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Metodo di Ricerca ed analisi adottato


Il medoto di ricerca ed analisi adottato è riportato suwww.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com

Vds. post in data 30 dicembre 2009 seguento il percorso:
Nota 1 - L'approccio concettuale alla ricerca. Il metodo adottato
Nota 2 - La parametrazione delle Capacità dello Stato
Nota 3 - Il Rapporto tra i fattori di squilibrio e le capacità delloStato
Nota 4 - Il Metodo di calcolo adottato

Per gli altri continenti si rifà riferimento al medesimo blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com per la spiegazione del metodo di ricerca.

lunedì 20 marzo 2017

Egitto: verso l'intolleranza religiosa

Sull’orlo del baratro
Egitto: ora i copti, poi a chi tocca?
Andrea Dessì, Ludovico De Angelis
12/03/2017
 più piccolopiù grande
Si stima che i copti d’Egitto costituiscano il 10% della popolazione del Paese, nonché la più grande popolazione cristiana di tutto il Medio Oriente: tale minoranza, tuttavia, è stata per lunghi anni oggetto di una costante discriminazione da parte delle istituzioni e, seppur non in maniera onnicomprensiva, della società egiziana stessa.

Per questa ragione, la recente serie di attacchi rivendicati dall’Isis (il sedicente Stato islamico, anche noto come Daesh) ai danni dei copti nel Sinai non giunge certamente come una novità.

A dire la verità, un sedimentato e violento antagonismo tra le diverse comunità del Sinai, culminato in diversi omicidi di predicatori cristiani negli anni passati, si era già registrato tempo prima che l’organizzazione salafita-jihadista Ansar Bait al-Maqdis decidesse di divenire una delle province (Wilayat) dell’autoproclamato Califfato di Abu Bakr al-Baghdadi, nel novembre del 2014.

Nonostante questo, durante l’ultimo mese la situazione sembra esser ulteriormente precipitata: sette egiziani-cristiani sono stati assassinati, molti freddati con un colpo alla nuca, nella città di El-Arish, capoluogo della provincia del Sinai.

Rivendicati dall’Isis, questi omicidi fanno seguito ad un aumento delle minacce ed intimidazioni subite da molte famiglie di copti abitanti nel Sinai egiziano. Se nel 2011 la comunità di copti nell’area ammontava a circa 5.000 persone, ad oggi ne rimangono meno di 1.000, secondo fonti locali.

Il peggiorare della situazione
Alle condanne arrivate da molte località ed esponenti religiosi - sia cristiani che musulmani - fa ora seguito un monito d’allarme. Mentre in Siria ed Iraq l’Isis continua a perdere terreno, si teme che l’organizzazione terroristica aumenti le proprie azioni sovversive, minando i già delicati rapporti intra-religiosi e settari nella regione e mirando a dare ulteriore respiro alla tesi dello scontro tra civiltà. Sono infatti quaranta i copti d’Egitto che hanno perso la vita per mano dell’organizzazione jihadista negli ultimi tre mesi.

Di questi, venticinque sono morti nell’attentato suicida dello scorso dicembre ad una cattedrale copta del Cairo rivendicato dall’Isis, il quale ha lasciato a terra prive di vita molte donne e bambini, spingendo l’Economist ad affermare in maniera perentoria che ciò che sta prendendo piede in Egitto è un vero e proprio massacro ai danni della popolazione cristiana.

Il timore scaturito da questi attacchi, coadiuvato ed accentuato da un video diffuso dall’Isis stesso nel quale si minacciano apertamente i copti di rappresaglie, ha esacerbato il già fragile senso di sicurezza della minoranza cristiana, causando l’esodo di oltre 250 famiglie verso altre province del paese.

Il generale al-Sisi il grande assente
Il grande assente nel racconto sino ad ora proposto è il generale al-Sisi, che entra all’interno dell’equazione come un elemento che, secondo Amnesty International, sarebbe almeno indirettamente responsabile di tali brutali azioni.

