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Metodo di Ricerca ed analisi adottato


Il medoto di ricerca ed analisi adottato è riportato suwww.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com

Vds. post in data 30 dicembre 2009 seguento il percorso:
Nota 1 - L'approccio concettuale alla ricerca. Il metodo adottato
Nota 2 - La parametrazione delle Capacità dello Stato
Nota 3 - Il Rapporto tra i fattori di squilibrio e le capacità delloStato
Nota 4 - Il Metodo di calcolo adottato

Per gli altri continenti si rifà riferimento al medesimo blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com per la spiegazione del metodo di ricerca.

martedì 31 marzo 2015

Tunisia: dopo la grande tragedia

Dopo il Bardo
Tunisia, sicurezza e democrazia questioni irrisolte
Roberto Aliboni
26/03/2015
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L’attacco al museo del Bardo ha attirato i riflettori sulla Tunisia, ma durante la transizione la sicurezza non ha mai cessato di essere un problema in questo paese.

A misura che il partito islamista, sotto la guida di Rachid Ghannouchi, veniva costretto a scegliere un percorso moderato dagli eventi (come l’estromissione dal governo dei Fratelli Mussulmani per mano dei militari egiziani), le ali e frange non moderate dell’islamismo tunisino, nel partito e fuori, si sono estremizzate e si sono sempre più organizzate come un movimento politico di opposizione violenta.

Per un lungo periodo, il partito islamista Ennahda, allora al governo, condusse una politica di tolleranza verso le sue frange estreme, del tipo “compagni che sbagliano”, nella fiducia di convincerli a pazientare nell’attesa che il livello di consapevolezza sociale si adeguasse alle finalità di islamizzazione del partito.

Questo, assieme al deterioramento delle condizioni socio-economiche del paese, è stato uno dei grandi errori che ha tolto il potere ad Ennahda e favorito l’ascesa di Essebsi e dei secolaristi di NidaaTounes al governo.

Da compagni che sbagliano ad al-qaidisti e jihadisti
Oggi ogni legame fra Ennahda e l’estremismo di Ansar al-Sharia è caduto. Nel frattempo, però, un movimento estremista agli inizi limitato si è ingrossato, diffuso e radicalizzato soprattutto a causa dell’influenza crescente del contesto regionale.

Dal 2011 ad oggi, i giovani islamisti tunisini, via via delusi dal “parlamentarismo” di Ennahda e Ghannouchi sono emigrati a combattere nella Mezzaluna Fertile, prima in Siria con l’ala al-qaidista di Jabath al-Nousra e altre organizzazioni salafite, poi con lo Stato Islamico di al-Baghdadi in Iraq e Siria. Esistono varie valutazioni dei combattenti tunisini all’estero, siano essi propriamente jihadisti o meno: dai 3000 ai 4000. Di questi, alla fine del 2014, si valutava che 400 circa fossero tornati.

Accanto ai reduci del jihadismo regionale militante, il movimento di ribellione interna non ha cessato di ingrossarsi, specialmente nel sud del paese e nella regione di Kasserine, al confine con l’Algeria, in virtù delle influenze e delle interazioni con il movimento jihadista saheliano, in particolare AQIM, Al-Qaida nel Maghreb.

Poco riportati dai media, gli scontri con le forze dell’ordine sono ormai endemici. Numerose le vittime fra la polizia di stato. Un ultimo scontro si è svolto pochi giorni prima dell’attacco al museo del Bardo, che gli ha dato la risonanza internazionale che generalmente questa guerra lontana non riesce ad avere.

L’attacco al Museo un salto qualitativo
L’attacco al museo del Bardo segna un ulteriore progresso dell’estremismo tunisino sotto l’influenza del contesto regionale: l’attacco è sicuramente collegato al diffondersi dell’influenza diretta e indiretta dello Stato Islamico nel Nord Africa: dal Sinai, alla Libia, ora alla Tunisia.

Questo salto qualitativo non avviene come un’estensione diretta delle forze dello Stato Islamico, bensì come risultato del suo prestigio e de suo successo. Bastano alcuni emissari, che trovano in loco dei reduci e una massa di giovani attirati daI prestigio, dalle armi e dagli altri mezzi che lo Stato Islamico riesce a mettere a disposizione delle reclute e dal soldo che distribuisce.

Di fronte a questi sviluppi la compagine civile e politica della Tunisia, come hanno dimostrato le reazioni all’attacco del museo del Bardo, è destinata a mostrarsi di gran lunga più compatta e consistente di quella di altri paesi arabi e sarà, da sola, un argine potente al fanatismo dei jihadisti e al loro uso spregiudicato del terrore.

