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Metodo di Ricerca ed analisi adottato


Il medoto di ricerca ed analisi adottato è riportato suwww.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com

Vds. post in data 30 dicembre 2009 seguento il percorso:
Nota 1 - L'approccio concettuale alla ricerca. Il metodo adottato
Nota 2 - La parametrazione delle Capacità dello Stato
Nota 3 - Il Rapporto tra i fattori di squilibrio e le capacità delloStato
Nota 4 - Il Metodo di calcolo adottato

Per gli altri continenti si rifà riferimento al medesimo blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com per la spiegazione del metodo di ricerca.

lunedì 18 aprile 2016

Un continente Irrequieto

Terrorismo
Africa, Al Qaeda contro Isis
Rossella Marangio
03/05/2016
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Il proliferare di gruppi terroristici di matrice islamica costituisce una delle maggiori preoccupazioni della comunità internazionale nel continente africano. Tuttavia, la natura del terrorismo in Africa e la moltiplicazione dei gruppi armati che utilizzano metodi di guerriglia ed atti terroristici suggerisce uno scenario molto più complesso di quello normalmente descritto.

Infatti, seppur più o meno connessi con reti terroristiche internazionali, i gruppi terroristici operanti nel continente sono spesso estremamente legati alle realtà locali in cui si formano ed operano, ed è in tale contesto che sviluppano la propria strategia, ed è in questa cornice che la risposta della comunità internazionale dovrebbe agire.

Fondamentalisti locali e reti globali
La maggioranza dei gruppi terroristici presenti in Africa si divide secondo la propria affiliazione alle maggiori reti internazionali che propugnano un ricorso al jihad: Al Qaeda e l’autoproclamatosi stato islamico. Tra gli affiliati ad Al Qaeda si distinguono notoriamente Aqim (Al Qaeda in the Islamic Maghreb), operante in Algeria, Mali, Senegal, Costa d’Avorio e Burkina Faso, i Murabitun in Mali, Ansar Al Sharia in Libia e Al-Shabaab, attivo soprattutto in Somalia e Kenya.

Tra gli affiliati al sedicente stato islamico, invece, si annoverano Boko Haram, operante principalmente in Nigeria, ma con tendenze a diffondersi nei paesi confinanti come Ciad e Camerun, e gruppi dell’Isis attivi in Libia, Tunisia ed Egitto.

Negli ultimi mesi, tutti questi gruppi hanno moltiplicato le loro azioni con significativi attacchi principalmente volti a colpire obiettivi civili, come gli hotel in Mali e Burkina Faso (Aqim), i resort in Egitto e Tunisia (Isis), ristoranti, centri commerciali, scuole in Somalia e Kenya (Al-Shabaab) o villaggi in Nigeria, Camerun e Ciad (Boko Haram).

La deriva preoccupante di questo intensificarsi degli attacchi è che una vera e propria competizione tra gruppi afferenti ad Al-Qaeda e allo stato islamico si sia messa in moto in Africa in una corsa alla propaganda basata sul numero e l’intensità degli attacchi.

Scontro fra jihadisti
Infatti, seppur incitando al jihad e propugnando il rispetto della sharia, le due reti internazionali sono di fatto in competizione per affermarsi come punto di riferimento del jihad e l’Africa è diventata lo scenario di questa guerra allo stesso tempo ideologica e materiale.

In tale competizione, un ruolo centrale è ricoperto dalla diversa concezione di controllo del territorio e territorialità che i due gruppi adottano e che, in Africa in particolare, è tutt’altro che secondaria.

Se gruppi affiliati ad Al Qaeda, infatti, non mirano realisticamente ad instaurare regimi alternativi, ma anzi si autoalimentano grazie al caos ed all’assenza di poteri e controllo, i gruppi affiliati allo stato islamico concepiscono la presa del territorio come uno dei nodi cruciali della propria azione.

Infatti, le strategie di Boko Haram o del gruppo stato islamico in Libia - che controllano direttamente porzioni di territorio e fanno spesso ricorso a rapimenti - differiscono notevolmente dagli attacchi più simili alla guerriglia tipici di gruppi affiliati ad Al Qaeda come Aqim.

