venerdì 7 marzo 2014
Marocco: il caso delle miniere di IMIDER
La resistenza berbera
in Marocco tra identità culturale ed accesso alle risorse: il caso della
miniera di Imider
“Imazighen”,
il termine che i berberi utilizzano per autodefinirsi, significa “uomini liberi”.
Essi vivono in Nord Africa, tra Marocco, Algeria, Tunisia, Libia, Egitto, ma
anche Mali, Mauritania e Niger. E’ soprattutto il Marocco ad ospitare una vasta
“minoranza” berbera, che sfiora gli 11 milioni, circa il 40% della popolazione
totale.
I
berberi marocchini possono essere divisi in tre gruppi principali, ognuno dei
quali parla un dialetto differente: i Riffiani nella regione settentrionale del
Rif, i Chleuh a sud-est e gli Imazighen nella porzione centrale. Popolano
questi territori fin dall’antichità, eppure si trovano ad essere stranieri
nella loro stessa terra. Nonostante rappresentino un gruppo etnico consistente,
infatti, l’identità culturale berbera è sempre stata soffocata dalle autorità
locali, che per decenni hanno promosso politiche di arabizzazione forzata e di negazione
della specificità amazigh. Soltanto
nel 2011, in seguito all’ondata di proteste della cosiddetta “Primavera Araba”,
il re Mohammed VI ha modificato la Costituzione introducendo il riconoscimento
ufficiale del tamazight come lingua
di Stato accanto all’arabo. Si è trattato un momento storico, poiché è la prima
volta che uno Stato nordafricano riconosce questo status ad una lingua
autoctona diversa dall’arabo. La revisione costituzionale è arrivata dopo il
larghissimo consenso espresso dalla popolazione nel referendum popolare, con il
98,7% delle preferenze a favore dell’introduzione del riconoscimento del tamazight e un’affluenza alle urne del
73%. Vi sono tuttavia sospetti che il risultato sia stato gonfiato per rafforzare
la figura del re come garante della democrazia e che sia stato funzionale
nell’ambito di quei ritocchi cosmetici al sistema politico che potessero
evitare gli sconvolgimenti violenti che hanno invece interessato Tunisia, Libia
ed Egitto. L’introduzione del riconoscimento a livello costituzionale, inoltre,
non ha implicato automaticamente la libertà di utilizzo della lingua, ma ha
rimandato alle leggi ordinarie le modalità dell’integrazione del tamazight nella struttura culturale e
sociale del Paese.
Qualcosa,
in effetti, sta cambiando: il 4 giugno 2013, per la prima volta nella storia,
un ministro ha parlato in berbero in Parlamento. La discriminazione, tuttavia,
rimane ancora radicata e se sul piano culturale sono stati concessi diversi
spazi agli Imazighen – come radio, giornali e l’insegnamento nelle scuole nei
dialetti locali – dal punto di vista politico ogni attività viene stroncata sul
nascere. Ne è un esempio, nel 2005, il tentativo di fondare un movimento politico
a sostegno dell’identità berbera, il loro Partito democratico amazigh marocchino (PDAM), che è stato
dichiarato fuorilegge dal ministero degli Interni nel 2007 e poi dissolto
secondo la legge che ancora oggi vieta in Marocco la formazione di partiti su
base etnica.
Con
l’intensificarsi delle proteste contro i regimi dittatoriali del Nord Africa,
anche i berberi marocchini hanno aderito al Movimento “20 febbraio”, che
raggruppa i contestatori della monarchia di Mohammed VI, subendo un’ulteriore
repressione. Nelle concitate vicende arabe, la questione berbera è stata ben
presto dimenticata. Eppure le richieste non sono diverse: diritto all’identità
culturale e dignità attraverso il lavoro. Oltre alla questione culturale e
politica, gli Imazighen subiscono, infatti, una vera e propria
marginalizzazione economica. Il caso della miniera di Imider nell’Alto Atlante,
a circa 200 km a nord-est di Ouarzazate, è esemplare. Qui, in cima al monte
Alebban, gli abitanti protestano dall’agosto del 2011 contro la Société métallurgique
d’Imider (SMI), che estrae argento dalla miniera locale, bloccando
l’approvvigionamento idrico dei sette villaggi circostanti, inquinando
l’ambiente e non consentendo lo sviluppo della popolazione del posto.
