, impauriti dalla mancanza di liquidità egiziana, dell’instabilità economica, della burocrazia e delle azioni giudiziarie poco trasparenti.

Per questo il Business Forum del 25 novembre sarà l’evento in grado di misurare il progresso della relazione commerciale dei due paesi.

L'Italia ha già 902 progetti di investimento in Egitto, ma gli imprenditori italo-egiziani che dal 2006 afferiscono al Business Council si aspettano di più. L’ultima volta che questo consiglio d'affari misto si è ufficialmente incontrato risale al 2012, quando l’Egitto era nelle mani del presidente Mohammed Mursi ora in carcere.

Stabilità sostenibile e durevole
Quanti ascolteranno Al-Sisi spiegare ciò che succede nel suo paese dovrebbero ricordare che l’Egitto è un paese controverso agli occhi dei membri dell’Unione europea. Come ricordava su questa rivista Roberto Aliboni lo scorso agosto, la feroce repressione contro i Fratelli Musulmani, i giornalisti, gli sparuti e sprovveduti liberali del paese mostra l’emergere di un regime chiaramente autoritario, per molti aspetti più chiuso di quello dell’ex presidente Hosni Mubarak.

Basti pensare che dal luglio 2013, le autorità egiziane hanno ammesso di aver incarcerato 22 mila persone, 41 mila secondo le stime dell’Egyptian Center for Economic and Social Rights.

Non dovremmo forse utilizzare, come proponeva Paolo Gentiloni su Europa prima di entrare nella squadra di Renzi, “l’evidente interesse dell’Egitto ai rapporti con l’Italia per favorire una maggiore apertura politica del regime”?

L’Italia deve districarsi su un doppio binario. Se da una parte non abbiamo interesse a mostrarci, in Europa, come un paese che chiude gli occhi nei confronti di certe violazioni in contrasto con i valori comunitari, dall’altro non vogliamo neanche intaccare il tradizionale rapporto privilegiato che ci lega all’Egitto e che potrebbe tornarci utile, soprattutto se voltiamo lo sguardo verso la Libia.

L’obiettivo dovrebbe essere il sostegno non tanto a una stabilità politica che rischia di essere di breve durata perché insostenibile e cara in termini di rispetto dei diritti umani, ma a una transizione verso un regime la cui stabilità sia al contempo inclusiva, sostenibile e durevole nel lungo periodo.

Azzurra Meringolo è ricercatrice presso lo IAI e caporedattrice di Affarinternazionali. Coordinatrice scientifica di Arab Media Report. Potete seguirla sul suo blog e su twitter a @ragazzitahrir.
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martedì 18 novembre 2014

Africa, Italia e Petrolio

Italia-Nord Africa
L’Italia e una nuova politica energetica europea verso il Maghreb
Nicolò Sartori
14/11/2014
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Le relazioni energetiche Euro-Mediterranee rappresentano una priorità strategica per l’Italia nel contesto della presidenza del semestre europeo.

Il nostro paese, infatti, è fortemente dipendente dalle forniture di idrocarburi provenienti dalla sponda meridionale del Mediterraneo, ed è quindi particolarmente interessato al rafforzamento delle modalità di cooperazione tra Unione europea (Ue) e Nord Africa nel settore energetico.

Cooperazione inter-regionale a maggior ragione necessaria in virtù degli importanti cambiamenti in atto nel Maghreb, dove la crescita della domanda energetica interna - trascinata da fattori socio-economici quali boom demografico e urbanizzazione - risulterà insostenibile se non verrà riformato il modello energetico attuale e avviata la transizione verso un approccio sostenibile all’energia.

Futuro delle forniture
L’Italia importa dai due principali produttori di idrocarburi del Maghreb - Algeria e Libia - una parte sostanziale dei suoi consumi di greggio e gas naturale. Queste forniture assumono oggi un ruolo ancor più strategico, in virtù della crisi tra Russia e Ucraina e del (presunto o reale) rischio di interruzione delle esportazioni di Gazprom verso i clienti europei.

Il Nord Africa, tuttavia, sta attraversando un’importante fase di accelerazione dei propri consumi interni - determinata da un sostenuto incremento della popolazione, così come dai rapidi processi di urbanizzazione, sviluppo industriale e elettrificazione delle aree rurali, che rischia di assorbire una quota sempre crescente della produzione locale di idrocarburi.

Questa situazione potrebbe determinare una serie di criticità per l’Italia, e più in generale, per l’Ue. Innanzitutto, rischi per la sicurezza degli approvvigionamenti energetici: la potenziale crescita dei consumi di combustibili fossili a livello regionale, se non accompagnata da un’espansione delle attività di exploration & production, potrebbe limitare sensibilmente la capacità dei produttori nordafricani di esportare verso i mercati europei.

In seconda battuta, questa situazione potrebbe contribuire ad acuire la già fragile situazione finanziaria dei paesi del Maghreb - i produttori dipendenti dalle rendite energetiche internazionali, i consumatori impoveriti dai costi elevati delle forniture - generando ulteriori instabilità e tensioni politico-sociali nella regione.

Criticità energetiche in Nord Africa
Nonostante le differenze che caratterizzano ciascuno dei paesi del Maghreb, la regione presenta alcune criticità e sfide comuni in materia energetica. Il ruolo preponderante dello stato e il dominio delle aziende pubbliche sul settore energetico sono certamente alcune di queste.

Sebbene il ruolo delle istituzioni sia fondamentale per assicurare l’implementazione delle politiche pubbliche, il peso eccessivo del potere politico sul settore energetico genera gravi inefficienze.

I budget in perdita delle compagnie energetiche nazionali ne sono l’esempio più lampante. A causa di un mastodontico sistema di sussidi universali, queste sono chiamate ad applicare a carburanti ed elettricità prezzi più bassi rispetto ai loro costi di produzione/generazione.

Questa situazione genera una spesa pubblica colossale - pari al 5% del Pil in Marocco, e al 7% in Egitto - e contribuisce anche a incoraggiare un utilizzo inefficiente delle risorse energetiche, portando a una crescita incontrollata della domanda.

Il dominio dello stato sul settore determina anche una forte influenza degli interessi politici e personali sul funzionamento dei mercati energetici. Questa situazione, che si traduce nella mancanza di un quadro regolatorio indipendente e trasparente, limita fortemente le possibilità di investimento privato - sia nazionale che internazionale - e con essa l’intera competitività del settore energetico e della regione.

Cooperazione energetica Ue-Nord Africa
Negli ultimi due decenni l’Ue ha cercato di sviluppare un modello di cooperazione energetica verso il Nord Africa, che purtroppo non ha prodotto i risultati sperati. Spesso percepite come eurocentriche e unilaterali, le iniziative europee non sono finora riuscite a favorire una concreta transizione energetica accompagnata a un più generale di sviluppo socio-economico e industriale del Maghreb.

Oggi, tuttavia, la situazione sembra essere in fase di rapida evoluzione, a causa dei cambiamenti politici introdotti dalla Primavera Araba e dalla consapevolezza che la transizione verso modelli energetici sostenibili non è più eludibile.

In questo contesto, i paesi del Nord Africa hanno effettivamente - se non avviato - quantomeno identificato, strategie e riforme da attuare per affrontare le sfide energetiche del prossimo futuro.

L’Italia, nel contesto del semestre europeo e in sinergia col nuovo Alto Rappresentante Federica Mogherini, ha l’opportunità di rilanciare l’azione energetica dell’Ue verso il Maghreb. Questo sforzo dovrà necessariamente tenere conto degli insuccessi del passato, e dare vita ad una cooperazione paritaria con i partner regionali.