Tuttavia, da un lato, l’escalation del fanatismo islamista in Tunisia e la sua maggiore integrazione nel contesto regionale non varrà certo a facilitare la difficile fase di transizione alla democrazia che si è inaugurata con le elezioni e la nomina del governo di HabibEssid.

Dall’altro, l’avanzata del jihadismo in Tunisia preannuncia una sua avanzata in Algeria ed, eventualmente, una sua penetrazione in Marocco. Perciò, un accrescimento oggettivo dei rischi di tracimazione dell’instabilità in Europa, in particolare in nell’Europa del Sud.

Le incognite dell’impatto politico ed economico
Il governo Essid, formato poche settimane fa, è basato su una coalizione fra i secolaristi di Nidaa Tounes e gli islamisti di Ennahda. I media internazionali hanno considerato questa coalizione come un successo della democrazia tunisina e una garanzia per il suo consolidamento.

Tuttavia, la coalizione ha dato luogo a forti tensioni sia all’interno di Nidaa Tounes, dove non pochi membri non riescono ad accettare anche la sola idea di una convivenza con gli islamisti, e, per la medesima ragione, all’interno di Ennahda.

Inoltre, la situazione economica, fortemente deteriorata, è destinata a creare difficoltà e tensioni che una coalizione politica già attraversata da dissensi di fondo potrebbe non essere capace di sostenere. Perciò, l’eruzione dell’estremismo jihadista e del terrorismo potrebbe ancora di più indebolire il governo e rendere la Tunisia incapace a fare fronte alla difficile congiuntura.

I paesi occidentali, in particolare l’Ue e i paesi del Sud Europa, dovrebbero compiere uno sforzo di sostegno solido e lungimirante: occorre moltiplicare gli aiuti alla crescita economica ma anche fornire addestramento e mezzi alle forze di polizia e agli eserciti.

In Italia, ci si concentra sulla Libia, ma in realtà è ormai l’insieme del Nord Africa a costituire il problema vicino su cui il nostro paese dovrebbe concentrarsi.

Roberto Aliboni è consigliere scientifico dello IAI.


venerdì 20 marzo 2015

Egitto: interconnesisoni di matrice religiosa

Egitto
Copti e salafiti, un matrimonio di interesse
Marco Di Donato
16/03/2015
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Salafiti e copti insieme.Può sembrare una contraddizione di termini, ma non lo è. Almeno secondo la nuova legge elettorale egiziana che obbliga ogni partito a inserire nelle proprie liste elettorali una quota riservata ai cristiani copti e alle donne.

Anche se il 1̊ marzo la Corte Costituzionale ha bocciato la legge, mandando per aria le parlamentari alle porte, quanti si sono messi al lavoro per emendare il regolamento elettorale non toccheranno questo articolo.

Donne e cristiani nella politica egiziana
Sembrano passati secoli da quando, nel 2011. Yasser Burhami, uno dei più importanti leader salafiti di tutto il paese peraltro strettamente legato ad Al-Nour, aveva dichiarato dalle colonne del quotidiano Al-Ahram che “noi saremo disponibili a valutare la presenza di un copto come presidente del paese, quando Israele farà lo stesso con un musulmano”.

Dichiarazione che si traduceva in una palese negazione dei diritti politici di una parte (corposa, pur minoritaria) della cittadinanza egiziana.

Eppure, il 29 gennaio 2015, proprio la pagina Facebook ufficiale di Al-Nour, il maggiore partito salafita di tutto l’Egitto, pubblicava una immagine del copto El Serafy che esprimeva la sua candidature nelle fila di Al-Nour e la sua volontà di collaborare su questioni religiose nell’interesse dei copti.

Dichiarazioni che facevano seguito a quelle di un importante esponente del partito salafita, Ashraf Thabit, il quale si diceva sicuro di come “la presenza di copti e donne nelle liste di Al-Nour non rappresenterà un problema”. Eppure a guardare il sito della Da’wa Salafiyya di Alessandria, organizzazione di cui Al-Nour è braccio politico, qualche incognita rimane.

Un articolo di Ahmad Shahhat del 12 febbraio 2015 ci informa di come la Da’wa Salafiyya ritenga che gli uomini e le donne debbano avere ruoli diversi e a tal proposito riporta non poche citazioni dal Corano e alcuni hadith dell’epoca del Profeta Muhammad.

