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Metodo di Ricerca ed analisi adottato


Il medoto di ricerca ed analisi adottato è riportato suwww.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com

Vds. post in data 30 dicembre 2009 seguento il percorso:
Nota 1 - L'approccio concettuale alla ricerca. Il metodo adottato
Nota 2 - La parametrazione delle Capacità dello Stato
Nota 3 - Il Rapporto tra i fattori di squilibrio e le capacità delloStato
Nota 4 - Il Metodo di calcolo adottato

Per gli altri continenti si rifà riferimento al medesimo blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com per la spiegazione del metodo di ricerca.

giovedì 29 ottobre 2015

Egitto: il nuovo parlamento

L’Egitto normalizzato al voto parlamentare
Azzurra Meringolo
24/10/2015
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Da tre anni privo di legislativo, l’Egitto sta eleggendo il parlamento più grande della sua storia: 596 deputati, 124 in più rispetto alla vecchia assemblea.

Durante due tornate elettorali, quella terminata il 19 ottobre e quella che si terrà il 22-23 novembre, gli elettori sceglieranno tra i candidati individuali (448) e di lista (120), ai quali si sommeranno i 28 parlamentari nominati dal presidente Abdel Fattah al-Sisi.

Numeri a parte però, poche le novità che si attendono dalle urne. Con un risultato scontato, il dato più atteso è quello dell’affluenza.

Tutto questo nonostante la lunga attesa alla quale sono stati costretti gli egiziani, privati del loro organo legislativo praticamente dal gennaio 2011. In questo lasso di tempo, a legiferare è stato esclusivamente il potere esecutivo, che si è servito dello strumento del decreto.

Da quando è diventato capo dello Stato, Al-Sisi esercita non solo il potere esecutivo - come previsto dal suo mandato - ma anche quello legislativo, che è ancora formalmente nelle mani di nessuno. Ecco perché molti analisti si chiedono quanto l’ex-generale senta davvero il bisogno - immagine internazionale a parte - di un’assemblea con la quale confrontarsi.

Gattopardi dentro, Fratelli fuori
È comunque un parlamento per il quale competono soprattutto candidati individuali che provengono dai circoli del vecchio regime. Mubarak è stato deposto, la sede del suo partito bruciata dai rivoluzionari, ma quasi la metà dei candidati a queste elezioni ha per anni camminato nei corridoi del National Democratic Party, NDP.

E se si passa ad osservare le liste, il quadro non cambia di molto. Quella più accreditata, “For the Love of Egypt”, è composta soprattutto da vecchi ufficiali, rappresentanti dell’intelligence, ex-membri dell’NDP, giornalisti e intellettuali vicini ai militari e al presidente.

Ad affiancarli è la lista dell’“Egyptian Front” che insieme all’“Independence Current” candida altri ex membri dell’NDP più vicini all’ala di Ahmed Shafiq, ultimo premier di Mubarak.

Visto che la frastagliata opposizione di sinistra sta ancora valutando se boicottare o meno i seggi, gli unici avversari del “nuovo” regime sono i salafiti di Al-Nour che hanno invitato anche i copti a scendere in campo con loro, provocando l’ira e le critiche del capo della chiesa copta, Papa Tawadros.

Forte in alcune regioni storicamente più vicine agli islamisti, Al-Nour non potrà però contare sui voti degli ex-elettori della Fratellanza musulmana, i cugini che ha contribuito a fare uscire di scena - partecipando alle manifestazioni del luglio 2013, conclusesi con la deposizione del presidente islamista Mohammed Morsi.

I Fratelli musulmani sono nuovamente confinati, dal dicembre 2013, alla clandestinità ed esclusi dalla vita politica del paese, perché ritenuti un’organizzazione terroristica. Stanno ora cercando di riorganizzare la loro leadership sconvolta da retate, arresti e condanne di morte di massa (poche delle quali eseguite, ma pur sempre comminate in gran numero e in modo sommario).

La Fratellanza deve poi fare i conti con uno scontro interno che rischia di cambiare il carattere dell’organizzazione. Infatti, mentre quanti sono riusciti a scappare si sono rifugiati in Qatar e Turchia da dove cercano di coordinare la loro resistenza, chi è rimasto in Egitto non è disposto a cedere le redini del movimento che si è dovuto però riorganizzare, affrontando la necessità di agire nuovamente solo in modalità clandestina.