Sarà inoltre necessario identificare obiettivi chiari (sebbene magari più circoscritti) che tengano in seria considerazione gli interessi locali, sia dal punto di vista puramente energetico che da quello più ampio di natura economico-industriale.

La pianificazione dei modelli del mercato elettrico, il miglioramento delle capacità di generazione e dei sistemi di interconnessione, lo sviluppo delle rinnovabili e il rafforzamento delle misure di efficienza, la convergenza dei quadri regolatori sono tutti elementi chiave per l’agenda europea nel Maghreb, il cui successo, tuttavia, non può prescindere da un radicale cambiamento di atteggiamento nelle modalità di cooperazione verso la regione.

Nicolò Sartori è responsabile di ricerca del Programma Energia dello IAI (Twitter: @_nsartori).
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lunedì 10 novembre 2014

Egitto: contro lo stato islamico

Medio Oriente
Grazie al Califfo, in Egitto arrivano gli Apache
Azzurra Meringolo
26/10/2014
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È ormai sicuro. I dieci Apache statunitensi stanno per atterrare in Egitto.

Certo, non si può dire che ci siano volati, visto che il Cairo li sta aspettando da più di un anno. Infatti, fanno parte di quei 1.3 miliardi di dollari che Washington fa arrivare ogni anno nelle tasche dell’esercito egiziano.

L’intervento con il quale i militari egiziani sono tornati al potere nel luglio 2013 aveva però messo sulle difensive la Casa Bianca.

Quando il 14 agosto 2013 l’amministrazione Obama ha visto le immagini dello sgombero del sit-in islamista di Rabaa Al-Adawya - episodio nel quale sono morti almeno 900 manifestanti - ha infine deciso di congelare l’intero pacchetto di aiuti che comprende anche 125 carrarmati, venti F16 e altrettanti missili Harpon.

L’Egitto nella lotta globale al terrorismo
Con tale mossa gli Stati Uniti hanno cercato di condizionare l’invio di quest’arsenale allo sviluppo democratico del paese. Ciononostante, gli Apache - più volte annunciati, ma mai atterrati - arriveranno lungo il Nilo in un momento il cui il paese è attraversato da un’ondata di scontri all’interno delle principali università.

A questa si somma il crescente controllo dello spazio pubblico di cui, soprattutto dal 2011, cercano, invano, di impossessarsi in primis i giovani.

Se da un lato la consegna degli Apache mette a nudo il fallimento del tentativo Usa di promozione democratica, dall’altro mostra l’abilità politica del nuovo presidente Abdel Fattah Al-Sisi.

L’ex generale, che da giugno guida ufficialmente il paese, sta infatti riuscendo a sfruttare al meglio il dossier della lotta all’autoproclamatosi “stato islamico”, inserendo l’Egitto nella lista dei paesi minacciati dall’avanzata dei terroristi, poco importa se siano quelli che si ispirano al Califfo o quelli che crescono in casa.

Il prezzo dell’adesione egiziana alla coalizione anti Califfo 
Dello sblocco degli Apache si è iniziato nuovamente a parlare proprio durante la riunione convocata, l’11 settembre scorso dagli Stati Uniti a Gedda per esaminare le modalità attraverso le quali combattere lo stato islamico.

Per la Casa Bianca era importantissima la partecipazione dell’Egitto nella coalizione, dove è concentrata la maggioranza della popolazione musulmana sunnita nell’area nord africana e sede di Al-Azhar, la massima autorità di questa compagine dell’Islam.

Sisi non ci ha pensato due volte ad alzare il prezzo dell’adesione alla nuova coalizione dei volenterosi. Oltre a esigere una serie di severe misure contro i Fratelli Musulmani in Qatar, il presidente ha chiesto lo sblocco degli Apache e un nuovo approccio degli Stati Uniti riguardo al dossier libico.

Mentre Washington, sempre più defilato da Tripoli, sponsorizza un dialogo che includa tutte le fazioni presenti nel paese, l’Egitto non vuole che gli islamisti partecipino ad alcun negoziato. Da mesi il Cairo ha infatti trovato nel general Khalifa Hiftar il suo interlocutore ideale, sostenendo, almeno logisticamente, la sua “Operazione Dignità” contro islamisti e “terroristi”.

Quando Sisi ha chiesto agli Usa di fare arrivare gli Apache nel Sinai - dove il presidente egiziano ha promesso di impiegarli nell’attuale campagna anti-terrorismo - il segretario di Stato Usa John Kerry non se l’è sentita di insistere sul blocco, considerando anche il ruolo che il Cairo gioca nelle negoziazioni tra israeliani e palestinesi.

A convincere Obama a sbloccare l’invio di questi elicotteri ha contribuito anche lo spauracchio del ritorno dell’influenza russa lungo il Nilo. A settembre, Mosca ha concluso con il Cairo un accordo di circa 3,5 miliardi di dollari che riguarda proprio l’arsenale militare.

Gli Usa non riescono a promuovere la democrazia egiziana
L’approccio inizialmente frontista degli Stati Uniti contro la deriva autoritaria egiziana ha lasciato in fretta spazio a un atteggiamento più soft. Diversi sono i motivi che hanno contribuito al fallimento della promozione democratica.

L’intervento militare del luglio 2013 è stato sostenuto non solo da milioni di egiziani (scesi in strada per chiedere elezioni anticipate non la sostituzione del presidente islamista Mohammed Morsi con un leader militare), ma anche dai generosissimi finanziatori del Golfo, - Qatar escluso - che continuano a essere il salvagente economico del paese, riducendo la sua dipendenza da altre potenze internazionali.

Inoltre, come di tradizione, il nuovo regime ha usato l’anti-americanismo come uno strumento di battaglia politica per screditare il messaggio proveniente da Washington.

Per ottenere risultati più concreti, la Casa Bianca avrebbe potuto inviare messaggi più duri, congelando altri privilegi - anche finanziari - riservati al Cairo e sospendendo, ad esempio, le operazioni di manutenzione delle forniture militari statunitensi, importantissime per l’attività quotidiana dell’esercito.

L'amministrazione statunitense avrebbe potuto decidere di bloccare le visite ad alto livello . Quando, poche settimane dopo la sospensione degli aiuti, Kerry è atterrato al Cairo, è stato chiaro che la Casa Bianca non era pronta a battersi veramente per la partita democratica egiziana. Washington si è così visibilmente incartato nella tormentata transizione egiziana.

A mostrarlo è anche un’ironica coincidenza: gli Apache, simbolo dell’assistenza Usa all’esercito egiziano, arrivano nel momento in cui lo staff del centro Carter chiude i suoi uffici lungo il Nilo.

L’organizzazione che tre anni fa aprì la sua sede egiziana per monitorare la transizione democratica, ha infatti denunciato restrizioni e violazioni di importanti diritti umani.

Azzurra Meringolo è ricercatrice presso lo IAI e caporedattrice di Affarinternazionali. Coordinatrice scientifica di Arab Media Report. Potete seguirla sul suo blog e su twitter a @ragazzitahrir.
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lunedì 27 ottobre 2014

Tunisia: le elezioni per un futuro stabile

Medio Oriente
La Tunisia al voto tra polarizzazione e consenso 
Pietro Longo
21/10/2014
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La Tunisia si appresta ad andare al voto per la seconda volta dalla “rivoluzione dei gelsomini”. Il 26 ottobre - già il 24 i tunisini residenti all’estero - i cittadini voteranno per rinnovare i 217 deputati che siederanno nel Parlamento.

