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Metodo di Ricerca ed analisi adottato


Il medoto di ricerca ed analisi adottato è riportato suwww.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com

Vds. post in data 30 dicembre 2009 seguento il percorso:
Nota 1 - L'approccio concettuale alla ricerca. Il metodo adottato
Nota 2 - La parametrazione delle Capacità dello Stato
Nota 3 - Il Rapporto tra i fattori di squilibrio e le capacità delloStato
Nota 4 - Il Metodo di calcolo adottato

Per gli altri continenti si rifà riferimento al medesimo blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com per la spiegazione del metodo di ricerca.

venerdì 27 gennaio 2017

Egitto: difficili rapporti con gli Usa

Usa e organizzazioni terroristiche
Egitto: Tillerson e il dilemma sulla Fratellanza 
Viola Siepelunga
25/01/2017
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Mal di testa egiziano in vista per il nuovo segretario di Stato Usa. Ora che è ufficialmente al lavoro, Rex Tillerson dovrà infatti pronunciarsi sulla proposta di legge presentata al Senato dal repubblicano Ted Cruz, acerrimo nemico della Fratellanza Musulmana egiziana.

Il testo, che prende di mira la Confraternita, chiede che questa venga definita un’organizzazione terrorista, entrando quindi a far parte della lista nera dove già si trovano, tra le altre, Al-Qaida, Hamas ed Hezbollah.

A sostenere la proposta di Cruz sono stati i senatori Orrin Hatch, James Inhofe e Pat Roberts (tutti repubblicani) che hanno lavorato a stretto contatto anche con Mario Diaz-Balart, altro compagno di partito che ha presentato una proposta simile alla Camera dei Rappresentanti.

A Tillerson spetta ora il compito di presentare al Congresso una dettagliata relazione nella quale deve spiegare se la Fratellanza possiede o meno le caratteristiche per essere inserita nella lista nera ed essere quindi trattata di conseguenza.

Ispettori della Fratellanza anche nella diaspora
Se la proposta di Cruz trovasse una sponda in Tillerson, gli Stati Uniti diventerebbero il quarto Paese al mondo a mettere al bando la Confraternita, che dal 2013 è stata costretta ad agire nuovamente in clandestinità nella madrepatria.

Dopo la caduta di Hosni Mubarak, i Fratelli Musulmani sono emersi dai lori sotterranei per agire alla luce del sole, influenzando in modo significativo l’epoca post-rivoluzionaria e imponendosi nel nuovo scenario politico. Si è trattato però di una breve parentesi, perché con il ritorno dei militari al potere la Confraternita è stata nuovamente bandita e il suo leader - l’allora presidente Mohammed Mursi- è finito in carcere, insieme a buona parte della dirigenza.

A essere bloccate sono state anche le organizzazioni caritatevoli del movimento, i cui beni e attività sono stati congelati. Ecco perché molti tra i sopravvissuti a questa epurazione hanno optato per la fuga, partendo alla ricerca di quella patria alternativa che da sempre caratterizza la vita della Fratellanza.

Quanti hanno deciso di dirigersi verso il Golfo non hanno questa volta optato per l’Arabia Saudita (tradizionale patria alternativa dei Fratelli in fuga dalla repressione nasseriana), preferendo Qatar ed Emirati Arabi Uniti. La guerra fredda intra sunnita che si è scatenata a seguito del golpe egiziano ha però portato gli emiri a riconsiderare in fretta la loro posizione.

Seguendo a ruota Riad, gli Emirati hanno deciso di dichiarare la Fratellanza un’organizzazione terroristica, a dispetto dell’alleanza storica tra il movimento di Hasan al-Banna e le monarchie del Golfo e della posizione del Qatar, che rimane tuttora il suo maggiore sponsor nella regione, affiancato dalla Turchia di Racep Tayip Erdogan.

A indagare sull’anima terroristica della Fratellanza è stata anche Londra, altra tra le mete preferite dalla diaspora egiziana. Nel 2014,il primo ministro David Cameron aveva infatti commissionato uno studio sulla Confraternita, i cui risultati, resi noti a fine 2015, l’hanno descritta come una compagine sociale e politica che non disdegna la violenza quando ritenuta necessaria e che ha intrattenuto storiche relazioni con un’organizzazione terroristica del calibro di Hamas.

La relazione è stata però criticata in primis per gli autori che l’hanno firmata, l’allora ambasciatore britannico a Riad Sir John Jenkins e Charles Farr, già direttore generale dell’ufficio per la sicurezza e la lotta al terrorismo del Ministero degli Interni. Ecco perché, nel 2016, la CommissioneAffari esteri della Camera dei Comuni britannica ha pubblicato un nuovo rapporto nel quale ha evidenziato i vizi di forma e di contenuto presenti nella precedente relazione.

La scommessa di Al-Sisi su Trump
La questione non è nuova neanche negli Stati Uniti, dove già nel 2014 la repubblicana Michele Bachmann aveva sollevato la questione, seguita, nel 2015, sempre da Cruz, portavoce al Senato di una proposta di legge nata nella commissione di affari giudiziari della Camera, grazie, ancora una volta, a Diaz-Balart, capace di raccogliere il consenso anche del democratico Collin Peterson.

A quel tempo, analisti di politica estera statunitensi vicini al Congresso avevano individuato una triade di lobbisti a sostegno dell’iniziativa: Egitto, Emirati Arabi Uniti e l’allora candidato alle primarie repubblicane, Donald Trump. Pur smentendo di avere subito pressioni egiziane, lo stesso Diaz-Balart aveva ammesso l’intercorrere di una decina d’incontri con diplomatici cairoti a Washington, con i quali ci sarebbe stato anche un intenso scambio di email.