Il dittatore, nel corso degli ultimi anni, non ha soltanto fallito nel proteggere l’integrità sociale ed il benessere economico della minoranza cristiana, sia nel Sinai sia in tutto il territorio egiziano - rendendola bersaglio vulnerabile di attacchi, intimidazioni e rapimenti -, ma ha negligentemente evitato di perseguire giuridicamente i responsabili delle violenze settarie perpetrate ai loro danni nonché di garantire un contesto securitario effettivo a fare si che tali azioni cessassero, adottando politiche inefficienti e contro-producenti.

La marginalizzazione del Sinai
Gli abitanti della regione del Sinai vivono da lunghi decenni una condizione di esclusione: il territorio, sotto occupazione israeliana tra il 1967 e il 1982, anno nel quale venne completato il ritiro Israeliano dopo gli accordi di pace con l’Egitto del 1979, non ha infatti mai beneficiato dell’investimento governativo necessario allo sviluppo.

Inoltre, a rendere quest’area geografica di difficile gestione, è anche la sua stessa morfologia: il territorio è desertico, vasto, poco abitato e difficile da controllare. Per la sua quasi totale impermeabilità, esso ricalca gli sconfinati territori che rivestono la fascia saheliana.

Nel corso degli anni, a causa della marginalizzazione economica delle comunità beduine, si sono affermate nuove forme di sostegno basate su traffici illeciti, da quello di uomini a quelli di stupefacenti ed armamenti.

La difficile situazione socio-economica in Egitto è andata peggiorando dall’inizio della Primavera araba, portando ulteriore sconforto nelle zone già deprivate del Sinai. In seguito al colpo di stato del generale al-Sisi, e alla conseguente violenta repressione ai danni dei Fratelli Mussulmani, il Sinai è divenuto luogo di ritrovo per varie correnti islamiste e del salafismo-jihadista.

Nel Sinai infatti è da anni in corso una sanguinosa campagna militare che vede le forze di sicurezza e l’esercito egiziano battersi con vari gruppi armati, alcuni dei quali hanno apertamente annunciato la loro affiliazione all’Isis.

L’approccio militare fallimentare del regime
Nella penisola del Sinai si è oggi davanti ad una vera e propria low-intensity insurgency, dove il potere delle autorità centrale del Cairo risulta essere limitato e inefficace, costringendo la popolazione locale a essere sempre più isolata ed abbandonata al proprio destino.

Da una parte infatti, gli abitanti si trovano a dovere fare i conti con il pugno duro dell’esercito egiziano e con le sue politiche militarizzate, dall’altra vengono costantemente minacciati dai vari gruppi armati attivi nella zona.

La storia della lotta al terrorismo ci insegna che combattere il terrore con il terrore, oltre ad essere moralmente reprensibile, risulta essere del tutto inefficace. La politica militarizzata di al-Sisi, rischia infatti di portare a un inasprimento delle divisioni, con annesse tensioni in una regione sensibile e tutt’altro che indifferente dal punto di vista strategico.

Più che risolvere il problema della stabilità del Sinai, il governo centrale egiziano ha esacerbato la tensione tramite l’adozione di politiche inefficaci alimentando un ulteriore stato di malcontento, figlio di una politica che, sino ad ora, è stata caratterizzata dal pugno di ferro contro gli islamisti, sia egiziani che all’estero: pensiamo agli jihadisti nel Sinai, ai Fratelli Musulmani, a Hamas o al sostegno alle forze anti-islamiste del generale Haftar in Libia.

Ciò riflette un trend tuttavia globale: dal Cairo, a Tel Aviv, sino ad arrivare a Washington con la nuova Amministrazione Trump, sembra non esserci nessuna differenziazione nell’approccio verso le varie organizzazioni islamiste. Nel chiudere le porte alle frange più moderate dell’Islam politico o, ancora peggio, addossare ad un’intera religione le colpe per le azioni violente di alcuni, si indeboliscono quelle stesse comunità e organizzazioni che rappresentano il principale baluardo contro la radicalizzazione.

