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Metodo di Ricerca ed analisi adottato


Il medoto di ricerca ed analisi adottato è riportato suwww.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com

Vds. post in data 30 dicembre 2009 seguento il percorso:
Nota 1 - L'approccio concettuale alla ricerca. Il metodo adottato
Nota 2 - La parametrazione delle Capacità dello Stato
Nota 3 - Il Rapporto tra i fattori di squilibrio e le capacità delloStato
Nota 4 - Il Metodo di calcolo adottato

Per gli altri continenti si rifà riferimento al medesimo blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com per la spiegazione del metodo di ricerca.

martedì 29 settembre 2015

Libia: una soluzione ancora lontana

Mediazione senza accordo
Libia: Léon exit, che cosa accadrà?
Roberto Aliboni
23/09/2015
 più piccolopiù grande
Il 20 settembre, è scaduto il mandato dell’ambasciatore Bernardino Léon come inviato speciale del segretario generale dell’Onu per la Libia. Dovrebbe esserci un nuovo inviato. Si è parlato di un diplomatico austriaco. Non sarà un’eredità facile. È anzi un’eredità assai rischiosa.

Nessun accordo è emerso da una mediazione che è durata un anno, con varie cadute e infaticabilmente di nuovo e ancora resuscitata da Léon. Nel congedarsi l’ambasciatore ha lasciato alle parti la bozza di accordo più avanzata che gli è stato possibile redigere.

Ancora una volta ha sottolineato la necessità di un governo di accordo nazionale, come quello della sua bozza, e ha esortato i libici, adottandola, a non perdere l’ultimo treno.

Ma la realtà è che esistono in Libia e soprattutto fuori della Libia forze che non accettano l’accordo e forze che l’accordo lo vorrebbero ma non hanno voluto o potuto contrastare le forze ad esso ostili nella regione.

L’interferenza degli attori regionali è e rimane un forte ostacolo. I governi occidentali hanno appoggiato la mediazione, ma non hanno impedito o limitato l’interferenza in Libia di alleati ed amici, come l’Arabia Saudita, la Turchia e l’Egitto, allo scopo di assicurarsi nella regione altri interessi e obiettivi, evidentemente ritenuti più importanti.

Perché e dove l’accordo è mancato?
Gli islamisti-rivoluzionari di Tripoli non accettano due significativi provvedimenti approvati dalla Camera dei Rappresentanti di Tobruk: la nomina del generale Hiftar come comandante supremo delle forze armate e la cancellazione della legge di epurazione istituita dagli islamisti-rivoluzionari alla fine del 2013 (indubbiamente due delle cause maggiori della guerra civile).

Inoltre, non accettano di dissolvere il loro parlamento nel Senato di nomina nelle linee di quanto suggerito da Léon, per superare in qualche modo l’antinomia creatasi con la guerra civile fra la Camera dei Rappresentanti, eletta nel giugno 2014, e il Congresso nazionale generale, arbitrariamente riesumato da quelli che le elezioni non le avevano vinte (una controversia questa che sembra echeggiare quella attualmente in corso in Italia).

Su questi punti non c’è una contrapposizione netta fra le due fazioni. Al contrario, ci sono notevoli dissensi interni e raccordi trasversali. Questo anche perché la mediazione di Léon - che in questo ha compiuto il suo capolavoro - ha fatto affiorare la spinta unitaria e democratica della società civile libica.

Questa società di fatto costituisce oggi una maggioranza, che però non ha una sua leadership (un problema comune a tutte le rivoluzioni arabe del 2011) e non riesce a superare quindi gli interessi conservatori delle rispettive forze militari e dei leader politici ad esse legati.

La prospettiva nazionale è un rischio mortale per le milizie islamiste-rivoluzionarie e per le forze di Hiftar. Le milizie hanno già ucciso una volta la transizione libica per i loro interessi. In pratica, si apprestano a farlo una seconda volta.

Le prospettive di un Governo di Accordo nazionale
Un Governo di Accordo Nazionale, come quello evocato nella bozza dell’Onu, ha comunque la sua base e potrebbe nascere da una scissione trasversale delle fazioni, lasciando fuori i militari e i politici faziosi.