Per tale differente concezione della territorialità, non sembra un caso che gruppi qaedisti si siano principalmente diffusi in aree tradizionalmente caratterizzate da popolazioni nomadi - come il Sahel e la Somalia (seppur Al Shabaab abbia marcati tratti nazionalistici) -, dove i confini sono necessariamente permeabili e traffici di ogni tipo alimentano anche il terrorismo.

La risposta internazionale
In risposta alla minaccia del terrorismo, l’intervento militare è stato il primo e tuttora il principale strumento messo in atto dalla comunità internazionale e da attori regionali.

Missioni con mandati di varia natura - dal contrasto del terrorismo al supporto più generale alla costruzione di capacità statuali - si sono diffuse sul territorio africano: tra le altre, Operation Serval (Francia), Afisma (Unione africana-Ecowas) e Minusma (Nazioni Unite) in Mali; Amisom (Unione africana) in Somalia; e la Multinational Joint Task Force contro Boko Haram in Nigeria.

Tuttavia, una risposta puramente militare al diffondersi di gruppi terroristi non sembra essere adeguata al fenomeno; anzi, in alcuni casi, potrebbe essere controproducente andando ad incrementare, anziché ridurre, il numero di potenziali combattenti, a causa della possibile commistione tra mancanza di opportunità e sentimenti di rivalsa verso ingerenze esterne.

Infatti, il terrorismo riesce ad alimentarsi anche grazie ad una serie di condizioni che rendono la militanza armata estremamente attraente. Tra queste condizioni, ci sono sicuramente la possibilità di avere introiti - in un contesto dove le opportunità economiche sono estremamente limitate - ed un sentimento di marginalizzazione all’interno della società che difficilmente può essere ribaltato.

Strategie diversificate
Nel lungo periodo, dunque, la necessità è quella di creare alternative concrete al terrorismo, in particolare per i giovani, e sostenere processi politici e di sviluppo che siano inclusivi e che tengano in conto le realtà locali, non da ultimo il ruolo che le comunità giocano in molte società africane nel determinare anche rapporti e scelte individuali.

Inoltre, le risposte al proliferare del terrorismo sul continente dovrebbero essere maggiormente diversificate, anche a seconda delle diverse strategie utilizzate dai gruppi terroristici.

Infatti, gruppi che mirano al controllo del territorio e gruppi che utilizzano maggiormente tecniche di guerriglia presentano caratteristiche e rivendicazioni diverse che devono essere adeguatamente prese in considerazione.

Infatti, se per entrambe le categorie è cruciale agire sui canali di finanziamento, un più efficiente controllo dei traffici di armi e dei canali di reclutamento, le rivendicazioni sono diverse e si dividono sommariamente in chi beneficia maggiormente dal caos tout court e chi mira a stabilire un ordine alternativo. Ed i processi politici - e non solo - che si occupano di queste questioni non possono trattarli allo stesso modo.

Rossella Marangio è dottoranda in Relazioni Internazionali nel programma ‘Politica, Diritti Umani e Sostenibilità” della Scuola Superiore Sant’Anna, Pisa. Precedentemente ha lavorato come assistente accademico al Collegio d’Europa ed ha svolto tirocini presso il Seae e la Rappresentanza Permanente d’Italia presso l’Ue. Ha una Laurea in Scienze Internazionali e Diplomatiche presso l’Università di Trieste ed un Master in Studi Europei Interdisciplinari presso il Collegio d’Europa.
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martedì 12 aprile 2016

Libia: la quarta sponda è diventata d'interesse

Medio Oriente
Stivali europei ai confini libici
Umberto Profazio
04/04/2016
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Parigi, Londra e anche Berlino. Da quando il mal di testa libico è tornato ad essere martellante tutti cercano di recuperare il terreno perso nei Paesi confinanti.

In primis in Tunisia, dove da tempo la Francia collabora nel settore dell’intelligence, fornendo informazioni e attuando un programma da 20 milioni di euro per equipaggiare l’esercito tunisino. Ora però, cerca anche di completare la cooperazione nel settore militare con un piano di aiuti economici di 1 miliardo di euro destinato a sviluppare le regioni più arretrate del Paese, ridurre la disoccupazione e rendere più efficiente l’apparato amministrativo.

