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Si stima che i copti d’Egitto costituiscano il 10% della popolazione del Paese, nonché la più grande popolazione cristiana di tutto il Medio Oriente: tale minoranza, tuttavia, è stata per lunghi anni oggetto di una costante discriminazione da parte delle istituzioni e, seppur non in maniera onnicomprensiva, della società egiziana stessa.
Per questa ragione, la recente serie di attacchi rivendicati dall’Isis (il sedicente Stato islamico, anche noto come Daesh) ai danni dei copti nel Sinai non giunge certamente come una novità. A dire la verità, un sedimentato e violento antagonismo tra le diverse comunità del Sinai, culminato in diversi omicidi di predicatori cristiani negli anni passati, si era già registrato tempo prima che l’organizzazione salafita-jihadista Ansar Bait al-Maqdis decidesse di divenire una delle province (Wilayat) dell’autoproclamato Califfato di Abu Bakr al-Baghdadi, nel novembre del 2014. Nonostante questo, durante l’ultimo mese la situazione sembra esser ulteriormente precipitata: sette egiziani-cristiani sono stati assassinati, molti freddati con un colpo alla nuca, nella città di El-Arish, capoluogo della provincia del Sinai. Rivendicati dall’Isis, questi omicidi fanno seguito ad un aumento delle minacce ed intimidazioni subite da molte famiglie di copti abitanti nel Sinai egiziano. Se nel 2011 la comunità di copti nell’area ammontava a circa 5.000 persone, ad oggi ne rimangono meno di 1.000, secondo fonti locali. Il peggiorare della situazione Alle condanne arrivate da molte località ed esponenti religiosi - sia cristiani che musulmani - fa ora seguito un monito d’allarme. Mentre in Siria ed Iraq l’Isis continua a perdere terreno, si teme che l’organizzazione terroristica aumenti le proprie azioni sovversive, minando i già delicati rapporti intra-religiosi e settari nella regione e mirando a dare ulteriore respiro alla tesi dello scontro tra civiltà. Sono infatti quaranta i copti d’Egitto che hanno perso la vita per mano dell’organizzazione jihadista negli ultimi tre mesi. Di questi, venticinque sono morti nell’attentato suicida dello scorso dicembre ad una cattedrale copta del Cairo rivendicato dall’Isis, il quale ha lasciato a terra prive di vita molte donne e bambini, spingendo l’Economist ad affermare in maniera perentoria che ciò che sta prendendo piede in Egitto è un vero e proprio massacro ai danni della popolazione cristiana. Il timore scaturito da questi attacchi, coadiuvato ed accentuato da un video diffuso dall’Isis stesso nel quale si minacciano apertamente i copti di rappresaglie, ha esacerbato il già fragile senso di sicurezza della minoranza cristiana, causando l’esodo di oltre 250 famiglie verso altre province del paese. Il generale al-Sisi il grande assente Il grande assente nel racconto sino ad ora proposto è il generale al-Sisi, che entra all’interno dell’equazione come un elemento che, secondo Amnesty International, sarebbe almeno indirettamente responsabile di tali brutali azioni. Il dittatore, nel corso degli ultimi anni, non ha soltanto fallito nel proteggere l’integrità sociale ed il benessere economico della minoranza cristiana, sia nel Sinai sia in tutto il territorio egiziano - rendendola bersaglio vulnerabile di attacchi, intimidazioni e rapimenti -, ma ha negligentemente evitato di perseguire giuridicamente i responsabili delle violenze settarie perpetrate ai loro danni nonché di garantire un contesto securitario effettivo a fare si che tali azioni cessassero, adottando politiche inefficienti e contro-producenti. La marginalizzazione del Sinai Gli abitanti della regione del Sinai vivono da lunghi decenni una condizione di esclusione: il territorio, sotto occupazione israeliana tra il 1967 e il 1982, anno nel quale venne completato il ritiro Israeliano dopo gli accordi di pace con l’Egitto del 1979, non ha infatti mai beneficiato dell’investimento governativo necessario allo sviluppo. Inoltre, a rendere quest’area geografica di difficile gestione, è anche la sua stessa morfologia: il territorio è desertico, vasto, poco abitato e difficile da controllare. Per la sua quasi totale impermeabilità, esso ricalca gli sconfinati territori che rivestono la fascia saheliana. Nel corso degli anni, a causa della marginalizzazione economica delle comunità beduine, si sono affermate nuove forme di sostegno basate su traffici illeciti, da quello di uomini a quelli di