L’Isis nel Sinai egiziano
In un video uscito nelle ultime settimane, l’Isis ha definito I Copti d’Egitto la loro “preda preferita”. Il motivo di simili esternazioni è spesso da ricercare nell’attenzione mediatica - linfa vitale per Daesh - che i gruppi terroristici desiderano ottenere nel circuito dell’intrattenimento occidentale.

Difatti, è proprio da tale comportamento che essi riescono ad acquisire numerosi benefici: dall’affermazione del loro status, alla possibilità di attirare aspiranti jihadisti, alla rigida affermazione della retorica cara al sedicente Stato islamico - ma anche al neo-presidente statunitense - dello scontro tra civiltà, tramite la quale veicolano divisione per trarre legittimazione.

Tutto questo dovrebbe essere un campanello d’allarme per l’Europa: l’Egitto infatti, sotto numerosi punti di vista, rimane oggi sull’orlo del baratro (da quello economico a quello securitario) e un collasso del paese comporterebbe ripercussioni regionali e internazionali devastanti: eppure, questo aspetto viene raramente posto al centro di un dibattito produttivo.

A farne le spese di ciò è, per prima, la comunità Copta d’Egitto, già decimata da anni di discriminazione e marginalizzazione, ma presto potrebbe esserlo tutta Europa, Israele ed il resto della regione. Dopo Iraq, Siria, Yemen, Libia in macerie, un collasso in Egitto sarebbe irreparabile e potrebbe concretamente innescare l’ennesimo vortice vizioso di violenza e conflitto, caratteristiche fastidiosamente onnipresenti in ogni esemplare di Stato debole e/o fallito.

Andrea Dessì è Ricercatore nel Programma Mediterraneo e Medioriente, IAI; Ludovico De Angelis studia Relazioni Internazionali e sta attualmente effettuando un tirocinio presso lo IAI (@__Ludovico).
 

venerdì 17 marzo 2017

Libia: il groviglio si aggroviglia ancora

Atteggiamento sbagliato
Libia: vecchi e nuovi errori
Vincenzo Camporini
09/03/2017
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Si torna insistentemente a parlare di spartizione della Libia, di una struttura istituzionale di tipo federale con tre componenti, est - Cirenaica, ovest - Tripolitania, sud - Fezzan. E così facendo si cade nuovamente nel tragico errore di applicare le categorie della cultura occidentale, codificate dai tempi di Weimar, ad una situazione socio-culturale che non la capisce e che le è totalmente estranea.

Già ai tempi della conquista italiana della Libia nel 1911 era chiaro che le articolazioni etnico tribali erano molto articolate e complesse. È illuminante osservare come Gheddafi riuscì ad imporre il proprio potere per oltre 40 anni, fino al 2011.

Ben consapevole della realtà sociale dei popoli che abitavano il territorio libico, Gheddafi non creò alcuna struttura amministrativa, ma basò il proprio potere su un rapporto personale diretto con tutti i possibili referenti locali, beninteso con pugno di ferro, in quanto qualsiasi altro tipo di relazione istituzionale sarebbe apparso come una forzatura.

La frammentazione post-Gheddafi
Scomparso Gheddafi, le forze centrifughe sono venute prepotentemente alla luce, generando presto una situazione di diffusa anarchia, fortemente agevolata dalla ampia disponibilità di armi, accumulate da Gheddafi in quantità esorbitante rispetto alle reali esigenze del proprio braccio armato.

Si tratta di una frammentazione che poco ha a che vedere con la geografia, atteso ad esempio che Misurata, città costiera, ha inviato unità combattenti nella regione di Sheba, mentre il controllo del territorio appare sempre fragile ed evanescente (sono mesi che Haftar afferma di avere assunto il pieno controllo di Bengasi, salvo poi il verificarsi di nuovi sanguinosi episodi di guerriglia come nella situazione di Ras Lanuf).