Quello di domenica sarà solo il primo appuntamento elettorale dei prossimi mesi. Il 23 novembre si terranno, infatti, le presidenziali, considerate l’ultimo atto della transizione.

I sondaggi hanno registrato un testa a testa tra i due partiti maggioritari: Nida Tunis che rappresenta il polo “modernista” e Ennahda che invece dà voce alle istanze “islamiste”. La polarizzazione è attutita dalla presenza di altri partiti come il Fronte popolare, il Partito repubblicano e il partito “l’Iniziativa”.

Il Congresso per la repubblica e Ettakatol, che insieme a Ennahda avevano formato la troika di governo, sembrano destinati a raccogliere pochi consensi.

A causa della scarsa performance che la troika ha dimostrato nei due anni di governo, anche gli islamisti hanno perso terreno. Ennahda è però riuscita a conservare una certa base elettorale grazie al radicamento sociale di cui gode.

Ennahda punta sui sukuk 
Come per le elezioni dell’ottobre 2011, Ennahda ha messo in moto un’imponente campagna elettorale caratterizzata da comizi in tutte le province, comprese le sedi estere.

In occasione dell’inaugurazione tenutasi a Tunisi con il lancio dello slogan “amare la Tunisia non solo a parole”, è stato presentato il programma economico e sociale che il partito intende intraprendere nei prossimi cinque anni.

Sul versante economico, gli islamisti promettono il rilancio dell’occupazione, la lotta all’inflazione e lo stimolo degli investimenti esteri. Il loro asso nella manica è però rappresentato dall’introduzione di strumenti finanziari islamici, come i sukuk, attraverso i quali al-Ennahda intende fare della Tunisia l’hub finanziario del Mediterraneo.

Ghannushi coltiva la politica del consenso
Alla “giustizia sociale” è subentrata la parola “sviluppo”, fatto comprensibile se si considera che Ennahda ha già fallito una volta la missione di risollevare le sorti economiche del paese. Pertanto Rashid al-Ghannushi, pragmatico leader di Ennahda, ha fatto appello alla necessità di continuare con la politica del consenso che ha caratterizzato la fase di redazione della Costituzione.

Secondo al-Ghannushi, il futuro esecutivo tunisino non dovrà essere monocolore, ma dovrà raggruppare i partiti che hanno raccolto il maggior numero di consensi.

Allo stesso modo il Presidente della Repubblica dovrà essere una personalità sopra le parti e non un alfiere sbilanciato verso uno dei partiti. Ennahda ha peraltro annunciato che non presenterà candidati alla presidenza.

A sostegno dell’esigenza di questa ripartizione degli oneri, la dirigenza di Ennahda ha precisato che la fase dello scontro ideologico è terminata con l’adozione della Costituzione e pertanto si prospetta adesso la possibilità di collaborazione con tutti i partiti che entreranno in Parlamento compreso Nida Tunis.

Nel corso di un’intervista rilasciata nella località di Sfax, dove Ennahda avrebbe mobiliato 15 mila sostenitori, al-Ghannushi ha precisato che la collaborazione con Nida è possibile in virtù del fatto che il modernismo non è esclusiva di questo partito come l’Islam non lo è per Ennahda.

Nida Tunis e i nostalgici di Bourghiba
La vittoria di Ennahda alle parlamentari spianerebbe la strada alla vittoria di Beji Caid Essebsi alle presidenziali. Costui, dopo iniziali aperture, ha dichiarato senza mezzi termini di riconoscere agli islamisti il diritto di avere un partito e concorrere alle elezioni, ma esclude ogni possibile collaborazione.

Nida riscuote un certo successo tra la generazione di nostalgici dell’era bourghibista e in quella parte della società tunisina gelosa della tradizione laica del paese. La scelta di organizzare una convention a Qayrawan, città santa dell’Islam, ha assunto un valore simbolico di sfida, corroborato dalla presenza massiccia di partecipanti.

Tuttavia, la campagna elettorale di questo partito è stata, nel complesso, più modesta rispetto a quella di Ennahda che, grazie alla componente giovanile, ha condotto un’opera di informazione “porta a porta”.

Inoltre Nida già in agosto ha abbandonato l’idea di concorrere alle elezioni insieme all’Unione per la Tunisia, fatto che ha creato tensione tra Essebsi e Taib Baccouche, i due leader principali del movimento.

Il destino di Nida sembra essere legato all’esito delle prossime elezioni. Se ottenesse un discreto successo alle legislative, potrebbe creare un fronte di opposizione a un eventuale governo a guida islamista.

Tuttavia se Essebsi fosse eletto alla presidenza, il partito potrebbe andare incontro allo sfaldamento, dimostrando che soltanto l’abilità di quest’anziano veterano della politica riusciva a tenere unite frange dissimili dell’arena tunisina.

Pietro Longo è postdoctoral research fellow in Diritto musulmano e dei Paesi islamici all’Università di Napoli l’Orientale.
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mercoledì 15 ottobre 2014

Egitto: tutto serve per avere il paese stabile

Medio Oriente
La legge che spiana la strada ai gattopardi egiziani
Azzurra Meringolo
20/09/2014
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Almeno la metà dei seggi parlamentari. Secondo le previsioni dell’analista egiziano Wahid Abdel Meguid, questo sarà il risultato che incasseranno i politici fedeli all’ex raìs Hosni Mubarak che sono pronti a candidarsi alle prossime parlamentari.

Anche se la sede bruciata del Partito Nazional Democratico (Pnd) del vecchio dittatore è la prova visibile della sua dissoluzione, sono mesi che nei corridoi politici egiziani si annusa odore di vecchio.

La rincarnazione del partito apparato 
Le elezioni dovrebbero tenersi entro l’anno, ma già dopo la scontata vittoria dell’ex general Abdel Fattah Al-Sisi alle presidenziali, i rappresentanti delle diverse fazioni politiche hanno cominciato a muoversi per accaparrarsi un posto.

In testa a tutti ci sono gli ex-membri del Pnd, rimasugli del vecchio regime che hanno un grandissimo seguito a livello locale. In molti casi gestiscono diverse attività nel ramo sociale o industriale. Data la loro capillare influenza, non avranno difficoltà a ottenere l'appoggio popolare del quale hanno bisogno per la candidatura.

Attraverso una serie di stratagemmi - presentandosi per esempio come candidati di nuovi partiti o spingendo avanti membri meno noti delle loro famiglie non direttamente coinvolti negli scandali del passato - alcuni sono riusciti a candidarsi anche nelle prime parlamentari dopo la caduta di Mubarak.

Mentre i fedeli all’ex raìs sopravvissuti alla rivoluzione del 2011 stanno cercando di riorganizzarsi - magari creando un partito apparato in grado di giocare di sponda con il “nuovo” regime - una sentenza pronunciata a luglio ha annullato la legge promulgata lo scorso maggio che impediva, almeno ufficialmente, ai leader del Pnd di correre alle elezioni.

Nuova legge elettorale
A spianare la strada ai gattopardi del vecchio regime sarà ora la nuova legge elettorale che garantisce l'80% dei posti a candidati indipendenti, dando maggior chance di vittoria a chi è in grado di finanziarsi la campagna con le proprie tasche.

Da quando, nel giugno 2012, la Corte suprema ha dichiarato incostituzionale la vecchia legge - provocando la dissoluzione della camera bassa del Parlamento - la Shura, camera alta, ha prodotto tre bozze di legge che non sono andate a buon fine.