Questi però attaccherebbero il nuovo governo rilanciando una nuova guerra civile. Perché il Governo di Accordo nazionale possa affrontare e superare la sua transizione ci dovrebbe essere un forte sostegno, anche militare, della società internazionale: sarebbe normale aspettarselo da parte di quella occidentale.

Ma di questo manca l’appetito, come dicono gli anglosassoni. La prova diplomatica data nel corso della mediazione di Léon, inoltre, non augura bene. Infine, è evidente che, malgrado l’allarme per il sedicente Sato islamico in Libia, gli occidentali (e i russi) sono concentrati sulla Mezzaluna Fertile, la Siria e l’Iraq.

Di fronte poi agli sviluppi della mobilità dei siriani, degli iracheni e degli afghani, finora affollati in Turchia, in Giordania e in Libano, e ora in movimento verso l’Europa, riaprendo la rotta dei Balcani, anche i flussi in arrivo più o meno imperterriti dall’Africa e dal Medio Oriente attraverso il Mediterraneo e l’Italia sembrano diventati minori.

Diplomazia e migrazioni, il ruolo dell’Occidente
Dunque che cosa accadrà? È probabile che la mediazione Onu ricomincerà con un nuovo inviato, ma difficilmente potrà riprendere la linea di Léon - come lui ha suggerito nella sua ultima conferenza stampa a Skhirat.

Potrebbe invece puntare ad aggregare le forze della pace contro i signori della guerra e i loro procuratori politici, come si è appena accennato. Ma in questo caso non potrà esimersi dal trovare e fomentare le forze esterne decise a contribuire militarmente e politicamente all’impresa, tenendo a bada i forti interessi (specialmente nella regione) che invece non sono favorevoli a questo corso. Non è un compito facile, anzi è decisamente difficile.

Per farlo, l’Onu ha bisogno di un deciso e coraggioso appoggio dei governi. I governi europei avrebbero un forte e specifico interesse a sostenere l’Onu in questa strategia.

Se dovessimo giudicare dalla situazione di oggi, questo appoggio europeo è però improbabile, anche se quello che sta accadendo con l’esodo ormai generalizzato dei rifugiati potrebbe fare il miracolo di risvegliare gli europei.

Altrimenti è plausibile che si crei in Libia un’area di confitti endemici e di continuate tracimazioni, nei cui confronti qualsiasi gestione risulterà tanto costosa quanto poco produttiva.

Roberto Aliboni è consigliere scientifico dello IAI.
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mercoledì 23 settembre 2015

Egitto: una svolta nel settore energetico

EGITTO: SCOPERTO UN ENORME GIACIMENTO PETROLIFERO

La Italiana ENI  ha scoperto al largo delle coste egiziane un giacimento petrolifero che presenta un potenziale di risorse fino a 850 miliardi di metri cubi di gas /5,5 miliardi di barili olio equivalenti)in una estensione di circa 100 chilometri quadrati. Si tratta della più grande scoperta di gas effettuata in Egitto e nel Mediterraneo e può diventare una delle maggiori scoperte a livello mondiale. Le esigenze dell’Egitto in termini di energia saranno soddisfatte per decenni. L’ENI ha effettuato il ritrovamento nella zona di esplorazione  denominata Zohr rientrante nell’accordo siglato nel gennaio 2014  con il Ministero del petrolio egiziano e con la Egyptian Natural Gas Holding Company EGAS a seguito di una gara internazionale. Il pozzo Zohr IX attraverso il quale è stata effettuata la coperta è situato a 1450 metri di profondità nel blocco di Shorouk. L’Egitto, che aveva accordi per importare gas naturale e petrolio dalla Russia e dall’Algeria con la messa in produzione del gas di Zohr diventerà autonomo e libererà gas aggiuntivo per l’importazione in altri paesi.