Che dire poi della nota posizione di Zintan, che bene all’interno della regione tripolitana ha da sempre mantenuto un atteggiamento filo-Tobruk, probabilmente più per la volontà di evidenziare una sua propria autonomia che per una reale simpatia nei confronti della Cirenaica.

Per osservare infine nel quadrante meridionale la storica contrapposizione tra Tuareg e Tebu, che negli ultimi anni ha ripreso vigore, anche per il controllo dei lucroso traffici attraverso il Sahara, sia di merci di contrabbando che di migranti provenienti da sud e diretti verso il miraggio di una vita migliore in Europa.

Visioni eurocentriche e personalità ininfluenti
In questo quadro appare ben chiaro che i vari tentativi attuati dalla comunità internazionale per giungere ad un assetto politico stabile sono frutto di una visione eurocentrica, estranea alle culture locali: che si tratti di un governo unitario di unità nazionale (ma esiste una ‘nazione libica’?); che si tratti di una federazione, secondo confini stabiliti da negoziatori esterni; sempre si sta parlando di una visione westfaliana, istintivamente considerata come buona per qualsiasi tipo di società.

Quando poi a questa visione istituzionale si accompagna la selezione di personalità ormai considerate esterne e che non risultano da un dibattito tra i diretti interessati, si può ben dire che si sono messe in campo le componenti per un insuccesso certo.

E poco importa la qualità dei negoziatori che la “comunità internazionale”, leggasi Onu, ha designato: per quanto abili possano essere (e almeno in un caso è lecito dubitare di abilità e buona fede), si è sempre trattato di scelte di personalità che non appartengono a quel mondo, che parlano un linguaggio politico incomprensibile ai loro interlocutori locali, che vengono percepite come portatori di soluzioni imposte dall’esterno e come tali rigettate.

Mosse a vuoto e nuove iniziative
Da questo punto di vista la proposta del segretario generale dell’Onu Antonio Guterres di avvicendare l'inviato per la Libia Martin Kobler con l'ex primo ministro palestinese Salam Fayyad poteva apparire un gesto di saggezza, in quanto quest’ultimo aveva tutte le caratteristiche per non apparire estraneo a tutti gli attori in gioco.

Purtroppo la mossa a sorpresa degli Usa, che si sono opposti a questa nomina, rischia di aggravare ulteriormente la situazione, in quanto si viene a creare un vuoto di credibilità istituzionale che può costituire una tentazione irresistibile per qualche attore locale.

Credo che in tal senso debba essere letta la decisione misuratina di inviare/costituire una propria milizia armata a Tripoli, non si sa bene con quali compiti e quale scopo, se non quello di guadagnare visibilità dopo un periodo di relativa eclissi seguito al successo, pagato a caro prezzo, nella riconquista di Sirte e nell’espulsione della cellula Isis che vi si era installata.

È in ogni caso indubbio che occorra una nuova iniziativa, che non può lasciar fuori alcun attore, esterno ed interno: si è parlato di costituire una sorta di ‘gruppo di contatto’, che dovrà includere Egitto, EAU, Qatar, ma anche Russia e Turchia, oltre che le ‘potenze’ occidentali, Italia in testa, ma anche Francia, Regno Unito, forse la Germania (e ci devono ovviamente essere anche gli Usa).

Ma è sul quadrante interno che occorre cambiare radicalmente atteggiamento: occorre un salto concettuale che consenta di evitare di ridurre le dinamiche interne libiche a una competizione tra Gwell, Serraj e Haftar, in quanto la realtà sociale libica è molto più complessa.

Come ha recentemente affermato il vice ministro degli Esteri russo, Mikhail Bogdanov, bisogna “coinvolgere i rappresentanti di tutte le maggiori forze politiche, dei gruppi tribali e delle regioni, nel lavoro di formazione di singoli enti amministrativi”.