Questo perché, lo sottolinea chiaramente l’autore dell’articolo, Al-Nour è un partito islamico che fa chiaramente riferimento alla Shari’a la cui identità va preservata “specialmente dopo il fallimento dei Fratelli Musulmani”.

La partecipazione di donne e copti è una inclusione sub condicione, ossia non libera, non rispettosa delle single specificità, ma che anzi tale specificità tende a inglobare in un contesto ben definito: islamico appunto.

Del resto, e qui si chiude l’articolo, “è noto che la vita dei cristiani all’ombra dell’Islam sia ben più sicura che sotto il controllo dei monaci della Chiesa”, specificando che il decadimento morale dell’Europa (c’è riferimento alle vignette satiriche sulle donne velate ed alla religion islamica insultata in televisione) sia ormai inarrestabile decline poiché schiava dei suoi “modelli corrotti”.

Pragmatismo di Al-Nour
La mossa inclusiva di Al-Nour sembra dunque essere primariamente improntata su un calcolo politico, primariamente legata all’obbligo, dunque non alla volontà, di includere all’interno dei propri ranghi esponenti di fede cristiana.

Si tratta di una mossa pragmatica, laddove la propria ideologia viene piegata alla prassi legislativa che impone la presenza di cristiani nelle fila del partito salafita.

Così come pragmatica, quando non opportunistica, viene considerate all’interno del mondo copto la decisione di alcuni esponenti politici cristiani di iscriversi nelle liste salafite.

Islamisti egiziani
Da qualunque prospettiva lo si osservi, tanto quella cristiana quanto quella islamica, il connubio fra Al-Nour e i copti sembra solo un matrimonio di interesse destinato a finire nel momento in cui la legge non dovesse più obbligare la forzata convivenza.

Critiche in merito sono giunte anche da altri partiti di matrice islamica, come il partito di ispirazione sufi El-Nasr che ha chiesto a più riprese che Al-Nour esca da questo atteggiamento ambiguo e renda chiara ed evidente la sua posizione in merito alla partecipazione dei cristiani alla vita politica della nazione.

Un’ambiguità in un certo senso inevitabile poiché espressione delle due anime di Al-Nour: da un lato braccio politico di una istituzione come la Da’wa Salafiyya che ha una sua agenda sociale e religiosa ben definita, dall’altro partito egiziano a pieno titolo inserito in un processo di transizione e interazione e connivenze con un potere che del dialogo interreligioso sta facendo un suo punto di forza.

Non solo. In Al-Nour emerge sempre più la volontà di proporsi come partito islamista di riferimento dopo la “scomparsa” ufficiale dei Fratelli Musulmani e in tal senso un allargamento, per quanto forzato e limitato, dei propri orizzonti politici sembra, seppur complesso, fatalmente inevitabile.

Marco Di Donato è Dottore di Ricerca in Scienze Politiche e presidente del Centro Italiano di Studi sull'Islam Politico (CISIP).

Egitto: la collaborazione con l'Italia

Egitto
Shopping italiano a Sharm el-Sheikh
Azzurra Meringolo
18/03/2015
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Si è parlato di Libia, del sedicente “stato islamico” e pure di Salah, il Messi d’Egitto che sta facendo sognare la Fiorentina tanto a cuore a Matteo Renzi.

Il summit di Sharm el-Sheikh è stato però soprattutto l’occasione nella quale il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi ha messo in mostra tutti i progetti di crescita economica nei quali vuole coinvolgere investitori provenienti da ogni angolo del mondo.

Poco importa se a pagare questi imprenditori non sarà nei fatti l’Egitto, ma i generosi stati del Golfo che tengono in vita la precaria economia di un paese dipendente dalla generosità delle petromonarchie.

Nella tre giorni che si è conclusa il 15 marzo, in prima linea ci sono stati anche il nostro premier e una trentina di nostre imprese, visto che l’Italia è il terzo partner commerciale dell’Egitto, il primo tra gli europei.

Fincantierri e il raddoppio del Canale di Suez
Nel nord si scommette sul turismo, cercando di replicare nella striscia di costa che si avvicina alla Libia la storia di successo dei resort di Sharm el-Sheikh che porta la firma del made in Italy.

Nel sud scende in campo il gruppo D’Appolonia, che ha deciso di diventare protagonista del triangolo minerario Qena-Safaga-Quseir. In ballo c’è un piano di sviluppo da 1,7 miliardi di dollari per la creazione di un hub industriale, logistico e portuale.

