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Metodo di Ricerca ed analisi adottato


Il medoto di ricerca ed analisi adottato è riportato suwww.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com

Vds. post in data 30 dicembre 2009 seguento il percorso:
Nota 1 - L'approccio concettuale alla ricerca. Il metodo adottato
Nota 2 - La parametrazione delle Capacità dello Stato
Nota 3 - Il Rapporto tra i fattori di squilibrio e le capacità delloStato
Nota 4 - Il Metodo di calcolo adottato

Per gli altri continenti si rifà riferimento al medesimo blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com per la spiegazione del metodo di ricerca.

venerdì 7 marzo 2014

Marocco: il caso delle miniere di IMIDER

La resistenza berbera in Marocco tra identità culturale ed accesso alle risorse: il caso della miniera di Imider

“Imazighen”, il termine che i berberi utilizzano per autodefinirsi, significa “uomini liberi”. Essi vivono in Nord Africa, tra Marocco, Algeria, Tunisia, Libia, Egitto, ma anche Mali, Mauritania e Niger. E’ soprattutto il Marocco ad ospitare una vasta “minoranza” berbera, che sfiora gli 11 milioni, circa il 40% della popolazione totale.
I berberi marocchini possono essere divisi in tre gruppi principali, ognuno dei quali parla un dialetto differente: i Riffiani nella regione settentrionale del Rif, i Chleuh a sud-est e gli Imazighen nella porzione centrale. Popolano questi territori fin dall’antichità, eppure si trovano ad essere stranieri nella loro stessa terra. Nonostante rappresentino un gruppo etnico consistente, infatti, l’identità culturale berbera è sempre stata soffocata dalle autorità locali, che per decenni hanno promosso politiche di arabizzazione forzata e di negazione della specificità amazigh. Soltanto nel 2011, in seguito all’ondata di proteste della cosiddetta “Primavera Araba”, il re Mohammed VI ha modificato la Costituzione introducendo il riconoscimento ufficiale del tamazight come lingua di Stato accanto all’arabo. Si è trattato un momento storico, poiché è la prima volta che uno Stato nordafricano riconosce questo status ad una lingua autoctona diversa dall’arabo. La revisione costituzionale è arrivata dopo il larghissimo consenso espresso dalla popolazione nel referendum popolare, con il 98,7% delle preferenze a favore dell’introduzione del riconoscimento del tamazight e un’affluenza alle urne del 73%. Vi sono tuttavia sospetti che il risultato sia stato gonfiato per rafforzare la figura del re come garante della democrazia e che sia stato funzionale nell’ambito di quei ritocchi cosmetici al sistema politico che potessero evitare gli sconvolgimenti violenti che hanno invece interessato Tunisia, Libia ed Egitto. L’introduzione del riconoscimento a livello costituzionale, inoltre, non ha implicato automaticamente la libertà di utilizzo della lingua, ma ha rimandato alle leggi ordinarie le modalità dell’integrazione del tamazight nella struttura culturale e sociale del Paese.
Qualcosa, in effetti, sta cambiando: il 4 giugno 2013, per la prima volta nella storia, un ministro ha parlato in berbero in Parlamento. La discriminazione, tuttavia, rimane ancora radicata e se sul piano culturale sono stati concessi diversi spazi agli Imazighen – come radio, giornali e l’insegnamento nelle scuole nei dialetti locali – dal punto di vista politico ogni attività viene stroncata sul nascere. Ne è un esempio, nel 2005, il tentativo di fondare un movimento politico a sostegno dell’identità berbera, il loro Partito democratico amazigh marocchino (PDAM), che è stato dichiarato fuorilegge dal ministero degli Interni nel 2007 e poi dissolto secondo la legge che ancora oggi vieta in Marocco la formazione di partiti su base etnica.
Con l’intensificarsi delle proteste contro i regimi dittatoriali del Nord Africa, anche i berberi marocchini hanno aderito al Movimento “20 febbraio”, che raggruppa i contestatori della monarchia di Mohammed VI, subendo un’ulteriore repressione. Nelle concitate vicende arabe, la questione berbera è stata ben presto dimenticata. Eppure le richieste non sono diverse: diritto all’identità culturale e dignità attraverso il lavoro. Oltre alla questione culturale e politica, gli Imazighen subiscono, infatti, una vera e propria marginalizzazione economica. Il caso della miniera di Imider nell’Alto Atlante, a circa 200 km a nord-est di Ouarzazate, è esemplare. Qui, in cima al monte Alebban, gli abitanti protestano dall’agosto del 2011 contro la Société métallurgique d’Imider (SMI), che estrae argento dalla miniera locale, bloccando l’approvvigionamento idrico dei sette villaggi circostanti, inquinando l’ambiente e non consentendo lo sviluppo della popolazione del posto.