Massimo Coltrinari

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giovedì 17 settembre 2015

Somalia: attacchi a AMISON

se.

somalia 184

Lo scorso 31 agosto un commando di al-Shabaab, gruppo terroristico somalo affiliato ad al-Qaeda, ha attaccato la base militare di Janale (50 km a sud di Mogadiscio), causando la morte di 50 soldati ugandesi parte del contingente di AMISOM (African Union Mission in Somalia). L’elevata sofisticazione dell’attacco, caratterizzata dall’uso combinato di un attentatore suicida e di un nutrito gruppo di miliziani, ha dimostrato che, nonostante le perdite umane e territoriali degli ultimi due anni, il movimento jihadista somalo appare ben lungi dall’essere sconfitto e continua a rappresentare una seria minaccia alla stabilizzazione della Somalia e alla sicurezza di tutta la regione. Infatti, nonostante il contingente dell’Unione Africana e il Governo di Mogadiscio controllino, non senza difficoltà, i principali centri urbani del Paese, le aree rurali e numerosi villaggi sono tutt’ora amministrati dai miliziani di al-Shabaab. 
Negli ultimi tre mesi il gruppo jihadista è tornato a colpire con maggiore frequenza e durezza sia gli avamposti e le truppe di AMISOM sia le istituzioni ed alcune personalità influenti del panorama politico somalo. Una simile ripresa della attività su larga scala è probabilmente dettata dalla necessità, da parte del nuovo emiro del gruppo Ahmed Omar, di rafforzare la propria leadership dopo la morte del suo predecessore Ahmed Abdi Godane, dimostrando al contempo la vitalità e la forza di al-Shabaab. 
Il bisogno di rafforzare il proprio ruolo di comando e l’esigenza di sottolineare la perduranza del fronte jihadista somalo e di tutto il Corno d’Africa, potrebbero tradursi in un prossimo aumento degli attacchi nella regione, sia contro obbiettivi militari che contro obbiettivi civili, inclusi cittadini stranieri.

Somalia

Fonte. C.E.S.I Vk 184

sabato 5 settembre 2015

Libia: per la Comunità Internazionale è tempo di agire

Inazione internazionale
Libia: aspettando l’accordo come Godot o agire
Giuseppe Cucchi
28/08/2015
 più piccolopiù grande
Nella primavera del 1944 l'Unione Sovietica, esasperata dalla lunga, e sino a quel momento vana, attesa dell'apertura di un secondo fronte alleato in Europa che allentasse la pressione esercitata dalla Germania verso Est, scriveva su uno degli organi di stampa di regime "Ci sono due strade per un simile intervento.

La prima è quella naturale che prevede la discesa dall'alto dei cieli dell'Arcangelo Michele con la sua spada fiammeggiante. La seconda è quella sovrannaturale, che troverebbe espressione in uno sbarco di forze Usa e del Commonwealth nei Paesi Bassi o nel Nord della Francia".

Una valutazione surreale che però, fatti i dovuti adeguamenti, ben si adatta anche a quanto sta avvenendo in questo momento in area libica, dando con precisione l'idea di quale sia stato sino ad ora in questa crisi il comportamento di alcuni Paesi che dovrebbero essere fra i più grandi del mondo.

Paesi che, posti di fronte ad un incendio che divampa alle porte di casa, sono capaci soltanto di lanciarsi in sterili esortazioni, perennemente basate sulla speranza che alla fine sia qualcun altro ad impegnarsi, pagando di tasca propria ogni eventuale conto e rischiando di sporcarsi le mani in ciò che la lunga inerzia internazionale ha permesso divenisse un terribile pantano di lotta fra fazioni.

La lezione della ex Jugoslavia
Certo, la ricerca di una soluzione negoziale è auspicabile in ogni crisi, qualsiasi siano la sua entità e le sue dimensioni. Altrettanto certo è il fatto che eventuali canali di dialogo fra le parti debbano essere mantenuti aperti anche nei momenti in cui le armi fanno sentire con maggiore intensità la loro voce.

Nel contempo però è irenicamente assurdo sperare che tutti i contenziosi possano trovare una accettabile soluzione intorno ad un tavolo di trattative.

Se ci si lascia guidare da questa idea si rischia di non concludere nulla e di ritrovarsi domani con una crisi ancora da risolvere ma approfondita e peggiorata dal trascorrere del tempo. E non si tratta della peggiore delle possibili ipotesi, considerato come il volere raggiungere un accordo a tutti i costi possa magari indurre le parti a concordare su tregue o paci talmente insostenibili da portare in sé i germi di future, peggiori catastrofi.