Occorre istituzionalizzare una sorta di “loyajirga”, libica, che permetta una larga autonomia ai singoli detentori del potere locale, ma che vengano mantenuti uniti dal confermato e rafforzato ruolo dei due enti unitari, fondamentali per la coesione dell’insieme, la Noc, National Oil Corporation, e la Banca Centrale, che, in virtù delle risorse energetiche del Paese sono in grado di soddisfare i fabbisogni finanziari di ogni singola comunità.

Si tratta di un processo che richiede molta pazienza, richiede anche che coloro che si ritengono attori principali, a partire da Serraj e da Haftar, facciano se non un passo indietro, un passo laterale, e che necessita di tempo: i risultati si potranno vedere solo a medio termine.

Vincenzo Camporini, già Capo di Stato Maggiore della Difesa, è vicepresidente dello IAI.
 
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Arriva Rosneft, ma la Russia dubita di Haftar
Umberto Profazio
09/03/2017
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Il 21 febbraio scorso, la National Oil Corporation (Noc) libica ha firmato due accordi commerciali con la compagnia russa Rosneft. Il primo prevede la creazione di un comitato di lavoro congiunto per valutare le opportunità di investimento presenti in diversi ambiti, fra cui l’esplorazione e la produzione. Il secondo, invece, comunemente definito come ‘offtake agreement’, stabilisce l’obbligo per la Rosneft di acquisire totalmente, o in parte, la produzione risultante dalla cooperazione con la Noc.

Il cambio di rotta della Noc
Annunciando la firma degli accordi, il presidente della Noc Mustafa Sanalla ha espresso la sua soddisfazione, sottolineando come la compagnia russa possa giocare un ruolo importante e costruttivo in Libia. L’accordo è il primo risultato della nuova strategia di Sanalla, basata sull’incoraggiamento delle principali multinazionali del settore a investire nuovamente nel Paese.

Il cambio di rotta era stato prospettato da Sanalla stesso durante la conferenza dello scorso 24 gennaio a Londra sulle prospettive energetiche della regione. In tale occasione, il presidente della Noc aveva annunciato l’obiettivo di aumentare l’output fino a 1,25 milioni di barili di petrolio al giorno entro la fine del 2017 e raggiungere 1,6 milioni entro il 2022.

Le prospettive della Noc sono migliorate a seguito della conquista dei terminal petroliferi della Libia orientale da parte della Libyan National Army (Lna). Nel settembre 2016, l’Lna è riuscita a occupare l’area del “crescente petrolifero”, dove sono situati i porti di Brega, Zueitina, Ras Lanuf e Es Sider.

Il generale Khalifa Haftar, comandante supremo dell’Lna, ha deciso di riconsegnare i porti (e soprattutto i proventi delle esportazioni petrolifere) alla Noc di base a Tripoli, nonostante la Camera dei rappresentanti di base a Tobruk riconosca solo l’autorità della Noc “parallela” di base nell’est del Paese e guidata da Nagi Maghrabi.

Approfittando della riconsegna dei terminal, la Noc è riuscita a risollevare la produzione petrolifera dal minimo storico dei 200.000 barili di petrolio al giorno dello scorso agosto ai 700.000 di inizio 2017. La crescita è stata consentita anche dalla riattivazione dei giacimenti petroliferi occidentali di Sharara ed el-Feel e dalla riapertura dell’oleodotto al-Rayana, controllato fino ad allora dalle milizie di Zintan.

L’aumento della produzione ha migliorato le prospettive della Noc, convincendo Sanalla dell’opportunità di superare la moratoria sugli investimenti nel settore petrolifero che la Libia si è autoimposta dal 2011.

Il doppio gioco di Mosca
L’accordo con la Rosneft risulta in linea con il cambio di rotta della Noc. La compagnia russa andrà quindi ad aggiungersi a Eni (la cui presenza in Libia è stata costante anche nei momenti più difficili), Total e Schlumberger, che hanno ripreso da poco le attività.