A sbloccare l’impasse è stato l’ex presidente ad interim Adly Al-Mansour - l’uomo ai quali i militari hanno affidato la guida del paese prima che le ultime votazioni lo traghettassero nelle mani di Sisi - che ha usato l’arma del decreto per emanare la legge.

Il punto più controverso del nuovo regolamento elettorale è quello relativo alla distribuzione dei seggi che passano a 567: 59 in più rispetto al Parlamento eletto nel 2011. Di questi: 120 saranno assegnati in base alle liste e 27 verranno scelti dal presidente della repubblica. I candidati indipendenti si spartiranno i rimanenti 420 seggi.

Ad opporsi a questa legge sono stati in primis i partiti nati dopo la rivoluzione che temono di essere messi ai margini da una legge che favorendo i candidati con più disponibilità economiche e influenza anche a livello tribale, svantaggia i partiti.

Verso un parlamento acquiescente
Questo meccanismo rischia di rallentare la transizione verso un sistema partitico pluralista, passaggio essenziale per un paese che vuole transitare dall’autoritarismo alla democrazia. Riducendo la possibilità dei piccoli partiti di farsi sentire, questa legge ridurrà l’influenza dell’opposizione e delle minoranze che questi cercano di rappresentare.

Inoltre, osservando la politica sul campo, non solo è difficile pensare che le prossime elezioni saranno competitive, ma è anche complesso immaginare che saranno accessibili a tutti coloro che vorranno partecipare alla sfida elettorale.

Il grande assente sarà, ancora una volta, la Fratellanza Musulmana, il movimento islamista che vinse le parlamentari del 2011, ma che nel luglio 2013 è stato costretto dai militari alla clandestinità. A rigor di cronaca, ricordiamo che secondo l’interpretazione attualmente dominante in Egitto, la Fratellanza non è vittima di un colpo di stato, ma si è autoesclusa dal gioco politico a causa delle sue pratiche violente.

Tutti questi fattori non fanno che aumentare le possibilità di successo dei candidati tradizionali di un regime che pur avendo perso la sua testa è ancora radicato nel paese.

Il sistema elettorale attraverso il quale dovrebbe essere eletto il prossimo Parlamento aiuterà a spostare l'equilibrio politico ancora di più verso il presidente. Il rischio è che in un contesto costituzionale e politico già fortemente inclinato verso il ramo esecutivo, piuttosto che fare da contrappeso ai poteri presidenziali, il legislativo si limiti a timbrare, avvallando, le decisione del raìs.

Azzurra Meringolo è ricercatrice presso lo IAI e caporedattrice di Affarinternazionali. Coordinatrice scientifica di Arab Media Report. Potete seguirla sul suo blog e su twitter a @ragazzitahrir.
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lunedì 29 settembre 2014

Uganda: l'insorgenza è in ripresa

Lo scorso 6 luglio un gruppo di uomini armati non meglio identificati ha attaccato alcune postazioni di polizia e caserme nei distretti ugandesi di Kasese, Ntoroko e Bundibugyo, al confine con la Repubblica Democratica del Congo (RDC), provocando la morte di 58 persone (41 assalitori e 17 tra poliziotti e civili). Sebbene l’attacco non sia stato rivendicato, sono forti i sospetti che la responsabilità sia del gruppo ugandese ADF-Nalu, nato dall’unione delle Forze Democratiche Alleate (ADF) e dall’Esercito Nazionale per la Liberazione dell’Uganda (NALU) e costituito per la maggior parte da miliziani islamici affiliati alla setta Jammaat Tabligh. La ripresa dell’insorgenza di ADF-Nalu, che ha a lungo sfruttato le province orientali del Congo come retroterra per i propri attacchi, costituirebbe una seria minaccia alla sicurezza di Kampala, poiché il gruppo agisce in funzione antigovernativa ed è riuscito progressivamente a canalizzare il forte malcontento delle comun! ità musulmane più deboli e marginalizzate. A suscitare forte preoccupazione è la possibilità di una graduale infiltrazione di ADF-Nalu da parte di elementi del network jihadista regionale, in particolare miliziani del gruppo somalo al-Shabaab. Infatti, alla luce della recente internazionalizzazione operativa di al-Shabaab, è ravvisabile l’intenzione di intensificare i rapporti tra le due formazioni per aprire un nuovo fronte dell’insorgenza jihadista. L’Uganda è impegnata nella lotta ad al-Shabaab nel contesto della missione AMISOM e potrebbe quindi rappresentare un obiettivo sensibile per l’islamismo radicale del Corno d’Africa, come confermato dai 2 attentati che hanno insanguinato Kampala nel 2010 e dell’allarme terrorismo lanciato dalle autorità statunitensi lo scorso 3 luglio. Nella fattispecie, l’obbiettivo dei miliziani sarebbe stato l’aeroporto internazionale di Entrebbe.

Fonte CESI Newsletters 152

NIheria: Boko Haranall'attacco

Domenica 30 giugno, un gruppo di miliziani presumibilmente parte di Boko Haram hanno attaccato i villaggi di Kwada, Ngurojina, Karagau e Kautikari, tutti dislocati nei dintorni di Chibok, nello Stato nord-orientale del Borno, provocando la morte di 54 persone. Anche in assenza di una rivendicazione, la tipologia dell’attacco lascia presumere la responsabilità del movimento jihadista. Di fronte all’ennesimo massacro di civili, le Forze Armate nigeriane sono fuggite attirando su di esse le gravi accuse della popolazione locale, abbandonata alla violenza dei miliziani. Inoltre, durante gli attacchi contro i cristiani e i membri dell’Esercito, i miliziani sono stati appoggiati dalle locali comunità musulmane, a testimonianza del crescente supporto popolare verso il gruppo jihadista nelle remote aree settentrionali del Paese.
In questo senso, il malcontento sociale nei confronti delle istituzioni civili e militari nigeriane potrebbe aver spinto una parte della popolazione a collaborare con gli uomini d’affari e signori della guerra locali, in contrasto con il governo nigeriano e in contatto con Boko Haram. Molte di queste influenti personalità utilizzano l’insorgenza salafita nel nord della Nigeria per destabilizzare il governo del Presidente Goodluck Jonathan e massimizzare i propri benefici economici e politici, spesso contigui alle attività criminali e terroristiche. La sempre maggiore fluidità tra il mondo politico, le attività illegali e la militanza jihadista ha trovato l’ennesima conferma nell’arresto, avvenuto lo scorso 1 luglio, del businessman Babuji Ya’ari e di diverse donne accusate di spionaggio per conto del movimento jihadista nonché di aver collaborato alla preparaz! ione di numerosi attacchi verificatisi nel nord est della Nigeria.

Fonte CESI. Newsletter 151

lunedì 22 settembre 2014

Libia: situazione fuori controllo

Medio Oriente
Alba contro Dignità, in Libia si muova l’Ue
Roberto Aliboni
04/09/2014
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Le elezioni del 25 giugno scorso in Libia hanno portato a una netta rottura nel già dilaniato tessuto politico del paese. Questa frattura si è tradotta in uno scontro militare, non episodico, né localizzato, come quelli che si sono avuti sin qui.

Nell’ambito di questo scontro ci sono stati interventi di aerei militari stranieri, che hanno mostrato i nessi fra lo scontro in Libia e quello fra le diverse potenze sunnite della regione. In questo quadro, i paesi occidentali e l’Onu, impegnati a sostenere la pacificazione nazionale e la transizione del paese alla democrazia, sembrano finiti nell’angolo. Vorranno, potranno fornire una risposta adeguata?