La holding ONA- SNI, di proprietà reale e fondatrice della SMI, sfrutta il territorio impoverendo la falda freatica e scaricando liquidi contaminati nel terreno, devastando di conseguenza l’agricoltura e l’allevamento locali, oltre a costituire un serio pericolo per la salute degli abitanti. Per consentire l’estrazione intensiva del metallo, inoltre, ai villaggi vengono razionati, se non addirittura tagliati, i rifornimenti d’acqua. Secondo uno studio realizzato dal gabinetto Innovar per il comune di Imider, la fornitura d'acqua nella regione ha registrato una forte flessione tra il giugno 2004 e l'agosto del 2005, con una regressione in certi casi del 60%; ciò è avvenuto in concomitanza allo scavo da parte della SMI del nuovo pozzo di Tidsa, che rifornisce d’acqua la miniera d’argento. La filiale locale della holding reale ha tuttavia negato che vi sia qualsiasi collegamento tra l’interruzione della fornitura d’acqua e lo sfruttamento della miniera e attribuendo la colpa all’endemica siccità della regione.
Stanchi di questa insostenibile situazione, gli abitanti del villaggio hanno deciso nel 2011 di occupare il monte dove si trova la principale stazione di pompaggio dell’acqua, indispensabile per l’estrazione dell’argento, bloccando lo “château d'eau” per reindirizzare l’acqua verso le case e causando una perdita di produttività  della miniera del 40% .
Il trattamento dell’argento, inoltre, richiede l’utilizzo di prodotti tossici, in particolare cianuro e mercurio, che inquinano irreparabilmente il terreno. La legislazione in vigore in materia ambientale, risalente al 1951, non impone tuttavia alcun obbligo alle società che sfruttano le risorse del sottosuolo.
L’indignazione, oltre che per il blocco delle risorse idriche e l’inquinamento ambientale, è anche per la violazione degli accordi sulle assunzioni nella miniera, che, nonostante rappresenti una delle più produttive di tutta l’Africa e la settima al mondo, non ha comportato alcun miglioramento nelle condizioni di vita degli abitanti di Imider. Nel 2010 la SMI ha fatturato 74 milioni di euro: ma questa ricchezza non ha minimamente contribuito allo sviluppo di Imider. Qui, infatti, non ci sono strade, scuole, ospedali, manca l’elettricità e internet è un miraggio. Nei sette villaggi intorno alla miniera, la povertà raggiunge la quota del 19%, contro una media nazionale del 9%. Il centro più vicino dove poter usufruire dei servizi essenziali si trova a Ouarzazate, a circa 200 km di distanza. Soltanto il 14% degli Imazighen locali lavorano nella miniera, mentre i proprietari negano ai giovani – spesso di ritorno dalle università nelle altre città del Regno – persino un lavoro stagionale per pagarsi gli studi. Si tratta di una palese violazione degli accordi conclusi tra la SMI e i rappresentanti della tribù berbera degli Ait Hdiddous nel 1969, rinnovati nel 2004 e nel 2010, che fissano al 75% la soglia di impiego riservata ai locali.
L’aumento della disoccupazione, oltre alla distruzione dei raccolti e la compromissione dell’allevamento, ha fatto rifiorire la “primavera berbera”, guidata dal Movimento sulla strada del ’96, Amussu: xf ubrid in tamazight.
Se in passato le autorità locali non hanno esitato a rispondere con forza alle proteste, reprimendo le manifestazioni, oggi la monarchia è più prudente e vuole evitare di usare il pugno duro per non rischiare di fomentare una rivolta generale nel Paese. Alle “maniere forti” Mohammed VI ha preferito azioni meno eclatanti, con l’arresto di alcuni attivisti e il blocco dell’informazione. Il tentativo di fiaccare i dissidenti è finora fallito, anzi, le fila della protesta continuano ad ingrossarsi, mentre la comunità di circa settemila persone si stringe intorno alla causa comune, rievocando il passato glorioso dei loro fieri antenati che hanno resistito alla colonizzazione francese. Stavolta, tuttavia, non lottano per l’indipendenza, ma per qualcosa di più importante: la dignità.
                                                                                                Fabiana Urbani







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