La Fratellanza Musulmana riorganizza la sua leadership
All’interno del paese, la riorganizzazione della leadership è passata attraverso un processo di consultazione interno che ha portato all’elezione, nel febbraio 2014, di una commissione per la gestione della crisi.

Anche se Mohammed Badie - guida suprema del movimento, condannato a morte e in prigione dal 2013 - è stato confermato leader spirituale, i militanti hanno eletto anche il vertice di quella che chiamano la “commissione per la gestione della crisi”. L’organo è coadiuvato da un segretario incaricato di supervisionare le questioni prettamente organizzative e da un ufficio per gestire gli affari esteri della Fratellanza.

Secondo Georges Fahmy, ricercatore egiziano presso il Carnegie Middle East Center di Beirut, con queste nuove elezioni si sarebbe sostituito il 65% della leadership. Il 90% di queste new entry sarebbero giovani, ovvero quei quarantenni che solo tre anni fa la vecchia leadership considerava troppo freschi per far parte dell’esecutivo del movimento.

Questo cambiamento ha avuto un riflesso immediato sulla tattica politica della Confraternita. Ritenendo fallimentare la gestione dei loro predecessori, sembra che i più giovani non si facciano scrupoli a tornare alla lotta armata, caratteristica della Fratellanza dei primi decenni. Per ora l’obiettivo sembra quello di farne un uso limitato, ricorrendovi solo per operazioni che mirano a colpire il regime, ma non nei confronti di civili.

Anche questo approccio sembra però ora essere messo in discussione da un recente comunicato ai media, inviato dagli organi di comunicazione della Fratellanza stessa, che è critico nei confronti dell’attuale gestione.

Secondo quanto scritto in questo messaggio, sulla cui autenticità si è aperto un dibattito che ha coinvolto Fratelli egiziani, londinesi, qaterini e turchi, la Confraternita dovrebbe rivedere la sua tattica, pensando magari di partecipare alla competizione politica in base a qualche forma di accordo con gli altri partiti ammessi.

Apatia popolare attorno al voto
Per il momento però, la principale forza di opposizione al regime non ci sarà e questo renderà le prossime elezioni prive di una vera competizione. A partecipare, e quindi anche a vincere, saranno soprattutto candidati collusi con il vecchio regime e con una buona disponibilità economica che ha permesso loro di condurre una campagna elettorale, per quanto blanda.

A mostrarlo sono anche i numeri dei candidati. Se nel 2011, all’indomani della rivoluzione, a competere erano state oltre 10.000 persone, ora che i seggi da riempire sono ancora di più, i candidati individuali sono circa 5.400, pochi di più rispetto ai 5.100 del 2005 (una delle elezioni più nere dell’epoca di Mubarak).

Ed è possibile che questo scarso entusiasmo si rifletta anche sulla partecipazione elettorale. Una fetta della popolazione non troverà i suoi candidati, e d’altra parte quanti sostengono il regime sanno che questo trionferà anche senza il loro voto. Tutto ciò potrebbe quindi influire sull’unica vera variabile ancora incerta del voto, cioè il tasso di affluenza alle urne.

Per il resto ci prepariamo a un quadro già visto: elezioni non realmente competitive, dove a giocarsela saranno solo quanti ne hanno la possibilità - politica ed economica. A cui seguirà la nascita di un parlamento acquiescente. È per questo che Al-Sisi non sembra troppo preoccupato di vedere limitato il suo potere da un legislativo che molto probabilmente si limiterà a timbrare e avallare le sue decisioni.

Azzurra Meringolo è ricercatrice dello IAI. Coordinatrice scientifica di Arab Media Report. Potete seguirla sul suo blog e su twitter a @ragazzitahrir. Questo articolo è stato pubblicato su Aspeniaonline.
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lunedì 19 ottobre 2015

LIBIA: l'impegno di tre flotte per l'immigrazione

Lotta al traffico di uomini
Eunavfor Med guarda alla Libia
Alessandro Ungaro
15/10/2015
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La seconda fase di Eunavfor Med è ufficialmente iniziata. Lanciata il 22 giugno scorso e ribattezzata Sophia (dal nome della bambina nata su una nave militare lo scorso agosto durante una delle missioni di ricerca e soccorso a largo delle coste libiche) è “un’operazione di law enforcement attuata tramite mezzi militari”.
Fonte: Marina Militare

Il suo obiettivo è di interdire il network delle reti criminali associato al traffico e sfruttamento di migranti attraverso il Mediterraneo e ridurre il flusso migratorio via mare in conformità al diritto internazionale applicabile.