Le elezioni del 25 giugno e la costituzione della nuova Camera dei Rappresentanti, al posto del Congresso nazionale generale, invece di rimettere sui binari la competizione politica fra le parti libiche si sono rivelate una sorta di estremo rantolo delle istituzioni democratiche della transizione e hanno contribuito a farla deragliare.

Elezioni che liquidano la democrazia
Nel febbraio del 2012, il Congresso, in preda a controversie inconciliabili e sotto il peso di una diffusa sfiducia popolare, aveva raggiunto un compromesso per rinnovarsi mediante nuove elezioni.

Nello stesso mese, tuttavia, il generale Khalifa Belkasim Hiftar annunciava la sua “Operazione Dignità” contro islamisti e “terroristi”, ricevendo un avallo da parte dei moderati dell’Alleanza delle forze nazionali.

Da questo punto in avanti, ogni possibilità che il dissidio fra islamisti e moderati si potesse risolvere nell’ambito delle istituzioni, come aveva fatto pensare il compromesso di febbraio, veniva meno. Islamisti e rivoluzionari radicali, mentre Hiftar avviava le sue operazioni in Cirenaica, hanno perciò cominciato a prepararsi allo scontro, comunque fosse andato avanti il processo istituzionale.

Le elezioni hanno poi mandato alla Camera dei Rappresentanti una maggioranza nettamente orientata verso i moderati. Tuttavia, la bassissima partecipazione al voto ha tolto loro ogni convincente legittimità.

Comunque, sono state interpretate da islamisti e rivoluzionari radicali come l’ultimo segnale della prevaricazione condotta dai moderati su di loro e di conseguenza sono iniziate le operazioni delle loro forze militari coalizzate sotto il nome di “Operazione Alba”.

La parola alle armi
Il 13 luglio le forze di “Alba” hanno attaccato l’aeroporto internazionale di Tripoli, tenuto sin dalla rivoluzione dalle brigate della città di Zintan, alleate dei moderati e perno della loro influenza nella capitale.

A Bengasi, il 29 luglio gli islamisti di Ansar al-Sharia hanno sloggiato le forze di “Dignità” dalla importante base di Buatni. Da allora, le forze islamiste cirenaiche continuano a premere su quelle di Hiftar che chiaramente annaspano.

L’aeroporto di Tripoli è caduto il 23 agosto. Attualmente, le forze della coalizione “Alba” spadroneggiano nella capitale, da dove i moderati si sono chiaramente ritirati. “Alba” ha occupato le sedi governative (e la ex residenza dell’ambasciatore americano).

Reagendo a tutto ciò, la Camera, riunita nella lontana Tobruk, ha riconfermato il governo di Al-Thinni, che s’era dimesso, ma la coalizione di “Alba” ha chiesto al vecchio Congresso di riunirsi e sta operando affinché sia nominato un “governo di emergenza” che avrebbe come premier Omar Hassi, un militante rivoluzionario della prima ora, che viene dai ranghi dei Fratelli Mussulmani.

La Camera ha caratterizzato i militanti di “Alba” come “terroristi fuori legge”. Il portavoce delle brigate di Misurata, punta di lancia di “Alba”, ha replicato che le operazioni a Tripoli avevano lo scopo di liberare le istituzioni “dai resti del vecchio regime” e che la Camera di Tobruk non fa altro che tentare di “screditare coloro che restano leali alla Rivoluzione del 17 Febbraio”, chiarendo così in epigrafe qual sia la percezione alla radice dello scontro tra i “veri rivoluzionari” e i “reazionari mascherati da rivoluzionari”.

Uno scontro di sponsor esterni
Nella battaglia di Tripoli sono intervenuti aerei degli Emirati Arabi Uniti, appoggiati logisticamente dall’Egitto. Militarmente non sono stati d’aiuto. Politicamente sono serviti a chiarire che il processo politico-istituzionale libico si collega al confronto fra le diverse potenze sunnite della regione e ne è inevitabilmente influenzato.

Non è un mistero che Qatar e Turchia appoggiano i Fratelli Mussulmani e le forze ad essi associate, mentre Arabia Saudita, Emirati ed Egitto sostengono un arco di moderati che va da Mahmoud Jibril a Khalifa Hiftar.

D’altra parte, non è chiaro se le forze jihadiste di Bengasi e Derna hanno sostenitori esterni o se, nell’ambito delle liaisons dangereuses disinvoltamente praticate da molti attori della regione, Qatar e Turchia appoggino anche loro. Certamente ricevono appoggio dalle diverse associazioni e "charities” del salafismo estremista del Golfo.

Con ancora maggiore certezza ricevono appoggi dai loro accoliti a partire dai vari fronti mediorientali e africani in cui la Jihad si trova oggi sul sentiero di guerra. Come che sia, nella fase attuale la contiguità fra estremisti e moderati islamisti s’è trasformata in alleanza.

Se contiguità e alleanze fra forze islamiste moderate ed estremiste costituiscono una difficoltà non nuova sulla strada di un’eventuale ripresa del processo politico-istituzionale, tale eventualità è certamente complicata dalle pesanti interferenze esterne in essere.

È questo certamente un problema in più per i paesi occidentali e l’Onu i quali, nel momento in cui un agitato mondo politico si sta trasformando in un’altra guerra civile, hanno subito denunciato le interferenze esterne e confermato l’obbiettivo di ricreare le condizioni perché il processo politico-istituzionale riprenda.

Responsabilità occidentali
Se l’obiettivo era difficile prima, lo è ancora di più ora. Non è chiaro come possa essere perseguito un dialogo nazionale e non ha più senso parlare di riforma del settore della sicurezza. In una guerra civile o si appoggia una parte o si cerca di creare le condizioni per un avvicinamento delle parti senza stare con nessuna di esse.

In Libia, l’aggregazione dei Fratelli Mussulmani con gli jihadisti e quella dell’Alleanza delle Forze nazionali con il generale Hiftar è il risultato di un processo politico in cui tutti i democratici libici hanno puntato all’esclusione dell’altro piuttosto che alla collaborazione (come è avvenuto in Tunisia).

In questo processo negativo le responsabilità dei governi rivali della regione è grande e appare crescente: essi hanno tutto l’interesse a tirare l’acqua al loro mulino piuttosto che a quello della Libia. C’è anche una responsabilità dell’Occidente?

Indubbiamente l’Occidente, finita la rivoluzione, si è volatilizzato, talvolta senza nemmeno preoccuparsi di capire perché mai fosse intervenuto. Ha lasciato l’Onu da solo. Ha esortato al dialogo, al processo politico e alla difesa delle istituzioni, ma mentre ha sviluppato contatti con i rivoluzionari moderati (persone di un mondo bene o male conosciuto) non risulta che abbia sviluppato contatti con i Fratelli Mussulmani nel tentativo di rassicurarli e impegnarli in un dialogo politico.

Questo fu fatto in Egitto dagli statunitensi (anche se, in conclusione, senza successo), ma in Libia non è stato neppure tentato. Forse ingaggiare i Fratelli libici, dissociarsi da Hiftar e altri elementi meno convincenti dell’area rivoluzionaria moderata, e convincere i Fratelli a distinguersi nettamente dagli jihadisti (come ha fatto a un certo punto Ennahda in Tunisia) potrebbe essere utile a far arretrare i libici dal baratro che si profila e aprire la strada a un dialogo di cooperazione e pacificazione nazionale. Dunque degli impegni politici e non una generica esortazione a fare i democratici.

