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Metodo di Ricerca ed analisi adottato


Il medoto di ricerca ed analisi adottato è riportato suwww.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com

Vds. post in data 30 dicembre 2009 seguento il percorso:
Nota 1 - L'approccio concettuale alla ricerca. Il metodo adottato
Nota 2 - La parametrazione delle Capacità dello Stato
Nota 3 - Il Rapporto tra i fattori di squilibrio e le capacità delloStato
Nota 4 - Il Metodo di calcolo adottato

Per gli altri continenti si rifà riferimento al medesimo blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com per la spiegazione del metodo di ricerca.

giovedì 30 aprile 2015

Marocco: tra innovazione e repressione

errorismo e jihadismo
Marocco, l'eccezionalità da riconquistare
Simone Olmati
27/04/2015
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A lungo considerato impermeabile alla penetrazione jihadista, anche il Marocco sta attuando nuove misure di sicurezza. Senza riforme sociali e maggiori diritti, tuttavia, il compito del governo potrebbe rivelarsi più arduo del previsto.

Dopo l'attentato di Tunisi, anche il Marocco sta rafforzando i dispositivi di sicurezza. Il nuovo Bureau central des investigations judiciaires (Bcij), fondato il 20 marzo a Salé e considerato l'“Fbi marocchino”, ha già smantellato una presunta cellula affiliata al sedicente Stato Islamico e operante in tutto il Paese.

L’entità della minaccia e la prontezza della risposta
Il Bcij ha inoltre diffuso i dati riguardanti il rischio terrorismo in Marocco: 132 strutture smantellate, 2720 persone arrestate, 119 attentati, 7 sequestri e 109 omicidi sventati tra il 2002 e il 2015.

A preoccupare di più il governo, sono gli oltre 1300 foreign fighters, tra cui 185 donne, che avrebbero lasciato il Paese per raggiungere il fronte siriano e che potrebbero fare ritorno in patria ben addestrati. D'altra parte non sarebbe la prima volta che il Marocco si trova ad affrontare il fenomeno del “terrorismo di ritorno”.

Considerando l'elevato numero di combattenti marocchini operativi in Siria, i meccanismi di reclutamento sembrano funzionare più che bene. In particolare, il gruppo Shamal Islam - fondato dall'ex detenuto nella prigione di Guantànamo Brahim Benchekroune (alias Ibrahim binShakran) - ha accolto molti miliziani, affiancandoli principalmente alle operazioni di Jahbat al Nusra.

Secondo i dati del Bcij, un nutrito gruppo di circa 500 unità sta combattendo anche nelle fila dello Stato Islamico.

Così come per la Tunisia, anche per il Marocco il primo impattodella presenza jihadista nel Paese si avrebbe sul turismo, una risorsa importante che per Rabat rappresenta tra l'8 e il 10% del Pil. Il governo ha adottato repentinamente misure straordinarie per contrastare il fenomeno e rassicurare visitatori e investitori stranieri.

Nonostante la lotta al terrorismo transfrontaliero nel Sahel sia spesso complicata da confini vasti e permeabili e da relazioni non idilliache tra i Paesi della regione, l'uccisione del francese Hervé Gourdel nella vicina Algeria ha dato una spinta fondamentale all'esecutivo per l'adozione di nuove misure interne e un maggiore attivismo sul piano internazionale.

In particolare, il ministero dell'Interno ha varato nei mesi scorsi il dispositivo “Hadar” (vigilanza), un sistema di sorveglianza integrata dei siti sensibili - quali gli aeroporti - che si aggiunge alle attività di controllo da parte delle Forze armate e della gendarmeria reale e alla riforma del sistema della giustizia.

La Camera ha approvato a gennaio un progetto di legge per contrastare la penetrazione jihadista. Il testo prevede il potenziamento delle pene e delle competenze dei tribunali in materia, con particolare severità per quanto riguarda i cittadini che abbiano effettuato una qualche forma di addestramento militare all'estero, reclutato combattenti o aderito a gruppi terroristici.

Il Regno impensierito dal salafismo marocchino
Sfiorato appena dalle Primavere arabe, il Makhzen ha sempre adottato nei confronti dei movimenti radicali religiosi politiche ambivalenti fatte di repressione, cooptazione e tolleranza, a seconda delle necessità storiche.

Negli Anni Settanta, l'Arabia Saudita investì le ingenti risorse economiche derivanti dallo shock petrolifero nel finanziamento di istituti confessionali di scuola wahhabita in tutto il mondo arabo, Marocco compreso.