Essa dovrebbe concludersi entro 12 mesi a partire dalla piena capacità operativa (Full Operational Capability, Foc) conseguita il 27 luglio; questo non esclude tuttavia una sua estensione, come accaduto altresì per altre missioni navali, ad esempio Atalanta.

Il controllo politico della missione è nelle mani del Comitato politico e di sicurezza (Cops) dell’Ue mentre il quello operativo è affidato all’European Operational Headquarter (IT EU-Ohq) presso la sede del Comando Operativo di vertice Interforze (Coi) a Roma guidato dall’Ammiraglio Credendino che proprio l’8 ottobre, all’indomani dell’inizio della seconda fase, ha tenuto una prima audizione al Parlamento per fare il punto sugli ultimi sviluppi.

Da fase 1 a fase 2…guardando la Libia
Dopo la prima fase di raccolta e analisi di informazioni e intelligence, valutata positivamente dal Consiglio dell’Ue lo scorso settembre, si è passati alla seconda, certamente più muscolare e robusta.

Questa, denominata “fase 2 alpha”, prevede la possibilità di procedere a fermi, ispezioni, sequestri e dirottamenti in alto mare di imbarcazioni sospettate di essere usate per il traffico e la tratta di esseri umani.

Al momento è pertanto escluso che il dispositivo aeronavale possa operare nelle acque territoriali libiche (“fase 2 bravo”), a meno di una risoluzione Onu e di una richiesta esplicita di un eventuale governo libico.

In modo analogo, anche la terza fase - che si configura come quella più “cinetica” in termini militari - richiederebbe gli stessi presupposti giuridici e, sul piano militare, una collaborazione con gli stessi libici.

Il passaggio da una fase all’altra è proposto dal Comando Operativo dopo aver valutato la situazione in mare. Nella fattispecie, il passaggio dalla fase 1 alla fase 2 è stato approvato sulla base delle informazioni che dimostravano -con prove alla mano - l’attività illegale degli scafisti nella tratta e nel traffico di essere umani nell’arco dei 108 giorni di operazioni di Eunavfor Med.

Il contributo dell’Italia e degli altri Paesi europei
Insieme all’Italia, altri 21 Paesi contribuiscono sulla carta e in diversa misura all’operazione, sia in termini finanziari, sia fornendo assetti e/o personale militare.

A luglio 2015 erano 14 le nazioni che avevano concretizzato la loro volontà di partecipare alla missione fornendo personale per lo staff del quartier generale o contribuendo al dispositivo aeronavale.

Al momento, l’operazione può contare su 13 assetti, sette unità navali e sei tra velivoli e elicotteri, come il Falcon 50 della Marina francese o l’EH-101 di Marina italiana: la portaerei italiana Cavour - già operativa dalla prima fase dell’operazione - è la nave comando (flagship) della missione, supportata da una fregata e un rifornitore tedeschi, da una nave ausiliaria britannica e da tre ulteriori fregate messe a disposizione da Francia, Belgio e Spagna.

Per quanto riguarda il bilancio della missione, l’Unione europea ha stanziato quasi 12 milioni di euro per coprire, nel corso dei primi 12 mesi dal conseguimento della Foc, le spese comuni dell’operazione attraverso il meccanismo Athena.

A questi si aggiungono gli stanziamenti dei singoli Paesi che coprono i rispettivi costi associati al contributo nazionale. L’Italia, ad esempio, il 30 luglio 2015 ha approvato il decreto legge n. 99 che autorizza la partecipazione del Paese alla missione navale stanziando 26 milioni di euro, reperiti dal fondo missioni per 19 milioni e di rimborsi Onu per 7 milioni, per la partecipazione di 1.020 unità di personale militare e per l’impiego di mezzi aeronavali.