Il primo passo dell’Occidente - rigetto delle interferenze esterne e riconferma della transizione democratica - può apparire ingenuo, ma è invece un gesto che trova un favore trasversale nell’opinione libica.

Per andare oltre ci vuole una diplomazia collettiva ben attrezzata e coordinata e, soprattutto una forte volontà politica. Non è escluso che i nuovi dirigenti dell’Ue riescano a mobilitare questa diplomazia collettiva e battere un colpo, per una volta, nella variegata tormenta che avvolge ormai da anni il loro vicinato meridionale.

Roberto Aliboni è consigliere scientifico dello IAI.
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martedì 16 settembre 2014

LIbia: L'Italia deve essere prudente

La crisi in Libia e l’Italia
Primo, evitare di restare da soli 
Mario Arpino
09/08/2014
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Inviare in Libia una missione Onu a guida italiana, a similitudine di Unifil in Libano? Idea suggestiva quella espressa da Nicola Latorre, presidente della Commissione Difesa del Senato. E in prima analisi condivisibile, considerato che la stabilizzazione del Paese, dopo lo sconquasso cui anche noi abbiamo dato una mano robusta, è uno dei problemi più urgenti. Almeno per noi.

Il ministro della Difesa, Roberta Pinotti, infatti condivide, riportando che anche gli Stati Uniti auspicano per l’Italia un ruolo di maggior peso nella regione. “A patto che - aggiunge - vi siano un coordinamento a livello internazionale ed un ruolo non subalterno”.

Fare qualcosa, ma non qualsiasi cosa
Apprezzata questa immediatezza propositiva, è utile qualche riflessione. È vero, l’Italia, con storiche responsabilità verso quell’aggregato di tribù e territori che al momento chiamiamo ancora Libia, deve muoversi per prima e “fare qualcosa”.

Tanto più che i nostri interessi sono rilevanti e con potenziale sviluppo. È anche evidente che dobbiamo adoperarci perché la Libia mantenga una configurazione statuale unitaria, anche se in ciò erano riusciti per qualche decina d’anni solo i Romani e, dopo di loro, il governatore Italo Balbo. Oltre, naturalmente, a Muhammar Gheddafi.

Perché uno sforzo tipo Unifil possa essere coronato dal successo, è necessario il verificarsi di un certo numero di evenienze, che potremmo provare ad elencare e discutere. Sono d’ordine politico, ma anche pratico e militare, visto che tra Libia e Libano in comune ci sono solo le tre lettere iniziali.

La prima è una perplessità: avrà l’Italia la forza e gli strumenti per trainare il Consiglio di Sicurezza verso la pace, così come Sarkozy era riuscito a trascinarlo in tempi brevi verso la “guerra”? Mi si perdoni l’inverecondia del termine, ma è difficile dare un nome diverso ad alcuni mesi di bombardamenti.

Capire bene quali e quanti sono gli amici, e i nemici
Dalla Libia è arrivata in questi giorni una richiesta di aiuto internazionale. È davvero valida, o è solo la voce isolata di un gruppo scarsamente rappresentativo? È vero, ci sono state le elezioni del 25 giugno, e il nuovo Parlamento ha già provato a riunirsi. Ci è stato detto che l’affluenza alle urne è stata del 42 per cento, ma si è sorvolato sul fatto che il dato si riferisce agli iscritti alle liste, non al totale degli aventi diritto.

Così, i circa 630 mila votanti su 3,4 milioni di elettori rappresentano una percentuale inferiore al 20 per cento. Quindi, l’80 per cento circa dei libici non si è espresso. Come la pensano costoro? Le milizie hanno sempre dichiarato di non voler cedere le armi, opponendosi a qualsiasi intervento di forze straniere: è cambiato qualcosa? Non sembra. Chi raccoglierà l’appello, supponendo - cosa niente affatto scontata - un’approvazione del Consiglio?

Accortisi dello sconquasso di cui erano i primi responsabili, Francia, Regno Unito e prima ancora gli Stati Uniti, dopo le bombe si sono immediatamente defilati. Idem Nato e Unione europea (Ue), mentre Cina e Russia è probabile siano ben soddisfatte di aver favorito, con l’astensione, quel tranello che ha così ben contribuito a screditare l’Occidente.

Cosa è rimasto? Un’Italia con il cerino tra le dita, un Mare Nostrum pieno di disperati, un dirimpettaio ridotto al fallimento, i nostri interessi calpestati e messi a repentaglio.

Ora, è legittimo chiedersi: perché i tre grandi, dopo averci coinvolto in una guerra che era con tutta evidenza contro i nostri interessi, dovrebbero adesso scendere in campo per tutelarli? Diciamolo fuori dai denti, la stabilità di una Libia unitaria interessa solo noi. La Nato, con gli Usa lontani, militarmente conterebbe come la Ue: assai poco. Nemmeno il flusso dei migranti preoccupa l’Europa, se il commissario per gli affari interni, Cecilia Malmström, ci ha appena spiegato che ci sta portando enormi benefici.

Meglio procedere per gradi
L’idea del senatore Latorre resta affascinante, ma al momento forse è prematura. Ben che vada, ci troveremmo alla guida di qualche migliaio di soldati dell’Unione Africana, sempre disponibile quando si tratta di finanziare i propri eserciti con le casse dell’Onu.

La Libia è grande, le tribù numerose, i gheddafiani ancora attivi nel Sud. C’è da dubitare che con queste forze sia possibile disarmare le milizie, o anche solo interporsi. Al-Sisi, a est, potrebbe aiutare, ma non va dimenticato che i nostri interessi e quelli egiziani in Cirenaica potrebbero anche divergere.

Prima di pensare ad una missione militare dell’Onu, cui, in questo momento, sarebbe oltremodo difficile assegnare un mandato, serve ancora molto lavoro di preparazione. Ed è proprio qui che l’Italia potrebbe distinguersi, prendendo l’iniziativa. Per esempio, tentando di organizzare a Roma una conferenza semipermanente di tutte le parti in causa, che includa le diverse componenti libiche, l’Egitto, la Tunisia e l’Algeria, da sempre interessata ad una stabilizzazione del Sud.

Giornalista pubblicista, Mario Arpino collabora con diversi quotidiani e riviste su temi relativi a politica militare, relazioni internazionali e Medioriente. È membro del Comitato direttivo dello IAI.
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LIbia: la situazione ad agosto 2014

Medio Oriente
Libia verso la somalizzazione
Roberto Aliboni
31/07/2014
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L’evacuazione dalla Libia di cittadini stranieri, uomini d’affari, diplomatici e tecnici ha assunto un ritmo serrato.

Il motivo occasionale sta nelle due sanguinose battaglie in corso: all’aeroporto di Tripoli lo scontro è fra le milizie di Zintan - nazional liberali - e quelle di Misurata - filo islamiste; a Bengasi, Ansar al-Sharia e altri estremisti islamici combattono contro una coalizione di milizie più o meno politicamente apparentabili con quelle di Zintan, fra cui quella formata negli ultimi mesi dall’ex generale Khalifa Haftar.

Lo scontro di oggi ha però un profilo politico diverso dal conflitto a bassa intensità di tutti contro tutti che abbiamo conosciuto nei due anni precedenti e certamente prefigura una svolta.

Da una parte, la multipolarità della crisi libica - il moltiplicarsi di conflitti fra i più disparati attori - appare in declino. Dall’altra, le violenze in corso sembrano mettere definitivamente in causa il processo politico di transizione democratica che si era messo in moto dopo la rivoluzione. Entrambe questi fattori possono determinare un salto di qualità nei conflitti in atto.