Nel Sinai, i nostri investimenti si concentrano tutti sul Canale di Suez, che ad agosto ha annunciato di voler ampliare il tratto di navigazione a senso unico alternato, grazie a un progetto di parziale raddoppio dell’ampiezza di questa strategica autostrada del mare.

Per ridurre il tempo di percorrenza delle navi da 18 a 11 ore è scesa in campo Fincantieri, che già a febbraio aveva sondato il terreno, partecipando alla missione organizzata dal nostro governo nel paese delle piramidi.

Sempre Fincantieri è pronta ad operare a Socna per la realizzazione di una piattaforma petrolifera il cui valore stimato si attesta sugli 800 milioni di dollari.

Eni e investimenti energetici
Alla voce gas e petrolio si affianca però soprattutto un nome, quello di Eni. A mostrarlo è la firma, a latere del summit di Sharm, di un piano di investimenti di circa 5 miliardi di dollari per lo sviluppo, in quattro anni, di 200 milioni di barili di petrolio e 37 miliardi di metri cubi di gas.

In cambio, il cane a sei zampe rappresentato da Claudio De Scalzi chiede che il Cairo si impegni a pagare regolarmente e costantemente. Questo anche per assorbire quel miliardo di dollari di debito maturato negli ultimi anni.

A investire su nuove fonti di energia green sono invece l’italiana MegaCell - che ha firmato un contratto con Misr Asset Management per lo sviluppo di pannelli solari - e Italgen (Italcementi), la quale ha iniziato la costruzione di un impianto eolico che raggiungerà i 320 MW.

Tutto ciò aiuterà l’ex generale Al-Sisi a realizzare il sogno che ha in mente per l’Egitto del 2020: un paese dove il 20% dell’energia proviene da fonti rinnovabili.

Ansaldo e l’altavelocità egiziana
L’altro grande progetto sul tavolo è stato quello relativo alla creazione di una linea ferroviaria ad alta velocità di 1200 km che colleghi Alessandria ad Assuan, passando per il Cairo.

L’Egitto deve farsi prestare almeno 10 milioni di euro per realizzare questo progetto, ma Ansaldo è già pronto a lavorarci. Del resto, questa azienda si è già mobilitata per l’ammodernamento della centrale elettrica del 6 ottobre, la città satellite del Cairo. Se tutto filasse liscio, dovrebbe anche arrivare a un’intesa simile per la centrale El-Seyyuf di Alessandria.

Intesa Sanpaolo - che ormai 9 anni fa ha acquisito Bank of Alexandria - auspica invece la creazione di un fondo centrale di garanzia per le piccole e medie imprese egiziane, sul modello di quello italiano.

Nel piano di rilancio dell’economia egiziana, l’Italia, molto attiva anche nel settore della cooperazione, prevede la conclusione di ulteriori accordi per un valore di 2,5 miliardi di dollari. Ad anticiparli è stato il viceministro per lo sviluppo economico Carlo Calenda che, secondo quanto riportato dal Corriere della Sera, ha chiesto al Cairo di riattivare il gasdotto dell’Alto Sinai, danneggiato dai jihadisti, ma essenziale per il cementificio del Gruppo Caltagirone.

Grazie a questo summit, Sharm el-Sheik è tornata sotto i riflettori di quanti guardano all’Egitto con speranza, in primis chi, come Renzi, ha scommesso sul nuovo regime e sul ruolo stabilizzatore che Al-Sisi può giocare nella regione, immaginando che nei prossimi anni il paese si trasformi in una realtà stabile e in crescita, in perfetta sintonia con la pace e i confort dei resort del Sinai.

Gli attentanti a bassa intensità che hanno segnato la vigilia del summit e che da mesi tengono impegnato l’esercito - soprattutto in questa penisola al confine con la Striscia di Gaza - mostrano però una strada ancora tutta in salita. A confermarlo è stato anche il rinvio delle elezioni parlamentari previste per marzo.

Per evitare di perdere credibilità, il regime dovrà ora darsi nuove scadenze che non stonino troppo con la retorica del rispetto delle tempistiche della road map che ha accompagnato Al-Sisi in tutti i suoi incontri internazionali.

Azzurra Meringolo è ricercatrice presso lo IAI e caporedattrice di Affarinternazionali. Coordinatrice scientifica di Arab Media Report. Potete seguirla sul suo blog e su twitter a @ragazzitahrir.

lunedì 16 marzo 2015

Egitto: alleati più stabili per l'Occidente

Medio Oriente
Egitto, rivoluzione religiosa ad usum delphini
Paola Caridi
12/03/2015
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Il fronte dei tradizionali alleati dei paesi occidentali in terra araba si è definitivamente rinsaldato e lo ha fatto sotto l’ombrello dell’Islam.