La
holding ONA- SNI, di proprietà reale e fondatrice della SMI, sfrutta il
territorio impoverendo la falda freatica e scaricando liquidi contaminati nel
terreno, devastando di conseguenza l’agricoltura e l’allevamento locali, oltre
a costituire un serio pericolo per la salute degli abitanti. Per consentire
l’estrazione intensiva del metallo, inoltre, ai villaggi vengono razionati, se
non addirittura tagliati, i rifornimenti d’acqua. Secondo uno studio realizzato
dal gabinetto Innovar per il comune di Imider, la fornitura d'acqua nella
regione ha registrato una forte flessione tra il giugno 2004 e l'agosto del
2005, con una regressione in certi casi del 60%; ciò è avvenuto in concomitanza
allo scavo da parte della SMI del nuovo pozzo di Tidsa, che rifornisce d’acqua
la miniera d’argento. La filiale locale della holding reale ha tuttavia negato
che vi sia qualsiasi collegamento tra l’interruzione della fornitura d’acqua e
lo sfruttamento della miniera e attribuendo la colpa all’endemica siccità della
regione.
Stanchi
di questa insostenibile situazione, gli abitanti del villaggio hanno deciso nel
2011 di occupare il monte dove si trova la principale stazione di pompaggio
dell’acqua, indispensabile per l’estrazione dell’argento, bloccando lo “château
d'eau” per reindirizzare l’acqua verso le case e causando una perdita di
produttività della miniera del 40% .
Il
trattamento dell’argento, inoltre, richiede l’utilizzo di prodotti tossici, in
particolare cianuro e mercurio, che inquinano irreparabilmente il terreno. La
legislazione in vigore in materia ambientale, risalente al 1951, non impone tuttavia
alcun obbligo alle società che sfruttano le risorse del sottosuolo.
L’indignazione,
oltre che per il blocco delle risorse idriche e l’inquinamento ambientale, è
anche per la violazione degli accordi sulle assunzioni nella miniera, che,
nonostante rappresenti una delle più produttive di tutta l’Africa e la settima
al mondo, non ha comportato alcun miglioramento nelle condizioni di vita degli
abitanti di Imider. Nel 2010 la
SMI ha fatturato 74 milioni di euro: ma questa ricchezza non
ha minimamente contribuito allo sviluppo di Imider. Qui, infatti, non ci sono
strade, scuole, ospedali, manca l’elettricità e internet è un miraggio. Nei sette
villaggi intorno alla miniera, la povertà raggiunge la quota del 19%, contro
una media nazionale del 9%. Il centro più vicino dove poter usufruire dei
servizi essenziali si trova a Ouarzazate, a circa 200 km di distanza. Soltanto
il 14% degli Imazighen locali lavorano nella miniera, mentre i proprietari
negano ai giovani – spesso di ritorno dalle università nelle altre città del
Regno – persino un lavoro stagionale per pagarsi gli studi. Si tratta di una
palese violazione degli accordi conclusi tra la SMI e i rappresentanti della tribù berbera degli
Ait Hdiddous nel 1969, rinnovati nel 2004 e nel 2010, che fissano al 75% la
soglia di impiego riservata ai locali.
L’aumento
della disoccupazione, oltre alla distruzione dei raccolti e la compromissione
dell’allevamento, ha fatto rifiorire la “primavera berbera”, guidata dal
Movimento sulla strada del ’96, Amussu:
xf ubrid in tamazight.
Se
in passato le autorità locali non hanno esitato a rispondere con forza alle
proteste, reprimendo le manifestazioni, oggi la monarchia è più prudente e
vuole evitare di usare il pugno duro per non rischiare di fomentare una rivolta
generale nel Paese. Alle “maniere forti” Mohammed VI ha preferito azioni meno
eclatanti, con l’arresto di alcuni attivisti e il blocco dell’informazione. Il
tentativo di fiaccare i dissidenti è finora fallito, anzi, le fila della
protesta continuano ad ingrossarsi, mentre la comunità di circa settemila
persone si stringe intorno alla causa comune, rievocando il passato glorioso
dei loro fieri antenati che hanno resistito alla colonizzazione francese.
Stavolta, tuttavia, non lottano per l’indipendenza, ma per qualcosa di più
importante: la dignità.
Fabiana Urbani
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