Nei due anni passati, la crisi libica è stata un rompicapo a causa del suo carattere multipolare, di tutti contro tutti: le tribù, le etnie, la Cirenaica e la Tripolitania. Più di recente alcuni di questi conflitti, pur lungi dall’essere risolti, hanno però cominciato a recedere. Ciò vale per l’occupazione dei terminali petroliferi, la tensione fra i “federalisti” cirenaici e il centro tripolino e il conflitto fra gli Awad arabi e i Tubu nell’estremo sud del paese.

Conseguenze della legge per l’epurazione
Si è invece rafforzato il conflitto di fondo che nei due anni passati è fermentato fra le forze rivoluzionarie esclusive e quelle inclusive. Lo scontro è avvenuto, in particolare, sulla legge per l’epurazione, che ha sancito severi criteri di esclusione per tutti quei leader e funzionari che avevano servito sotto il regime di Muammar Gheddafi.

Questi criteri si sono rivelati così rigidi da escludere anche Mahmoud Jibril, uno dei leader indiscussi della rivoluzione (anche se a era in precedenza nei ranghi dell’amministrazione del regime).

Beninteso, la legislazione sull’epurazione non è nata come strumento di esclusione dei nazional-liberali ma, cammin facendo, la coalizione islamista nel Congresso generale (i Fratelli Mussulmani e il Blocco dei Martiri di Abu Sahmain) l’ha indubbiamente usata proprio a questo scopo: per rovesciare i governi e la maggioranza dominati dall’Alleanza delle Forze Popolari dei nazional-liberali.

Milizie e lotta per il potere
Diplomatici e analisti internazionali hanno continuato a interpretare il processo politico libico come una transizione fondamentalmente consensuale verso la democrazia, in cui erano impegnati sia nazional-liberali che islamisti liberali, anche se disturbata, ahimé, dalla prevaricazione delle milizie, forti del monopolio della forza a fronte di un governo privo di mezzi coercitivi.

In realtà, c’è stata una dura lotta per il potere, in cui tutte le parti in conflitto non hanno esitato a usare a loro vantaggio le milizie, al fine di escludere l’avversario. Gli islamisti, in particolare, non hanno neppure esitato, quando gli è convenuto, di allearsi con i jihadisti di Derna e Bengasi.

I Fratelli Mussulmani e i loro alleati non hanno accettato la loro condizione di minoranza nel Congresso e nel paese, fino al tentativo di nominare, malgrado minoranza, un loro governo al posto di quello di Ali Zeidan, dopo averlo costretto alle dimissioni e alla fuga dal paese.

Fallito questo tentativo, il 25 giugno si sono fatte elezioni legislative con l’obiettivo di rinnovare lo screditato Congresso Generale, cui è stata data anche la nuova denominazione di Camera dei Rappresentanti.

Anche le elezioni sono state però un fallimento. Alle elezioni si sono candidati solo indipendenti, essendo stati esclusi i partiti. Nessuno perciò è in grado di dire quale tendenza la nuova Camera esprimerà e in che tempi. Non è neanche chiaro se la Camera dei Rappresentanti riuscirà a riunirsi, ma è evidente che, se pure ci riuscisse, non sarà certo in grado di avviare quel processo politico che in due anni ha registrato solo fallimenti. Il nuovo Parlamento è anzi assurto a simbolo della fallita transizione democratica.

Ruolo comunità internazionale
La comunità internazionale non può illudersi di stabilizzare il paese, riattivando un processo politico finito in un vicolo cieco o cercando di addestrare le forze di sicurezza necessarie a ridare al governo libico (quale governo?) il monopolio della forza.

Così il futuro della Libia sembra sempre più dipendere dall’esito del conflitto, come in alcuni paesi del Levante. Nessuno vuole intervenirvi militarmente, né è in grado di esercitare una qualche influenza politica significativa. Per la Libia si profila quindi uno scenario simile a quello della Siria: difficoltà a individuare dei partner a parte intera; quindi, assai scarsa convinzione e impegno nel sostenerli; in conclusione, un’influenza insignificante.

In Libia però la destabilizzazione ha effetti più immediati sull’Europa e sui suoi interessi. Inoltre, non esiste, come in Siria, un centro politico strutturato come quello degli Assad. In questo senso, la Libia sembra avviata più verso il destino della Somalia che della Siria, cioè a diventare un vero e proprio stato fallito.

Difficilmente però l’Europa può restare a guardare. Dagli Stati Uniti gli europei possono aspettarsi un appoggio, ma non un’iniziativa che surroghi, come al solito, la loro. Dagli arabi possono aspettarsi di più, in particolare dall’Egitto e, forse dall’Arabia Saudita, ma su un terreno politico molto scivoloso.

Il rischio è che l’Europa sia coinvolta in uno dei tanti conflitti settari che stanno sconvolgendo la regione e finisca per essere trascinata in un confronto contro jihadisti e/o Fratelli Mussulmani, politicamente inopportuno per i suoi interessi. È venuto il momento che a questi sviluppi e ai gravi rischi che essi comportano si ponga finalmente mente, e che lo si faccia al più presto.

Roberto Aliboni è consigliere scientifico dello IAI.
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mercoledì 10 settembre 2014

NIgeria: proseguono gli attacchi di Boko Haram



Domenica 30 giugno, un gruppo di miliziani presumibilmente parte di Boko Haram hanno attaccato i villaggi di Kwada, Ngurojina, Karagau e Kautikari, tutti dislocati nei dintorni di Chibok, nello Stato nord-orientale del Borno, provocando la morte di 54 persone. Anche in assenza di una rivendicazione, la tipologia dell’attacco lascia presumere la responsabilità del movimento jihadista. Di fronte all’ennesimo massacro di civili, le Forze Armate nigeriane sono fuggite attirando su di esse le gravi accuse della popolazione locale, abbandonata alla violenza dei miliziani. Inoltre, durante gli attacchi contro i cristiani e i membri dell’Esercito, i miliziani sono stati appoggiati dalle locali comunità musulmane, a testimonianza del crescente supporto popolare verso il gruppo jihadista nelle remote aree settentrionali del Paese.
In questo senso, il malcontento sociale nei confronti delle istituzioni civili e militari nigeriane potrebbe aver spinto una parte della popolazione a collaborare con gli uomini d’affari e signori della guerra locali, in contrasto con il governo nigeriano e in contatto con Boko Haram. Molte di queste influenti personalità utilizzano l’insorgenza salafita nel nord della Nigeria per destabilizzare il governo del Presidente Goodluck Jonathan e massimizzare i propri benefici economici e politici, spesso contigui alle attività criminali e terroristiche. La sempre maggiore fluidità tra il mondo politico, le attività illegali e la militanza jihadista ha trovato l’ennesima conferma nell’arresto, avvenuto lo scorso 1 luglio, del businessman Babuji Ya’ari e di diverse donne accusate di spionaggio per conto del movimento jihadista nonché di aver collaborato alla preparaz! ione di numerosi attacchi verificatisi nel nord est della Nigeria.