Come se il Secondo Risveglio arabo si fosse condensato in una tempesta inattesa, dura, ma alla fine governata dai soliti abili nocchieri. I pilastri della pluridecennale strategia economica e geopolitica euro-americana nell’area.

Egitto e Arabia Saudita si riprendono il ruolo che era stato messo in forse nel 2011 e rispondono alle richieste pressanti dell’opinione pubblica statunitense ed europea, proponendo una riforma religiosa che blocchi l’estremismo. E dunque il terrorismo definito islamico.

Islam riformato
Da tempo, sia da Ryadh che soprattutto dal Cairo, sono stati lanciati messaggi preoccupanti e allo stesso tempo rassicuranti: la minaccia dell’autoproclamatosi “stato islamico” non è da sottovalutare ed è per questo che occorre incidere sull’educazione, sulla lettura dei sacri testi, sui programmi scolastici per evitare che i giovani vengano sviati e spinti verso l’estremismo.

Islam e sicurezza, in sostanza, debbono camminare assieme: anzi, è l’islam “riformato” che bloccherà il terrorismo, secondo una vulgata ormai diffusa.

Una lettura ripetuta anche - e non sembra un caso - in una conferenza di tre giorni della Lega Mondiale Musulmana tenutasi dal 22 febbraio alla Mecca, sotto l’egida della famiglia reale saudita. Protagonisti, appunto, studiosi e reali sauditi, assieme a Ahmed al-Tayeb, il grand imam della moschea di Al-Azhar al Cairo, la più prestigiosa istituzione culturale della tradizione sunnita.

Al-Sisi il nuovo Lutero?
Ora, la questione sta proprio nella “riforma” o nella “rivoluzione” religiosa che sarebbe già in corso nella regione araba, guidata da colui che è stato già definito come il Martin Lutero dell’Islam, il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi.

Un uomo che, in se stesso, dovrebbe mettere assieme due ruoli: il campione di un Islam moderato, pio e non violento, e allo stesso tempo il difensore in armi della civiltà contro lo “stato islamico”. Il Corano in una mano, e la spada nell’altra, stavolta - però - al servizio della civiltà.

È questa la realtà? Può Al-Sisi rappresentare veramente una riforma nell’interpretazione dei sacri testi tale da tagliare l’erba sotto i piedi del radicalismo retrivo del Califfato? I dubbi ci sono e non sono pochi.

Robert Springborg, uno dei più importanti studiosi dell'Egitto contemporaneo, aveva già anticipato nel maggio del 2014 quale sarebbe stato il nodo della presidenza di Abdel Fattah al-Sisi: il modo in cui avrebbe utilizzato la religione. "Al-Sisi si appoggerà molto di più sull'islam per legittimare il suo regime autocratico - scriveva Springborg in un articolo comparso su Foreign Affairs -, più di quanto abbia fatto credere agli osservatori egiziani e stranieri".

Così è stato. Al-Sisi ha subito indicato la cifra politica del regime egiziano (ri)nato con il coup del 3 luglio 2013, laddove il controllo del consenso e del conformismo religioso è parte integrante della strategia che ridisegna e consolida il sistema istituzionale ed economico di questo ultimo capitolo della repubblica egiziana.

Sulla scia dei presidenti che lo hanno preceduto, anche Al-Sisi ha infatti di nuovo contenuto Al-Azhar entro i limiti definiti già ai tempi di Gamal Abdel Nasser. È ancora oggi lo Stato a decidere chi guida Al-Azhar, ma artefice principale del rinnovato peso del centro sunnita nel periodo postrivoluzionario è proprio Al Tayyeb.

Al-Azhar e la nazionalizzazione dell’Islam
Abile nel conservare ad Al-Azhar l'abito della terzietà e nel controllare le spinte interne differenti dal suo sostanziale centrismo, Al-Tayyeb è stato sin da subito uno dei grandi sostenitori di Al-Sisi e ha consolidato Al-Azhar come lo strumento principe per la "nazionalizzazione" dell'Islam.

Di questa nazionalizzazione fanno parte diverse azioni intraprese da Al-Azhar e dagli organismi competenti dentro la macchina burocratica, prima fra tutte la stretta sugli imam, per rendere capillare il controllo della predicazione e diminuire il peso della Fratellanza musulmana.