Mare Sicuro, Triton e Eunavfor Med
Attualmente le principali operazioni in corso nel Mediterraneo sono Mare Sicuro, Triton e - appunto - Eunavfor Med. Sebbene le rispettive aree operative siano in parte sovrapposte, tutti e tre i dispositivi interagiscono attraverso uno stretto scambio di informazioni e di personale con l’obiettivo di mantenere le attività delle navi impegnate nelle differenti missioni nell’ambio dei rispettivi mandati.

Questo è vero soprattutto per Mare Sicuro ed Eunavfor Med che potrebbero, a prima vista, sembrare due operazioni molti simili, soprattutto ora che il dispositivo europeo è entrato nella seconda fase.

Tuttavia è bene ricordare che Mare Sicuro è un’operazione italiana a tutela degli interessi nazionali (come ad esempio il presidio delle zone di pesca e la protezione delle piattaforme energetiche off-shore), mentre Eunavfor Med è innanzitutto un’iniziativa europea il cui mandato è ben limitato e circoscritto.

Questo non esula però le unità appartenenti a tutti e tre i dispositivi di eseguire missioni Sar (Search and Rescue) in caso di necessità. Non a caso, anche gli assetti di Eunavfor Med sono stati più volte coinvolti in attività di ricerca e soccorso, contribuendo al salvataggio di oltre tremila migranti.

Alessandro R. Ungaro è ricercatore del Programma Sicurezza e Difesa dello IAI (Twitter: @AleRUnga).
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mercoledì 14 ottobre 2015

Libia: verso una soluzione?

Medio Oriente
Il fattore Hiftar sulla crisi libica
Roberto Aliboni
07/10/2015
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In Libia il generale Khalifa Hiftar ha fatto fermare due volte il premier Abdallaal-Thinni all’aeroporto di Labraq (Beida) costringendolo a scendere dall’aereo e impedendogli di partire. Non si sa perché. Non è la prima volta che il capo del governo di Tobruk subisce le costrizioni del comandante supremo della Forza Nazionale Libica.

All’inizio di febbraio di quest’anno, mentre il negoziatore Onu Bernardino Léon conduceva a Ginevra i colloqui che avrebbero fatto emergere l’ala moderata di Misurata, Hiftar impedì ad al-Thinni di recarsi a Bengasi per una sua visita ufficiale alla popolazione, con la scusa che non era stato autorizzato dal capo delle Forze Armate, che in Libia non è il capo del governo bensì il presidente della Camera.

Questo dà un’idea di quale ipoteca sovrasta la possibile evoluzione di una soluzione politica nel paese ora che Léon è uscito di scena.

L’accordo raggiunto da Léon
Come è stato detto in un precedente articolo, Léon è uscito lasciando alle parti un bozza di accordo: i rappresentanti dovrebbero riunirsi e intendersi su chi concretamente deve ricoprire le massime cariche esecutive del Governo di Concordia Nazionale.

Una volta accordatisi, dovrebbero votare o respingere il testo. I tempi sono stretti perché la Camera dei Rappresentanti scade alla fine di ottobre. Ciò che più rileva, tuttavia, è che, anche laddove si trovasse un consenso sui nomi, non c’è intesa da parte dei rappresentanti di Tripoli su aspetti fondamentali della bozza come il ruolo del “Senato” e, soprattutto, su Hiftar, in odio non solo a Tripoli ma anche fra molti dei rappresentanti di Tobruk.

Visti i comportamenti non precisamente costituzionali di Hiftar in Cirenaica e al tempo stesso il suo furioso sforzo in corso di sgombrare gli islamisti da Bengasi per sbandierare la vittoria militare sotto il naso degli islamisti di Tripoli (e vanificare quindi ogni possibilità di intesa politica) il dissenso su Hiftar non è un ostacolo secondario. Il rischio è che la situazione trascenda e invece che alla vigilia di un accordo ci si potrebbe trovare in un rinnovato contesto di aspro scontro.

Autorevoli commenti (Frederic Wherey sul New York Times e Karim Mezran su Atlantic Council) accennano a Hiftar come il possibile ritorno di un altro “Gheddafi”, in sostanza di un altro uomo forte.