La diffusione di un sentimento conservatore, seppur di matrice religiosa, rispondeva alla necessità di arginare i movimenti progressisti dell'epoca. È in questa fase che si è radicato il salafismo marocchino, che oggi impensierisce il Regno.

In questo ambiente sono emersi predicatori quali Mohamed Fizazi, condannato a 30 anni di prigione per responsabilità ideologica sugli attentati di Casablanca del 2003, poi liberato otto anni dopo.

Nell'ultimo decennio, che con gli attentati suicidi di Casablanca e Marrakech ha segnato la fine dell'“eccezionalismo marocchino”, il Regno ha dato un nuovo giro di vite sui movimenti radicali. Una repressione che ha finito per colpire, però, anche numerosi attivisti secondo Amnesty International.

Riforme e giri di vite
A ben vedere, il tema delle riforme è strettamente legato a quello della diffusione del radicalismo religioso e del reclutamento di combattenti stranieri. Molto spesso, infatti, sono i giovani delle periferie degradate dei grandi centri urbani ad arruolarsi per il fronte siriano non avendo valide alternative di vita e di reddito.

Dopo molte promesse disattese e una discussa riforma costituzionale seguita alle proteste del 2011, un nuovo patto sociale con i cittadini basato su pochi e chiari punti come il contrasto della disoccupazione, l'accesso ai servizi di base, la tutela dei diritti fondamentali e la riorganizzazione del welfare, potrebbe costituire un valido argine alla strumentalizzazione del dissenso da parte di quei movimenti radicali che non solo cavalcano il malcontento, ma si pongono contro il regno stesso non riconoscendo né l'autorità religiosa di re Mohammed VI, né la legittimità politica del governo.

Ora, è altamente improbabile che Abu Bakr al Baghdadi sia per il Marocco il nuovo Ukba ibn Nafi, il condottiero arabo che cavalcò fino all'Oceano Atlantico non avendo più nulla, se non il mare, a fermare la sua avanzata verso Ovest.

Tuttavia, per non essere di nuovo un terreno di conquista califfale, Rabat dovrebbe innanzitutto iniziare ad affrontare il tema delle riforme sociali senza cedere alla deriva securitaria e, in secondo luogo, dovrebbe risolvere le proprie problematiche interne puntando sulle risorse di cui dispone e su una società civile variegata, ma animata in larga parte da istanze democratiche.

L'obiettivo è quello di riconquistare e mantenere quell'eccezionalità che per lungo tempo ha costituito per il Marocco uno dei suoi tratti distintivi.

Simone Olmati è laureato in relazioni internazionali. Ha lavorato per il Ministero degli Esteri in Marocco e collabora con la rivista di geopolitica Limes, per la quale scrive in particolare di Tunisia (@SimoneOlmati).

lunedì 27 aprile 2015

Tunisia. Aspetti Militari. I Parte

Il Military Balance, The annual assessment of global military capabilities and defence economics, per il 2014, dedica al Medio Oriente e al Nord Africa il Capitolo VII; gli argomenti trattati riguardano sopratutto La Siria, la Libia e 'Iran e l'Algeria; una finestra è dedicata all'Egitto. Per la Tunisia pochi accenni; ma rimane evidente che questo paese deve fare molta attenzione in quanto i suoi stati limitrofi, la Libia soprattutto rappresenta un focolaio di destabilizzazione molto grande. Interessante il dato che l'Algeria, dal maggio 2013, ha messo a fuoco la difesa del confine con la creazione di 20 zone di difesa in cui sono stati stanziati oltre 60.000 uomini, nella evidente ipotesi prospettica che i disordini in Libia non vengano contenuti e frenati dalla Tunisia.
Nel rappresentare il Paese sotto gli spetti militari, si scrive

Small and relatively poorly equipped by regional standard, Tunisia’armed forces are reliant on conscripts, and mach of the equipment across the three services is out dated and, in some cases, approaching obsolescence. In teerns of internarl security, the military, role is limited as the National Guard, arguably better-trained and designed to act as a counterbalance to the armed forces, takes the lead on domestic stability. Nonetheless, the army was integral to the Jasine Revolution of January- February 2011 as it refused to fire on protesters and verbally leant its support to te demonstratons. The military was also utlised during the Lybian uprising in 2011 , with the army and air force able to patrol the borders relatively successfully and the navy competently dealing with migrant flows and search-and-rescue operation  in Tunian waters. Tunisia’s armed forces were well-suited to these  constabulary roles, with more traditional military roles, such as high-tempo war fighting , largely beyond their current capabilities. Military modernization programmes may be undermined by the 2011 revolution. As such the country will most probably continue to rely on surplus stockes of US. French and Italian equipment fot its arsenal"