Si tratta, in fondo, di una strategia che è tradizionale, nella storia repubblicana dell'Egitto. Il cambiamento sta, semmai, nella religiosità di Al-Sisi.

Proveniente da uno dei quartieri più importanti del Cairo, dal punto di vista della religiosità popolare, Al Sisi è portatore di un islam conservatore, più che moderato. E, molto di più dei suoi predecessori, non separa Cesare da Dio. Al contrario, intende dare a Cesare una funzione di guida - si passi il termine - teologica, che serva il raggiungimento di due obiettivi.

Uno interno, e cioè il controllo del consenso al regime attraverso l'incensamento della religiosità conservatrice della maggioranza silenziosa. Uno esterno: la costruzione dell'immagine di Al-Sisi come del Martin Lutero dell'islam sunnita.

Già sostenuta dalla macchina mediatica dei settori di destra statunitensi ed europei, questa idea serve a un paese che si attrezza a essere non solo l'avamposto contro l’autoproclamatosi “stato islamico” e i radicalismi violenti e armati, ma anche il difensore di una stabilità finanziata dalle potenze regionali del Golfo. Proprio quelle potenze regionali in cui vige una lettura tradizionalista, conservatrice e antiprogressista dell’Islam.

Paola Caridi è analista e scrittrice, autrice di “Gerusalemme senza Dio. Ritratto di una città crudele” (Feltrinelli 2013)
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venerdì 13 marzo 2015

Egitto: manca il potere legislativo

Sentenza della Corte del Cairo
Elezioni rinviate, Egitto ancora senza Parlamento
Azzurra Meringolo
07/03/2015
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Da due anni privo di Parlamento, l’Egitto rischia di restare senza potere legislativo ancora per un po’. Le elezioni che avrebbero dovuto eleggere il Parlamento, previste per marzo, sono infatti destinate a slittare.

Questo è quanto ha confermato la Corte amministrativa del Cairo, con una decisione che non lascia presagire strade alternative.

Definendo come incostituzionale l’articolo 3 della legge sulla divisione delle circoscrizioni, la Corte ha di fatto bocciato il regolamento elettorale che doveva essere usato per il terzo e ultimo passaggio della road map indicata nel luglio 2013 dai militari, dopo la deposizione del presidente islamista Mohammed Morsi.

Tempi incerti sul rinvio
Impegnandosi a rispettare le sentenze della Corte, la commissione elettorale, che già da mesi era al lavoro per organizzare le imminenti elezioni, si è pubblicamente impegnata a obbedire alla magistratura, mostrandosi pronta a riprendere in mano in calendario per decidere una nuova data.

Analoga la posizione del presidente Abdel Fattah al-Sisi, che in un comunicato ha però premuto il piede sull’acceleratore, chiedendo al governo di apportare gli emendamenti necessari nel giro di massimo un mese.

Su queste tempistiche restano però dubbi. Basteranno trenta giorni per mettere la pezza a un testo che è stato attaccato sin dalla sua genesi o serviranno - come si vocifera - almeno sei mesi?

Quando lo scorso anno la legge era stata approvata per decreto, numerose voci vi si erano opposte, puntando il dito soprattutto contro il sistema di ditribuzione dei seggi. Queste critiche erano confluite in tre ricorsi presentati davanti alla Corte costituzionale.

Il primo metteva in dubbio la costituzionalità della legge sui diritti politici, il secondo quella del regolamento per le elezioni parlamentari e l’ultimo - l’unico accolto dalla Corte - si concentrava sulla legge che definiva le circoscrizioni.

Così come è scritta, la norma bocciata non garantirebbe infatti agli elettori delle diverse circoscrizioni un’equa rappresentanza: è l’aspetto che ha messo la legge in contraddizione con l’articolo 102 della Costituzione, posto a tutela di questo basilare principio.

Il potere legislativo nelle mani di Al-Sisi
L’Egitto dovrà quindi aspettare un altro po’ prima di eleggere il suo organo legislativo, praticamente inesistente dal gennaio 2011.

Dopo la caduta di Hosni Mubarak, il Consiglio Supremo delle Forze Armate decise infatti di sciogliere il Parlamento.

Una nuova assemblea è stato poi eletta tra la fine del 2011 e l’inizio del 2012, ma nel giugno del 2012 la Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionale il regolamento elettorale con il quale si erano svolte le elezioni parlamentari, dissolvendo di fatto la Camera bassa e lasciando a quella Alta il compito di redigere un nuovo testo.