Se ciò accadesse, sarebbe in Cirenaica. Ha ragione Mezran a evocare a questo proposito l’attuazione del lungamente paventato scenario di una partizione della Libia: almeno in una prima fase, non potrebbe essere l’uomo forte dell’intera Libia ma della Cirenaica sì - dove del resto ha molti alleati - e come tale riceverebbe subito l’appoggio del presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi.

In realtà, la diplomazia egiziana di recente si è messa a sostenere l’accordo proposto da Léon. Tuttavia, di fronte a un pronunciamento di Hiftar in Cirenaica non sarebbe certo il Cairo a preoccuparsene, data la sua posizione generale circa gli islamisti e la rilevanza che ha la Cirenaica per la sicurezza dell’Egitto.

Se la Russia intervenisse in Libia
Mezran evoca anche la possibilità di un intervento russo a favore di Hiftar e contro Isis e islamisti. Le affinità e le motivazioni non mancano di certo. Si può ritenere che i russi sono adesso impegnatissimi in Siria (oltre che in Ucraina), ma in fondo basterebbe loro di inviare pochi uomini e qualche aereo per mettere anche sulla Libia il loro cappello.

Si può anche obiettare che un tale allargamento dell’impegno russo nel mondo arabo comprometterebbe i difficili ma insistenti tentativi che la diplomazia di Putin sta compiendo per allargare le relazioni russe nella regione anche ai sunniti.

Hiftar, ostacolo alla pacificazione
Le implicazioni regionali e internazionali di Hiftar come “rais” della Libia sarebbero comunque forti. Uno dei motivi per cui la mediazione di Léon non ha ottenuto un successo più saldo sta nel fatto che i paesi occidentali hanno appoggiato la mediazione Onu, ma non hanno fatto nulla per togliere di mezzo un fattore, come Hiftar, che ha costituito sulla strada di quella mediazione e continua a costituire oggi un ostacolo di prima grandezza versola pacificazione della Libia.

Quello che gli occidentali non hanno fatto finora, c’è forse modo di farlo adesso, perché la catena di sviluppi immaginata da Mezran (la presa del potere assoluto in Cirenaica, il ritorno di fiamma della guerra civile in Libia, e un possibile intervento dei russi) può apparire così poco plausibile in realtà, ma non è così improbabile.

Se questi sviluppi si verificassero, non sarebbe molto positivo per l’Occidente, che con gli eventi in Siria dopo l’intervento russo appare molto smarrito e non sa che pesci pigliare.

Meglio rendere in qualche modo innocuo Hiftar perché, anche al di là dei possibili sviluppi di cui abbiamo appena parlato, è gran tempo che lo si doveva fare e farlo ora sarebbe particolarmente utile.

Roberto Aliboni è consigliere scientifico dello IAI.
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venerdì 9 ottobre 2015

Africa: nuvo atteggiamento dell'Italia

Cooperazione internazionale
Cooperazione italiana, è giunta l’ora della ribalta
Emilio Ciarlo
02/10/2015
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Il discorso di Matteo Renzi davanti all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, in occasione peraltro dell’approvazione dei nuovi 17 Obiettivi dello Sviluppo Sostenibile, è stato emblematico della nuova cifra della cooperazione italiana come chiave politica di posizionamento dell’Italia nella comunità internazionale.

L’obiettivo del futuro della cooperazione internazionale è infatti andare oltre l’aiuto per essere ancora più efficaci e raggiungere l’obiettivo dello sviluppo e della promozione umana.

Non si tratta di sottovalutare quanto bisogno di sostegno e assistenza materiale vi sia ancora in molti Paesi, ma di far evolvere le Agenzie nazionali e internazionali di cooperazione, così da adeguarle al nuovo scenario economico e geopolitico che abbiamo dinanzi.

Meno i paesi poveri, ma più i fragili
Abbiamo di fronte un nuovo panorama di Paesi emergenti in cui si riducono quelli poverissimi (scesi secondo la Banca Mondiale da oltre 60 a 34) ma aumentano i “paesi fragili” (36 secondo l’Ocse), il cui sviluppo economico è azzoppato da conflitti, debolezze istituzionali, insufficienze delle reti sociali e imprenditoriali.

Si calcola un gap di infrastrutture per il quale sarebbero necessari 8oo miliardi di dollari l’anno in Asia e quasi 100 miliardi in Africa. Uno scenario in cui si studiano nuovi strumenti di intervento: la finanza sociale per lo sviluppo, il ricorso intensivo e diffuso all’information technology, il contributo del privato e l’insistenza sul trasferimento di know how industriale.