Marzo 2015. (studentiecultori2009@libero.it)


lunedì 13 aprile 2015

Libia: da stato fallito alla confusione permanente

Modello Somalia
Libia: le radici dell’anarchia
Gabriele Natalizia
11/04/2015
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A quattro anni dalla risoluzione Onu 1973 e dalla missioneUnified Protector, il disordine in Libia è ancora centrale nell’agenda politica italiana e internazionale e la sua attualità nel dibattito pubblico è stata rilanciata dall’ingresso in scena dell’Isis.

A differenza di altre crisi internazionali, qui non sono in gioco solo il prestigio di Roma o la sua esposizione economica. Il dilagare dell’anarchia rappresenta una minaccia diretta alla sicurezza nazionale italiana, tanto da costringere il governo a riflettere su ogni opzione valida se la situazione dovesse precipitare.

Ma quali sono state le condizioni che hanno reso possibile questa deriva? E quali scenari erano ipotizzabili nel 2011?

La riammissione della Libia nella comunità internazionale
La fine della Guerra Fredda impose al regime di Gheddafi un ripensamento strategico dei suoi rapporti con l’Occidente. Il riavvicinamento passò per l’ammissione della responsabilità oggettiva nella strage di Lockerbie e il risarcimento alle famiglie delle vittime (2003), la ripresa delle relazioni diplomatiche con gli Stati Uniti, la rimozione dalla lista degli Stati canaglia e la collaborazione nella guerra globale al terrorismo (2004) e la disapplicazione dell’Iran-Libya Sanctions Act (2006).

Parallelamente si sviluppò una nuova distensione con l’Italia. Berlusconi e Gheddafi raggiunsero un intesa (2003), confermata successivamente da Prodi, sul risarcimento dei danni coloniali, che sarebbe stato perfezionato con la costruzione di un’autostrada tra Tripoli a Bengasi.

L’emblema della distensione fu il Western Libyan Gas Project, per cui l’Eni e la Lnoc realizzarono il gasdotto sottomarino Green stream (2004). Si giunse così al Trattato di Bengasi (2008), che come effetto indiretto, tra il 2009 e il 2011, determinò la riduzione del 99% del flusso di clandestini verso la Penisola.

Alla fine del primo decennio degli Anni 2000 l’interesse dell’Italia non era la rivoluzione dello status quo, per quanto non ottimale, ma la preservazione di un ordine favorevole ai suoi interessi e un passaggio dei poteri a Saif al Islam Gheddafi, considerato il volto moderato del regime.

Il mutamento delle condizioni politiche e la missione internazionale
L’attenuamento del disordine in Iraq, il progressivo ritiro della forza multinazionale e la riduzione della minaccia di al Qaeda diminuirono l’importanza politica della Libia. Al contrario, l’instabilità del Medio Oriente e il rally delle risorse energetiche ne accrebbero il ruolo economico, rafforzando la posizione dell’Italia.

L’azzeramento della situazione in Libia non fu in discussione fino al perdurare di tre condizioni ostative: a) il credito dei governi italiani con l’amministrazione Bush per l’appoggio alle missioni in Afghanistan e Iraq; b) il profondo impegno degli Stati Uniti in tutte le aree di crisi del globo; c) l’assenza di presupposti che giustificassero l’ingerenza delle potenze esterne.

Nel 2011 queste condizioni sono venute meno per quattro fattori che hanno trasformato le proteste di piazza in una guerra civile internazionalizzata:
a) la discontinuità dell’amministrazione Obama con la politica estera del suo predecessore e con la rete di crediti/debiti ad essa collegata;
b) lo spostamento della sua attenzione dal Grande Medio Oriente al quadrante Asia-Pacifico;
c) la scelta americana di affidarsi agli alleati nelle regioni non vitali per l’interesse nazionale;
d) la risoluzione 1973 (marzo 2011) che istituì una zona d’interdizione al volo per tutelare l’incolumità della popolazione civile libica.

La Francia e la Gran Bretagna spinsero per un’interpretazione ampia della risoluzione, che si tradusse nell’intervento militare di cui furono inizialmente alla testa. Il loro obiettivo non ufficiale era riempire il vuoto politico generato dalla rinuncia degli Stati Uniti al ruolo di “nazione necessaria” in Nord Africa e ridisegnare i rapporti di forza nel settore energetico libico.