Da allora in Egitto a legiferare è stato esclusivamente il potere esecutivo, che si è servito dello strumento del decreto per arrivare anche alla stesura della nuova legge elettorale. A firmarla è stato Adly Al-Mansour, il presidente ad interim che ha traghettato l’Egitto nelle mani di Al-Sisi.

Come ben dimostrato da un progetto di monitoraggio del Tahrir Institute for Middle East Policy, da quando è diventato capo dello Stato, l’ex generale esercita non solo il potere esecutivo - come previsto dal suo mandato - ma anche quello legislativo, che è ancora formalmente nella mani di nessuno.

Questo spinge alcuni analisti a guardare con sospetto anche la recente sentenza sul rinvio delle consultazioni. Posticipando ulteriormente il giorno in cui Al-Sisi dovrà confrontarsi con il potere dell’Assemblea legislativa, la magistratura finirebbe per fare il gioco del presidente.

Se da una parte è però chiaro che la sentenza della Corte non pone limiti precisi al ruolo di Al-Sisi, dall’altra è anche evidente che il pronunciamento della Corte rischia di mettere i bastoni tra le ruote al progetto di lifting cosmetico che da mesi il “nuovo” regime porta avanti, facendo il possibile per mostrare al mondo intero il suo volto democratico.

Il rispetto delle tempistiche della road map è stato infatti un pilastro della retorica che ha accompagnato Al-Sisi in tutti i suoi incontri internazionali, l’amo che il presidente ha più volte gettato per convincere molti leader occidentali a partecipare all’imminente conferenza di Sharm El-Sheikh per la ripresa economica dell’Egitto.

Per evitare di perdere credibilità, il regime dirà ora che il rispetto della sentenza di domenica da parte delle autorità in carica mostra che la magistratura egiziana è un potere realmente indipendente - cosa molto discutibile visti i continui verdetti che colpiscono l’opposizione al “nuovo” regime militare.

Retorica a parte, nei fatti il risultato non cambia. Se prima della sentenza di domenica il rischio era la creazione di un Parlamento acquiescente che si limitava a timbrare e avallare le decisioni del raìs, ora che nessun legislativo sarà eletto continuerà a mancare un formale contrappeso all’esecutivo.

Corsi e ricorsi storici nella giurisprudenza egiziana
Nulla di nuovo, se si osserva la sentenza in un’ottica storica. Questa è infatti in linea con il corso seguito dalla giurisprudenza egiziana.

Pur con tempistiche molto più dilatate, già nel 1987 la Corte Costituzionale aveva sciolto con motivazioni simili il Parlamento eletto nel 1984, e nel 1990 quello insediatosi nel 1987.

Lasciando ampi margini discrezionali al presidente della Repubblica per sciogliere il Parlamento, anche l’ultima Costituzione segue questo sentiero. I costituenti che hanno redatto l’ultimo testo hanno infatti fatto il possibile per mantenere in piedi un sistema politico che, sin dagli anni ’50, si basa sulla supremazia del presidente. Ieri come oggi, le redini del potere politico sono nelle sue mani.

Visti nel loro complesso, gli eventi più recenti immortalano un Egitto privo di una genuina volontà politica per realizzare i cambiamenti auspicati da più parti. Un paese dove manca un progetto reale per intraprendere le riforme che sarebbero necessarie per evitare un semplice ritorno al passato.

Azzurra Meringolo è ricercatrice presso lo IAI e caporedattrice di Affarinternazionali. Coordinatrice scientifica di Arab Media Report. Potete seguirla sul suo blog e su twitter a @ragazzitahrir.
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lunedì 2 marzo 2015

Libia: la pressione dei Paesi del Golfo

Medio Oriente
Guerra per procura egiziana in Libia
Azzurra Meringolo
26/02/2015
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Niente da fare. Neanche il Marocco riuscirà a ospitare l’ennesimo disperato tentativo di dialogo nazionale sponsorizzato dalle Nazioni Unite.

Il parlamento di Tobruk - l’assemblea libica riconosciuta dalla comunità internazionale, ma non dal Congresso Generale Nazionale (Cgn) di Tripoli - ha infatti annunciato che boicotterà i tavoli negoziali.

Se le due tutt’altro che compatte fazioni interne alla Libia non riescono a discutere una eventuale soluzione politica della crisi, neanche gli attori esterni implicati nella faccenda concordano nel pensare che la creazione di un governo di unità nazionale sia la prima condizione necessaria - anche se magari non sufficiente - per evitare che la Libia cada nel baratro della somalizzazione.