In particolare, come tra l'altro in tempi relativamente recenti ci hanno tragicamente dimostrato le guerre della dissoluzione jugoslava, ogni crisi ha un suo preciso momento di culmine superato il quale il bilancio di sangue versato è divenuto tanto pesante, e gli odi reciproci così profondi, che diviene inutile sperare che le parti possano accettare di aprire un dialogo e condurlo avanti, più o meno autonomamente, sino ad un accordo.

Il dialogo, se dialogo ci sarà, potrà soltanto essere imposto dall'esterno, da altri protagonisti più forti, disposti ad impegnarsi in prima persona per costringere, sorvegliare, garantire.

È il ruolo che nella catastrofe jugoslava hanno svolto gli Stati Uniti, riuscendo a tirarsi dietro sotto le bandiere della Nato anche buona parte di una Unione europea (Ue) i cui sforzi si erano limitati sino a quel momento a sagge esortazioni alla ragione, tanto ripetute quanto vane.

Interventi diplomatici internazionali ‘leggeri’
Nella crisi libica siamo ancora palesemente a quel medesimo stadio, nonostante il fatto che la situazione sull’altra sponda del Mediterraneo divenga di giorno in giorno più complicata e pericolosa, con l'Isis che potrebbe a breve scadenza dilagare a macchia d'olio da Sirte e che già ora costella di focolai di infezione tutti i paesi vicini, primo fra tutti l'Egitto.

Di fronte a simili dati di fatto che cosa possiamo mettere sul tavolo? Una iniziativa delle Nazioni Unite, affidata oltretutto non a una personalità di spicco che potrebbe conferirle l'adeguato peso politico ma ad un diplomatico spagnolo bravo quanto si vuole ma estremamente leggero sul piano della considerazione internazionale.

Non c'è così da stupirsi se l'esercizio diplomatico ha finito col trasformarsi in una ripetitiva e sterile partita di ping-pong fra il governo di Tobruk e quello di Tripoli, impegnati a rimpallarsi in eterno accuse e responsabilità.

Alla mediazione delle Nazioni Unite s’è aggiunta di recente "l'esortazione" alle parti promossa dal ministro degli Esteri italiano Paolo Gentiloni. Iniziativa certamente lodevole - cui hanno subito aderito alcuni fra i maggiori protagonisti della scena internazionale, ben contenti di avere trovato il modo di poter dire domani "Ho tentato di fare qualcosa!" -, ma che rischia di essere completamente inutile se non verrà integrata a breve scadenza da misure concrete e decisive.

Così come essa è ora, l'iniziativa ricorda infatti soltanto l'esortazione che San Filippo Neri rivolgeva ai bambini del suo oratorio: "Buoni, state buoni … se potete!". No, questi bambini libici sono bambini che per il momento proprio non possono stare buoni!

Che cosa possiamo fare? Alternative
Ritorna quindi, insistente e sino ad ora pressoché totalmente inevasa, la domanda "Che cosa possiamo fare"? E soprattutto che cosa può fare l'Italia, un Paese che è in prima fila per ciò che riguarda gli elementi di danno e di rischio connessi alla crisi, ma che nel contempo assolutamente non dispone della forza necessaria a farvi fronte da sola?

Al di là della tentazione di far tintinnare le sciabole, che sempre più spesso si individua nell'ambito di alcuni settori della nostra politica e dei nostri mass media, da ogni equilibrata valutazione emerge infatti con impressionante chiarezza come un eventuale nostro sforzo in senso militare potrebbe concretizzarsi al massimo nell'invio in area di una forza composta da un totale di 10/15 mila uomini: 15 nel caso in cui lo sforzo dovesse essere di breve durata, 10 se esso fosse destinato a prolungarsi nel medio e lungo termine.

Una disponibilità tanto esigua di forze rende indispensabile per l'azione la costituzione di una qualsiasi forza multinazionale di dimensioni adeguate. Il che significa muoversi sotto una delle tre bandiere possibili, vale a dire in primo luogo quella delle Nazioni unite, poi quella della Nato ed infine quella della Ue.