Questi obiettivi internazionali si coniugavano con alcune necessità interne. Sarkozy era alla ricerca di un successo internazionale che lo avrebbe rafforzato nella corsa per l’Eliseo del 2012, mentre Cameron auspicava un effetto ‘mobilitazione nazionale’ per sopperire al crollo dei consensi.

L’inefficacia delle prime incursioni aeree, tuttavia, impose l’unificazione delle operazioni militari sotto l’egida Nato, cui aderì anche l’Italia. La scelta interventista fu dettata dalla duplice necessità di partecipare alla ridefinizione degli equilibri interni alla Libia a conflitto terminato e di evitare una campagna di delegittimazione internazionale.

Già all’indomani della rivolta in Cirenaica i più importanti organi europei di stampa pubblicarono alcuni articoli scandalistici sulle relazioni tra Roma e Tripoli, tra cui "Forget the elephants" su Le Monde Diplomatique (11 marzo) e "Italy’s shame in Libya" su The Economist (25 febbraio).

Gli scenari politici nel 2011
I contorni della guerra civile erano tanto indefiniti da rendere verosimili una serie di scenari e rischi profondamente diversi:
1) una guerra civile prolungata (modello Somalia), che avrebbe causato la presenza davanti alle coste italiane di uno Stato fallito diviso in più entità autonome e il verificarsi di esodi apocalittici, emergenze sanitarie, terrorismo e contrabbando di armi;
2) il fallimento strisciante della Libia (modello Libano), determinato dalla presenza di alcune porzioni di territorio fuori dal controllo del governo centrale, le cui derive più estreme sarebbero state evitate solo dall’intervento di forze internazionali, i cui costi maggiori sarebbero spettati all’Italia;
3) la vittoria dei lealisti (modello Algeria), per cui Gheddafi, o i suoi eredi politici, avrebbero messo in atto una serie di ritorsioni contro il “tradimento” italiano;
4) la vittoria dei ribelli (modello Iraq), che avrebbe causato l’emergere di una classe politica di matrice islamista e la revisione degli accordi politici ed economici siglati dal precedente regime.

Lo scenario che sembra delinearsi oggi è quello del “modello Somalia” e rappresenta la conferma di come gli interventi umanitari a basso costo, senza la fase truppe sul terreno, producono conseguenze di gran lunga peggiori di quelle che vogliono evitare.

Gabriele Natalizia è Ricercatore di Scienza politica, dell’Università Link Campus di Roma.

giovedì 9 aprile 2015

Somalia: verso la costruzione di un Stato

Africa
Somalia in cerca di pace e stabilità 
Rossella Marangio
31/03/2015
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Pace e stabilità sono da lungo tempo le priorità che la comunità internazionale ha identificato per la Somalia. L'obiettivo è primario soprattutto per un paese che da decenni è ostaggio di un conflitto che ha significativamente contribuito a qualificarlo come “stato fallito” a partire da quando, negli anni novanta, i primi interventi internazionali sono miseramente falliti.

Le elezioni del 2012 e l’approvazione del New Deal Compact nel 2013 hanno rilanciato il processo di pace e soprattutto la ricostruzione del paese,due processi che sono strettamente interconnessi.

Il 2015 sarà un anno cruciale per il processo di pace e ricostruzione con l’approvazione della nuova Costituzione, prevista per fine anno, ed i preparativi per le elezioni del 2016. Tuttavia, in tale contesto, sono ancora numerose le insidie che minacciano la risoluzione della questione somala.

Sicurezza ed estremismo
Garantire la sicurezza nel paese costituisce uno dei punti cardine nel processo di stabilizzazione somalo. Il principale ostacolo verso il pieno raggiungimento di tale obiettivo è sicuramente Al-Shabaab, un gruppo terroristico affiliato ad Al-Qaeda che, pur essendo stato costretto ad indietreggiare a partire dal 2013, continua ad effettuare attacchi mirati contro le istituzioni somale ed i loro sostenitori internazionali.

Gli attacchi condotti tra il 2013 e l’inizio del 2015 in Kenya, nei confronti nella missione dell’Unione Africana, Amisom, e di alcuni hotel dove membri delle istituzioni e della polizia somala erano riuniti, dimostrano che la politica del gruppo terroristico è volta a delegittimare le istituzioni somale e a colpire chi le sostiene.