Soluzione politica per Algeria, Tunisia, Turchia e Qatar
A sostenere l’opzione politica sono in primis Algeria e Tunisia. Soprattutto la prima vuole infatti contenere l’interventismo dei paesi del Golfo, pronti ad affiancarsi all’Egitto in una guerra per procura. Non tutti sono di questo avviso, però. Il Qatar, da anni il battitore libero della regione, sembra infatti più allineato alla Turchia.

Del resto, sono anni che Doha e Ankara fanno coppia fissa quando si tratta di sostenere e difendere quell’Islam politico che in Libia è rappresentato dal Cgn di Tripoli.

Secondo alcune fonti, piuttosto che intervenire militarmente a sostegno della loro fazione preferita, entrambe le capitali sarebbero pronte ad appoggiare un accordo politico. Questa mossa non è piaciuta alle autorità di Tobruk, che hanno deciso di negare alle società turche la possibilità di operare in Libia.

Tandem Haftar-Al Sisi
I più interventisti sembrano Egitto ed Emirati Arabi Uniti, già accusati, lo scorso agosto, di aver lavorato di sponda per condurre raid aerei nei dintorni di Tripoli. Anche se entrambi hanno negato quanto sostenuto da funzionari statunitensi, bombardamenti simili sono stati segnalati anche nelle settimane successive.

La settimana scorsa, il Cairo - che non ha mai smesso di dare assistenza militare alle autorità di Tobruk - è infine uscito allo scoperto. Con un intervento armato - prima aereo e poi terrestre -, l’Egitto ha reso pubblica una volta per tutte la guerra per procura che combatte in Libia da almeno un anno.

Già a inizio 2014, infatti, si parlava di elementi dei servizi segreti egiziani in Cirenaica, dettaglio che faceva capire che il presidente egiziano Abdel Fattah Al-Sisi avrebbe potuto trovare nella parte orientale della Libia lo scenario dove mostrare i suoi muscoli.

Del resto erano mesi che, non disdegnando l’opzione di un’annessione della Libia orientale, l’Egitto continuava a inviare poche ma costanti armi a Khalifa Haftar, il generale libico a capo delle milizie anti-islamiste.

Coordinandosi con lui, il “nuovo” regime egiziano ha così esteso oltre i suoi confini la guerra ai suoi più acerrimi nemici interni, quei Fratelli Musulmani che nell’estate 2013 sono forzatamente usciti di scena, grazie all’intervento dell’esercito egiziano.

Interventismo egiziano
Dopo aver sollecitato - invano- al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite un’azione militare, il Cairo ha chiesto di eliminare l’embargo contro le forniture di armi a qualsiasi soggetto libico per permettere alle autorità di Tobruk di armarsi ulteriormente. Anche questa proposta è però rimasta tale.

Anche se il video dei 21 copti egiziani giustiziati dalle forze dell’autoproclamatosi “stato islamico” hanno servito ad Al-Sisi il casus belli per l’intervento armato in Cirenaica, resta ora da vedere fino a che punto si estenderà la sua campagna di Libia.

Sul fronte internazionale, l’attivismo di Al-Sisi potrebbe dare al presidente egiziano un ruolo ancora più centrale nella lotta internazionale contro il “califfato”, aiutandolo a ergersi come il Martin Lutero arabo che combatte il fanatismo religioso ora alla ribalta.

Sul fronte interno,vendicando il sangue egiziano, Al-Sisi potrebbe poi guadagnare consenso in un momento cruciale del suo mandato, quando la sua agenda politica rischia di essere messa in stallo dalle sempre più diffuse critiche di violazione dei diritti umani.

Ma a queste opportunità politiche si affiancano delle sfide. L’interventismo egiziano mette a nudo anzitutto le principali spine nel fianco del governo del Cairo: il Sinai e il confine libico, zone porose che continuano a minacciare la sicurezza nazionale.

L’Egitto, infine, non sembra in grado, da solo, di ricostruire il puzzle libico, evitando il collasso dell’ex patria di Gheddafi. L’interventismo di Al-Sisi sembra un passo più lungo della gamba destinato a fallire. In tal caso, le ripercussioni lungo il Nilo e dentro i ranghi militari non sarebbero poche.

Azzurra Meringolo è ricercatrice presso lo IAI e caporedattrice di Affarinternazionali. Coordinatrice scientifica di Arab Media Report. Potete seguirla sul suo blog e su twitter a @ragazzitahrir.
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