Non possedendo né la leadership degli americani né la disinvoltura neo colonialista della Francia non possiamo infatti pensare a ‘coalitions of the willings’ cui possano associarsi, sollecitati da una nostra iniziativa, altri Paesi dell'area mediterranea dotati, essi sì, di forze militari di entità sufficiente a configurare una forza di peacekeeping credibile. Il riferimento è chiaramente all'Egitto e alla Algeria, minacciati quanto noi e per molti aspetti più di noi dalla crisi libica.

Non subordinare l’azione al consenso libico
Perché esista domani una forza di peacekeeping - anzi per essere precisi di peaceenforcing! - destinata ad operare nel Paese occorre però che sin da oggi qualcuno inizi a proporne la costituzione nelle sedi dovute, chiarendo tra l'altro che essa dovrebbe comunque essere messa in piedi indipendentemente da quell'assenso congiunto dei due governi di Tobruk e di Tripoli, entrambi per molti versi illegittimi, che potrebbe in futuro venire o più probabilmente non venire.

È tempo quindi che l’Italia inizi a muoversi in quella direzione, cercando magari di dare forza alla sua voce con il tentativo di imporre la sicurezza europea come un unicum inscindibile che renda impossibile separare ciò che avviene in questo momento a nord est, in Ucraina ed ovunque i nostri interessi contrastino con quelli russi, con quanto sta succedendo a sud, dall'altro lato di quel mare Mediterraneo che in questo particolare periodo storico unisce ed accomuna molto più di quanto non separi.

A corollario e a premessa, come più volte già indicato in sedi autorevoli ma mai realizzato, occorrerebbe cercare di tagliare i cordoni finanziari che ancora alimentano le fazioni in lotta permettendo loro di perpetuare gli scontri.

Tagliare i cordoni finanziari
Una operazione quanto mai difficile, che da un lato richiederebbe adeguate pressioni politiche sui vari sponsor dei combattenti, un elenco molto lungo che coinvolge buona parte del mondo arabo, e non soltanto di quello.

D'altro canto, invece, su scala nazionale, bisognerebbe costringere l'Eni a cercare altrove fornitori sostitutivi della aliquota di idrocarburi per cui ancora dipendiamo dalle forniture della Libia, interrompendo così oltre al flusso di petrolio e gas verso l’Italia, anche quel continuo flusso di valuta che dall'Italia raggiunge la Banca centrale libica, organismo preposto a smistarlo poi in maniera equilibrata fra tutte le parti in lotta.

Un flusso la cui esistenza fa sì che gli italiani possano essere annoverati non solo fra le maggiori vittime, ma altresì fra i maggiori responsabili del perdurare di questa crisi.

Per quanto grandi possano apparire le difficoltà, bisogna quindi tentare di agire, essendo pronti se necessario ad adottare soluzioni imperfette e pericolose e sapendo che spesso bisognerà scegliere il male minore e turarsi eventualmente il naso accettando se indispensabile alleati per molti versi discutibili.

Il tutto nella piena consapevolezza del fatto che il tempo gioca contro di noi e ci obbligherà quindi, qualora decidessimo di impegnarci, ad adottare tutta una serie di quelle "decisioni sul tamburo" che le grandi democrazie hanno sempre difficoltà a concepire ed accettare.

Ci sono soluzioni alternative? Sì, forse quella di attendere anche noi la discesa dal cielo di un Arcangelo Michele armato di spada fiammeggiante e disposto a risolvere tutti i nostri problemi!

Giuseppe Cucchi, Generale, è stato Rappresentante militare permanente presso la Nato e l’Ue e Consigliere militare del Presidente del Consiglio dei Ministri.
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mercoledì 2 settembre 2015

Egitto: il canale di Suez potenziato

EGITTO:  I DATI SUL CANALE DI SUEZ

Il 25 luglio u.s. il nuovo canale di uez è stato aperto alla navigazione dopo i lavori di raddoppio parziali avviati l’anno scorso. . Sono stati completati i lavori di dragaggio lungo i 35 chilometri del nuovo canale che affianca il vecchio all’altezza di Ismailia . Il progetto aveva un bilancio di 8,2 miliardi di dollari .. Una volta completati i lavori delle aree accessorie l’Egitto prevede un aumento dei ricavi del 259% incrementado il passaggio giornaliero dagli attuali 49  navi a 97.

Massimo Coltrinari