Fonte CESI Newsletter 151

martedì 9 settembre 2014

Kenya: attacco terroristico con 49 uccisi


Nella tarda serata di domenica 15 giugno, almeno 49 cittadini di religione cristiana sono rimasti uccisi in un attacco avvenuto a Mpeketoni, località turistica in prossimità della costa keniota, 30 km a sud di Lamu. Dalle prime ricostruzioni emerge che circa 20 uomini armati hanno aperto il fuoco sui passanti prendendo di mira numerose strutture alberghiere, una banca e una stazione di polizia, andate completamente distrutte. A distanza di 48 ore, un nuovo attentato verificatosi nel vicino villaggio di Poromoko ha causato la morte di altre 15 persone, tutte non musulmane. Entrambi gli attentati sono stati rivendicati dal gruppo terroristico somalo al-Shabaab, nonostante persistano dubbi sul coinvolgimento di organizzazioni criminali legate ad avversari politici del Presidente keniota Uhuru Kenyatta o del Consiglio Repubblicano di Mombasa (MRC) che si batte per l’autonomia della regione costiera a maggioranza musulmana. Tuttavia, la modalità! degli attacchi e la decisione di risparmiare i musulmani, proprio come avvenuto nell’attentato al centro commerciale Westgate di Nairobi nel settembre 2013, lascia presumere la veridicità della rivendicazione di al-Shabaab, che mira a indebolire il governo keniota impegnato nella lotta contro i ribelli islamisti sul territorio nazionale e in Somalia.
Appare particolarmente significativo come i miliziani jihadisti si siano scagliati nello specifico contro i cristiani, che rappresentano la maggioranza religiosa nella provincia di Mpeketoni, in evidente segno di rappresaglia contro il governo, accusato di perpetrare una brutale repressione contro i musulmani in Kenya. In questo senso, la scelta di colpire l’indotto turistico, che ogni anno porta nelle casse governative oltre un miliardo di dollari, è diretta a ridurre significativamente gli introiti dello Stato, colpendo con un gesto eclatante anche gli interessi e i cittadini dei Paesi occidentali. Di fronte a! questo scenario, l’intensificarsi degli attacchi armati sul suolo keniota portano a ritenere che il Paese sia diventato un fronte particolarmente intenso del jihad islamico nel Corno d’Africa, confermando la crescente internazionalizzazione dell’azione degli insorgenti somali legati ad al-Qaeda.

Fonte CESI Newletter 149 

lunedì 8 settembre 2014

Egitto: scarso peso sulla scena internazionale

Conflitto israelo-palestinese
Egitto, mediatore fantasma 
Andrea Dessì, Azzurra Meringolo
13/07/2014
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In questi giorni di guerra, gli egiziani hanno aperto solo per poche ore il valico di Rafah, l’unico ingresso della Striscia di Gaza non gestito ad Israele.

Dal valico passano non solo i feriti più gravi che cercano soccorso in Egitto, ma anche le speranze della tregua dell’ennesima escalation di violenza tra israeliani e palestinesi, la più violenta dal novembre 2012.

Tramonto della luna di miele
A mediare una tregua nel 2012 fu proprio il Cairo. Da allora molto è cambiato nella regione. L’asso nella manica della mediazione egiziana fu il rapporto tra i Fratelli Musulmani - rappresentati al Cairo dal presidente Mohammed Morsi - e i cugini di Hamas, costola della confraternita islamista che ha il potere su Gaza. Da quando la Fratellanza è rinchiusa nelle carceri egiziane, la luna di miele tra gli arabi al di qua e al di là di Rafah è finita.

Il nuovo presidente egiziano Abdel Fattah Al-Sisi spera che la disfatta dei cugini palestinesi indebolisca i Fratelli egiziani, nemici dell’esercito dal quale proviene. Per questo dal Cairo avevano fatto capire che questa volta l’Egitto non avrebbe provato a mediare. Ora, però, questa posizione sembra ammorbidirsi e l’Egitto ricompare sulla scena come un possibile mediatore.

Un portavoce del presidente egiziano dice infatti che Sisi ha promesso al presidente dell’Autorità Palestinese - che amministra la Cisgiordania - di alzare la cornetta per chiamare quanti possono fare qualcosa per far cessare la mattanza. Più tardi Abu Zuhri, un portavoce di Hamas, ha rivelato all’agenzia Bloomberg l’esistenza di contatti tra Gaza e il Cairo.

Rivelazioni interessanti non solo perché qualsiasi mediazione di successo deve coinvolgere Hamas - e non solo l’Autorità palestinese che ha a sua volta problemi con gli islamisti che governano Gaza - ma anche perché fanno pensare che gli sforzi di mediazione egiziani di cui si parlava a metà giugno non si sono esauriti.

Sisi possibile negoziatore
Non è quindi escluso che Sisi decida di far scendere in campo i suoi negoziatori. Gli islamisti palestinesi non sono il suo alleato naturale, ma il presidente egiziano non vuole rinunciare a influire sull’ordine regionale, come gli chiede anche la Casa Bianca.

Nonostante le voglie neoisolazioniste degli americani e il morale a pezzi del segretario di Stato John Kerry dopo il fallimento dell’ennesimo tentativo di riappacificare Israele e Palestina, Washington desidera ancora un Medio Oriente stabile. L’Egitto rimane quindi una pedina importante.

Le parti in conflitto non sono però ancora pronte a deporre le armi.

Per la diplomazia Usa il primo obiettivo è quello di scongiurare un’invasione di terra da parte del governo israeliano. Tel Aviv, dal canto suo, vuole punire la leadership di Hamas, accusata, pur senza prove convincenti, dell’uccisione dei tre giovani israeliani, e impedire la riconciliazione tra gli islamisti di Hamas e i nazionalisti di Fatah.

La spina nel fianco dell’accordo tra Fatah e Hamas 
Alla base di questo conflitto c’è infatti anche il recente annuncio dell’accordo di riconciliazione tra Fatah e Hamas e l’insediamento del nuovo governo di consenso nazionale a Ramallah con l’appoggio delle due fazioni palestinesi.

A sovraintendere alla nascita di questo esecutivo è stato Moussa Abu Marzouq, stratega di Hamas, famoso per la capacità di tessere con successo la tela dei rapporti e delle mediazioni tra Egitto-Gaza e i servizi segreti israeliani. Abu Marzouq - caso vuole - è l’unico uomo di Hamas a risiedere in Egitto anche dopo la stretta repressiva dei militari nei confronti degli islamisti.

Sebbene il governo sia di natura tecnica e quindi senza ministri affiliati a Hamas, Israele ha da subito condannato il nuovo esecutivo, dichiarando che non dialogherà con un governo di ‘terroristi’. Di diverso avviso sono però le principali potenze internazionali, Stati Uniti, Unione europea, Cina, India e Russia.

Difficile pensare che, dopo l’ennesima escalation di violenza tra Hamas e Israele e la perdurante collaborazione tra Fatah e Israele sulla sicurezza in Cisgiordania, il recente accordo di riconciliazione nazionale Hamas-Fatah possa sopravvivere.

La divisione politico-militare tra la Striscia di Gaza, controllata da Hamas, e la Cisgiordania di Fatah continuerà a minare gli obiettivi nazionali della Palestina. Non a caso, il premier israeliano Benjamin Netanhayu addita questa divisione come prova della mancanza di un partner riconosciuto dall’intera popolazione palestinese con il quale siglare un accordo di pace.

Mentre si aspetta che un mediatore con serie intenzioni - egiziano, turco, saudita o statunitense che sia - si faccia avanti, gli scontri si inaspriscono, così come le tensioni intra-palestinesi.

Andrea Dessì è assistente alla ricerca dello IAI.
Azzurra Meringolo è ricercatrice presso lo IAI e caporedattrice di Affarinternazionali. Coordinatrice scientifica di Arab Media Report. Potete seguirla sul suo blog e su twitter a @ragazzitahrir
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