stupefacenti ed armamenti. La difficile situazione socio-economica in Egitto è andata peggiorando dall’inizio della Primavera araba, portando ulteriore sconforto nelle zone già deprivate del Sinai. In seguito al colpo di stato del generale al-Sisi, e alla conseguente violenta repressione ai danni dei Fratelli Mussulmani, il Sinai è divenuto luogo di ritrovo per varie correnti islamiste e del salafismo-jihadista. Nel Sinai infatti è da anni in corso una sanguinosa campagna militare che vede le forze di sicurezza e l’esercito egiziano battersi con vari gruppi armati, alcuni dei quali hanno apertamente annunciato la loro affiliazione all’Isis. L’approccio militare fallimentare del regime Nella penisola del Sinai si è oggi davanti ad una vera e propria low-intensity insurgency, dove il potere delle autorità centrale del Cairo risulta essere limitato e inefficace, costringendo la popolazione locale a essere sempre più isolata ed abbandonata al proprio destino. Da una parte infatti, gli abitanti si trovano a dovere fare i conti con il pugno duro dell’esercito egiziano e con le sue politiche militarizzate, dall’altra vengono costantemente minacciati dai vari gruppi armati attivi nella zona. La storia della lotta al terrorismo ci insegna che combattere il terrore con il terrore, oltre ad essere moralmente reprensibile, risulta essere del tutto inefficace. La politica militarizzata di al-Sisi, rischia infatti di portare a un inasprimento delle divisioni, con annesse tensioni in una regione sensibile e tutt’altro che indifferente dal punto di vista strategico. Più che risolvere il problema della stabilità del Sinai, il governo centrale egiziano ha esacerbato la tensione tramite l’adozione di politiche inefficaci alimentando un ulteriore stato di malcontento, figlio di una politica che, sino ad ora, è stata caratterizzata dal pugno di ferro contro gli islamisti, sia egiziani che all’estero: pensiamo agli jihadisti nel Sinai, ai Fratelli Musulmani, a Hamas o al sostegno alle forze anti-islamiste del generale Haftar in Libia. Ciò riflette un trend tuttavia globale: dal Cairo, a Tel Aviv, sino ad arrivare a Washington con la nuova Amministrazione Trump, sembra non esserci nessuna differenziazione nell’approccio verso le varie organizzazioni islamiste. Nel chiudere le porte alle frange più moderate dell’Islam politico o, ancora peggio, addossare ad un’intera religione le colpe per le azioni violente di alcuni, si indeboliscono quelle stesse comunità e organizzazioni che rappresentano il principale baluardo contro la radicalizzazione. L’Isis nel Sinai egiziano In un video uscito nelle ultime settimane, l’Isis ha definito I Copti d’Egitto la loro “preda preferita”. Il motivo di simili esternazioni è spesso da ricercare nell’attenzione mediatica - linfa vitale per Daesh - che i gruppi terroristici desiderano ottenere nel circuito dell’intrattenimento occidentale. Difatti, è proprio da tale comportamento che essi riescono ad acquisire numerosi benefici: dall’affermazione del loro status, alla possibilità di attirare aspiranti jihadisti, alla rigida affermazione della retorica cara al sedicente Stato islamico - ma anche al neo-presidente statunitense - dello scontro tra civiltà, tramite la quale veicolano divisione per trarre legittimazione. Tutto questo dovrebbe essere un campanello d’allarme per l’Europa: l’Egitto infatti, sotto numerosi punti di vista, rimane oggi sull’orlo del baratro (da quello economico a quello securitario) e un collasso del paese comporterebbe ripercussioni regionali e internazionali devastanti: eppure, questo aspetto viene raramente posto al centro di un dibattito produttivo. A farne le spese di ciò è, per prima, la comunità Copta d’Egitto, già decimata da anni di discriminazione e marginalizzazione, ma presto potrebbe esserlo tutta Europa, Israele ed il resto della regione. Dopo Iraq, Siria, Yemen, Libia in macerie, un collasso in Egitto sarebbe irreparabile e potrebbe concretamente innescare l’ennesimo vortice vizioso di violenza e conflitto, caratteristiche fastidiosamente onnipresenti in ogni esemplare di Stato debole e/o fallito. Andrea Dessì è Ricercatore nel Programma Mediterraneo e Medioriente, IAI; Ludovico De Angelis studia Relazioni Internazionali e sta attualmente effettuando un tirocinio presso lo IAI (@__Ludovico). | ||||||||
lunedì 20 marzo 2017
Egitto: verso l'intolleranza religiosa
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