Interesse britannico sulla Libia
Ma la Francia non è l’unica. Il governo britannico,ad esempio, si è contraddistinto per il suo attivismo nella regione. Nelle ultime settimane, vi sono state numerose indiscrezioni riguardanti il possibile invio di soldati inglesi in Tunisia per aiutare le autorità locali a contrastare l’intenso movimento transfrontaliero dei gruppi terroristici, in particolare lungo il confine con la Libia. Lo stesso ministro della Difesa Michael Fallon ha confermato a fine febbraio l’invio di un team di 20 consiglieri militari.

L’interesse britannico è rivolto soprattutto alla Libia. Nelle scorse settimane diverse fonti hanno sottolineato la possibilità per Londra di partecipare a una missione di addestramento del futuro esercito libico. Il Primo Ministro britannico David Cameron è stato recentemente convocato dalla Camera dei Comuni per rispondere alle indiscrezioni di stampa riguardo l’invio di mille soldati in Libia, parte di in una più ampia coalizione di almeno seimila uomini a guida italiana. Tuttavia lo stallo politico libico sembra aver momentaneamente congelato questa opzione, tra l’altro smentita dal governo inglese.

Inoltre anche la Gran Bretagna, come la Francia, sconta il negativo precedente del 2011: proprio di recente nella lunga intervista rilasciata a The Atlantic, il Presidente statunitense Barack Obama ha criticato le politiche inglesi nella regione, accusando il governo di David Cameron di essere distratto verso la Libia nel periodo successivo alla caduta di Gheddafi.

Berlino verso maggiori responsabilità
Un fatto inedito sembra rappresentato dalla notevole politica di penetrazione politico-economica portata avanti dalla Germania. L’interesse verso la Libia, ad esempio,è stato confermato dalla stampa tedesca che ha riferito delle numerose proposte di collaborazione nel settore militare. A fine febbraio una missione del Ministero degli esteri tedesco è giunta in Tunisia per discutere un eventuale programma di addestramento di cui potrebbe beneficiare anche il futuro esercito libico.

Il Ministro della Difesa tedesco Ursula von der Leyen è senza dubbio il principale esponente del nuovo corso tedesco. Già nel mese di gennaio in un’intervista al quotidiano Bild, von der Leyen non aveva smentito le voci riguardanti il possibile invio di soldati tedeschi in Libia. Secondo alcune stime la Germania sarebbe disposta a contribuire con 150-200 Bundeswehr a un’eventuale missione di addestramento delle forze armate libiche.

Al momento risulta difficile stabilire se la penetrazione di Berlino nell’area sia di tipo opportunistico o rifletta una politica più a lungo termine. A far pendere l’ago della bilancia verso quest’ultima ipotesi concorrono rilevanti accordi economici (la Volkswagen ha appena annunciato la costruzione di un impianto automobilistico in Algeria), importanti nomine diplomatiche (Martin Kobler, da novembre scorso a capo della Missione Onu per la Libia) e l’evoluzione della politica estera tedesca degli ultimi mesi.

Il flusso di armi ed equipaggiamenti che il governo di Angela Merkel sta inviando ai peshmerga curdi dal 2014 riflette la maggiore attenzione di Berlino verso le aree di crisi.

Tale posizione comporta di certo maggiori rischi, come evidenziato dalla chiusura temporanea dell’ambasciata tedesca a Ankara, del consolato di Istanbul e di due istituti scolastici in Turchia lo scorso 17 marzo.

La decisione del Ministero degli esteri tedesco è stata presa due giorni prima dell’attacco suicida di Istanbul, l’ennesimo che ha colpito la Turchia negli ultimi mesi. Lo scorso gennaio, 12 turisti tedeschi erano morti a seguito di un’esplosione sempre nella stessa città.

Tuttavia, i maggiori rischi non sembrano al momento frenare il rinnovato attivismo tedesco nella regione. Complice il fenomeno dell’autoproclamatosi stato islamico e la conseguente crisi dei rifugiati, Berlino sembra sempre più consapevole delle sue responsabilità di fronte all’Europa e più in generale in ambito internazionale.

Umberto Profazio è dottore di ricerca in Storia delle Relazioni Internazionali presso l’Università di Roma “Sapienza”, Maghreb Analyst per la NATO Defence College Foundation e Junior Researcher per il Centre for Geopolitics and Security in Realism studies. Il suo primo e-book “Lo Stato Islamico: origini e sviluppi”, è edito da e-muse.
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