Su tutto, la consapevolezza che i temi della povertà e della sostenibilità si affronteranno con scelte politiche di fondo (dalla tracciabilità dei “minerali da conflitto” alle regole del commercio internazionale) e non semplicemente con il trasferimento di denaro e aiuto.

Ecco perché il dibattito sulla cooperazione deve essere affrontato toccando temi nuovi, coinvolgendo nuove professionalità, con un approccio più agile e trasversale rispetto a quello fino ad ora adottato in questo campo.

Riforma della cooperazione italiana
Non c’è riunione, vertice o incontro in cui il Presidente del Consiglio, Matteo Renzi, non citi la riforma della nostra cooperazione con orgoglio e non indichi con ambizione il traguardo storico di “indossare entro il 2017 la maglietta numero 4” tra i donatori nel club esclusivo del G7. Parliamo di circa un miliardo e mezzo di dollari di nuove risorse da destinare alla cooperazione.

Soldi ben spesi per il Governo non solo perché aiuteranno la stabilizzazione di aree di conflitto, lo sradicamento della povertà e il contrasto al cambiamento climatico, riducendo così la pressione migratoria, ma anche perché garantiranno un ritorno politico per il Paese, per il suo standing internazionale e, non ultimo, stimoleranno una forma di “internazionalizzazione per lo sviluppo” necessaria alle nostre imprese.

Parlando all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, Renzi è partito dall’orgogliosa rivendicazione dell’impegno del Paese per salvare migliaia di vite umane nel Mediterraneo e dallo sforzo di convincere l’Europa a una politica solidale e aperta verso il dramma dei profughi, per spaziare al tema dello sviluppo sostenibile in agenda a dicembre a Parigi, alla sostegno alla moratoria contro la pena di morte fino alla rivendicazione dell’obiettivo di divenire donatore virtuoso nell’aiuto allo sviluppo.

Il tutto con il disegno strategico di ridefinire lo standing internazionale del Paese a partire da queste battaglie e in vista della elezione in Consiglio di Sicurezza del prossimo anno dove ce la dovremmo vedere con Svezia e Olanda, Paesi maestri nell’utilizzare questo tipo di strumenti di “soft power”.

Nuova Agenzia italiana per la cooperazione
In questo nuovo contesto internazionale ma anche sulla scorta di questo inedito impulso politico volto a rafforzare il protagonismo internazionale dell’Italia, saranno importanti i primi passi della neonata Agenzia italiana per la cooperazione, un attore chiave della riforma, all’incrocio tra Farnesina, Palazzo Chigi, il tessuto prezioso della solidarietà internazionale e il mondo del profit responsabile.

Un’Agenzia che deve essere moderna, digitale, trasparente e innovativa, mantenere un rapporto più che virtuoso tra volume di aiuti gestiti e costi, deve diventare partner di Cassa Depositi e Prestiti sui temi della finanza per lo sviluppo e della partnership con il privato ma deve anche essere capace di ridare risorse ai progetti della società civile, della cooperazione popolare e di quella territoriale.

È ora di far uscire la cooperazione dall’angolo in cui per anni l’abbiamo relegata, di riconoscerle il ruolo politico centrale che deve avere nella nostra politica estera, un politica estera che si sta trasformandosi in “global politics”, non più limitata alle grandi trattative internazionali e ai consueti incontri bilaterali ma sempre più giocata trasversalmente su tutti i temi (dall’ambiente all’immigrazione, dalla lotta alla povertà ai trattati commerciali) e in cui proprio la cooperazione allo sviluppo potrà giocare un ruolo centrale come strumento di “soft power” per il Paese e chiave per un contributo positivo dell’Italia nel costruire un mondo più sostenibile, equo e sicuro.

Questi i temi e le prospettive che “Tomorrowland - Una strategia per la nuova cooperazione italiana”, l’e-book di Emilio Ciarlo appena uscito per le edizioni Palinsesto!

Emilio Ciarlo è consigliere del Viceministro degli esteri; esperto di relazioni internazionali si occupa soprattutto di nuova cooperazione, Europa, Mediterraneo (Twitter: @satricum).
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