Eppure, rispetto ad altri gruppi terroristici, Al-Shabaab si caratterizza per la sua capacità di aderire ed utilizzare a proprio favore le caratteristiche della società somala, in primis le relazioni intra ed inter claniche. Il gruppo, infatti, ha dimostrato di sapersi ben adattare alla mutevolezza delle alleanze claniche, e di creare consenso grazie alla peculiarità di unire rivendicazioni nazionalistiche all’ideologia religiosa tipica del salafismo.

Nel tentativo di sconfiggere Al-Shabaab, la comunità internazionale si è principalmente concentrata sull’approccio militare, ma la battaglia che potrebbe davvero permettere di interrompere la scia di violenza sembra doversi combattere anche sul piano sociale, economico e politico, e ciò sia all’interno sia all’esterno del paese.

Tale battaglia potrà essere vinta solo offrendo ai somali delle reali alternative in termini economici, e favorendo l’implementazione di processi politici che siano inclusivi, capitalizzino le peculiarità della tradizione somala e che non vengano percepiti come contrastanti con i tratti culturali e religiosi propri del popolo somalo.

In tale ottica va anche letto il contributo militare di Kenya ed Etiopia ad Amisom. Se è infatti indubbio che la loro partecipazione ha permesso di infliggere dei duri colpi ad Al-Shabaab sul piano militare, non si dovrebbe dimenticare che i due paesi sono lontani dall’essere neutrali rispetto all’evoluzione del conflitto somalo.

Nello specifico, questioni territoriali irrisolte e considerazioni legate alla composizione culturale e religiosa dei due paesi potrebbero allargare, anziché ridurre, il consenso per Al-Shabaab, come baluardo dell’Islam e della cultura somala.

Inoltre, Al-Shabaab non è l’unica minaccia alla sicurezza del paese. La mancata inclusione dei caratteristici mutamenti di alleanze claniche nel processo politico del paese rappresenta un nodo cruciale, da affrontare con estrema attenzione se si vuole spezzare la spirale di violenza che ha mantenuto il paese in conflitto finora.

Sottovalutare questo aspetto significherebbe mettere un’ipoteca inestinguibile sul processo di pace e sul futuro del paese come dimostrano le difficoltà nella creazione di un’amministrazione nello Juba e gli scontri nello Shabelle meridionale e nel Gedo del 2014.

Costruire uno stato federale inclusivo
La questione del federalismo somalo è un’altra sfida fondamentale del processo di stabilizzazione come delineato dal Compact approvato nel 2013.

Il Somali Compact Progress Report, presentato nel novembre 2014 al Forum di Copenhagen tra i partner internazionali e presieduto dalle Nazioni Unite e dal presidente del governo somalo, registra dei progressi nel dialogo tra il governo federale e le amministrazioni decentrate, in particolare la ripresa dei rapporti con il Puntland, interrotti nel 2013, e il dialogo con l’amministrazione ad-interim dello Juba.

Tuttavia, rimane irrisolta la questione dell’amministrazione delle regioni centrali, per cui il processo di formazione amministrativa sembra soffrire enormemente delle divisioni tra clan.

Inoltre, la questione del Somaliland, il quale beneficia di uno statuto particolare anche riguardo all’implementazione del Compact, pone dei seri interrogativi riguardo al suo ruolo all’interno della Somalia federale.

Inevitabilmente, il Somaliland potrebbe fungere da precedente ed alimentare ulteriormente le spinte autonomiste delle varie regioni da costituirsi in stati federati con una conseguente incertezza circa la ripartizione delle competenze all’interno dello stato federale, da approvarsi con la Costituzione a fine del 2015.

Tuttavia, una spinta positiva è da registrarsi grazie all’approvazione da parte di governo e parlamento della Commissione per i confini ed il federalismo, incaricata di valutare i confini degli stati (già esistenti o nascenti) e risolvere eventuali dispute territoriali.

Ancora una volta l’efficacia di tale misura dovrà essere valutata in base alla sua capacità di costituirsi come processo inclusivo, poiché nel precario equilibrio istituzionale somalo ignorare anche solo una delle voci potrebbe determinare innumerevoli passi indietro.

Rossella Marangio è dottoranda in Relazioni Internazionali nel programma ‘Politica, Diritti Umani e Sostenibilità” della Scuola Superiore Sant’Anna, Pisa. Precedentemente ha lavorato come assistente accademico al Collegio d’Europa ed ha svolto tirocini presso il Seae e la Rappresentanza Permanente d’Italia presso l’Ue. Ha una Laurea in Scienze Internazionali e Diplomatiche presso l’Università di Trieste ed un Master in Studi Europei Interdisciplinari presso il Collegio d’Europa.