Rosneft, inoltre, non sembra essere l’unica compagnia russa interessata a investire in Libia. A inizio marzo, nel corso della visita a Mosca del primo ministro del governo di unità nazionale (Gna) Fayez al-Sarraj, la delegazione libica ha anche discusso del possibile ritorno nel Paese di Gazprom, già in possesso di due concessioni presso il giacimento di Jalu.

Durante gli incontri con il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov e quello del Commercio e dell’industria Denis Manturov, è stata anche avanzata l’ipotesi di una riattivazione degli accordi firmati prima della caduta del regime di Gheddafi che prevedevano, tra l’altro, la costruzione di una linea ferroviaria tra Sirte e Bengasi.

Tali sviluppi hanno fatto luce sul crescente ruolo giocato dalla Russia nelle vicende libiche, rivelando una strategia di penetrazione complessa. L’incontro tra Lavrov e Sarraj è servito a ribadire la posizione ufficiale di Mosca nel sostenere la necessità di emendare il Libyan Political Agreement firmato a Skhirat nel dicembre 2015, prevedendo una maggiore inclusione delle autorità orientali e dello stesso Haftar nella formazione di un governo di unità nazionale e nella creazione di istituzioni militari maggiormente rappresentative.

Tuttavia, l’apparente neutralità russa nelle vicende libiche emersa dalla vetrina offerta a Sarraj a Mosca, contrasta con il sempre più crescente sostegno al generale Haftar,vera e propria costante della politica di Mosca negli ultimi mesi.

Oltre alla visita dello stesso Haftar sulla portaerei Kutznetsov lo scorso 11 gennaio, a confermarlo sono le sempre più frequenti voci sull’invio di armi russe all’Lna.

Tra i vari accordi firmati nel 2008, vi era infatti anche la cancellazione del debito contratto nei confronti di Mosca in cambio dell’acquisto di armi russe, necessarie per riammodernare il sistema di difesa libico dopo le sanzioni e l’isolamento internazionale degli anni ’90. Ebbene, nonostante l’embargo sulle armi in vigore in base alla risoluzione del Consiglio di sicurezza 1970/2011, diverse fonti hanno discusso la possibilità di una riattivazione di questi accordi, con l’Lna quale principale beneficiario.

I dubbi sul generale
Per superare le prevedibili difficoltà logistiche è stata avanzata l’ipotesi di un coinvolgimento dell’Algeria, cliente storico di Mosca in materia di armamenti. Tuttavia il principale ostacolo a tale disegno risulta l’avversione della stessa Algeria per Haftar, il cui soggiorno ad Algeri lo scorso dicembre non sembrerebbe aver convinto i dirigenti dell’affidabilità del personaggio, anche alla luce dell’aperto sostegno che l’Egitto ha assicurato al generale.

La questione dell’affidabilità di Haftar interessa naturalmente pure la Russia, anche a seguito dei recenti rovesci subiti dall’Lna. L’offensiva del 3 marzo scorso da parte delle Benghazi Defence Brigades, milizia islamista che ha più volte tentato incursioni nel “crescente petrolifero”, ha messo a nudo le debolezze dell’esercito di Haftar, costretto a ritirarsi dai terminal di Ras Lanuf e Es Sider.

Lo smacco subito dall’Lna ha aumentato i dubbi di Mosca sull’opportunità di investire esclusivamente su Haftar nello scacchiere libico, giustificando una strategia di diversificazione che coinvolgerebbe anche Sarraj. Per il Cremlino, l’invio di armi ad Haftar, in aperta violazione dell’embargo, risulterebbe un azzardo difficilmente giustificabile alla luce dell’incapacità dell’Lna di difendere un’area cruciale per le sorti dell’intera economia del Paese.

Umberto Profazio è dottore di ricerca in Storia delle Relazioni Internazionali presso l’Università di Roma “Sapienza”, Research Assistant per l’International Institute for Strategic Studies, Senior Researcher per il Centre for Geopolitics and Security in Realism Studies e Maghreb Analyst per la NATO Defence College Foundation.