E c’è da scommettere che il tema sia stato anche sull’agenda della delegazione del governo egiziana recentemente volata a Washington per incontrare uomini del Congresso e della neo-insediatasi Amministrazione Trump.

Dopo anni di ostilità nei confronti della détente obamiana verso la Fratellanza, il presidente egiziano Abdel Fattah Al-Sisi è certo di trovare in Trump un interlocutore più sensibile ai suoi timori securitari e più interessato alla lotta al terrorismo regionale, attraverso la quale il raìs giustifica la repressione degli islamisti.

È per questo che Al-Sisi ha deciso di investire su di lui sin dal primo momento, diventato uno dei primi leader mondiali, insieme al russo Vladimir Putin, a sostenere la sua corsa verso la Casa Bianca. La speranza è che cercando di distruggere l’autoproclamatosi “stato islamico” in tre giorni (come dichiarato durante la campagna elettorale), Trump aiuti Al-Sisi nella battaglia contro i principali, ma non unici, nemici del restaurato regime egiziano. Il timore, per i generali, è che le parole del magnate siano però solo retorica.

Solo il tempo dirà se il nuovo presidente trasformerà le sue parole in fatti, ma la risposta che Tillerson darà al dossier che ha trovato sulla sua scrivania sarà un primo indicatore delle vere intenzioni della nuova Amministrazione. L’inserimento della Fratellanza nella lista nera delle organizzazioni terroristiche sarebbe un regalo di cui Al-Sisi sarebbe molto riconoscente.

Viola Siepelunga è una giornalista free lance.

Libia: Misurata, Tobruk, Tripoli: rischio di polarizzazione

‘Reset’ o conflitto
La Libia fra l’Europa e Trump
Roberto Aliboni
25/01/2017
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In novembre la Brigata per la Difesa di Bengasi - una formazione islamista formata nel giugno 2016 e collegata agli estremisti di Tripoli del mufti al Gharayani e di Khalifa Ghweil - ha attaccato da Giufra, Libia centrale, le forze di Haftar - stanziate nella “mezzaluna del petrolio” già dal settembre scorso - con il proposito di alleggerire la pressione dell’Enl (Esercito nazionale libico) sugli islamisti di Bengasi e di Derna.

L’Enl li ha ributtati indietro e fra dicembre e gennaio ha continuato a tenerli sotto il tiro della sua aviazione. In queste missioni, tuttavia, sono stati colpiti uomini e materiali di Misurata presenti a Giufra, aprendo un duro contenzioso fra Misurata e Tobruk.

Più intenzionalmente, le forze aeree e la 12° brigata di fanteria dell’Eln hanno attaccato a Sebha, Libia meridionale, una postazione della Terza Forza di Misurata riuscendo a togliergliela (1). La Terza Forza occupa i campi petroliferi del Fezzan dal 2014, escludendo i rivali dalla regione e assicurando la linea di rifornimenti che da Sebha arriva a Misurata attraverso Giufra.

Rischi di nuova polarizzazione
Questi sviluppi da un lato attestano il rafforzamento militare di Haftar, grazie all’appoggio crescente che riceve da Egitto e Russia, e la sua espansione sul territorio; dall’altro costituiscono per Misurata una non trascurabile minaccia logistica e militare (tanto più che la Forza ha subito nel tempo non poche perdite ed è attualmente troppo allungata e frammentata), alla quale la città potrebbe decidere di rispondere riaprendo il conflitto civile.

Alcuni osservatori sottolineano che nella missione in Libia centrale della Brigata per la Difesa di Bengasi c’è proprio l’obbiettivo di spingere Misurata a rispondere all’Enl.

Qual è l’interesse degli islamisti ad agire in questo senso? Se un nuovo scontro militare si aprisse, l’area politica centrista e moderata che oggi bene o male Misurata rappresenta con il suo appoggio a Serraj potrebbe essere indotta ad allearsi di nuovo con l’ala islamista estremista.

Si tratterebbe di un’alleanza tattica, ma, come si è visto in Siria, di tali alleanze tattiche è lastricato il fallimento politico dei moderati. Si può aggiungere che i tentativi di putsch di Khalifa Ghweil a Tripoli sono una dimensione della stessa strategia. Il rischio di una nuova polarizzazione e di un nuovo scontro militare in Libia non è da sottovalutare.

Il fallimento dell’accordo di Skhirat e il ‘reset’
Se le tendenze al cambiamento e al rovesciamento degli equilibri militari esistono, è perché l’Accordo di Skhirat e il Comitato presidenziale guidato da Sarraj hanno largamente fallito.

Per evitare la ricaduta della Libia nella guerra civile, occorre rinegoziare l’Accordo di Skhirat e integrare in esso le forze che se ne sono sentite o ne sono state escluse. Il ‘reset’ suggerito dall’International Crisis Group in uno studio recente è il tema all’ordine del giorno (2).

E in effetti, la rinegoziazione è già in corso nel quadro Onu. Nella Commissione per il dialogo politico (nata con gli Accordi di Skhirat) si discute di nuovi assetti, in particolare della riduzione a quattro o a cinque dei membri del Consiglio presidenziale e dell’inserimento di un primo ministro per assolvere le funzioni di guida politica oggi svolte dal presidente del Consiglio.

Una piattaforma complessiva è emersa nella conferenza organizzata il 13-14 dicembre 2016 al Cairo con la partecipazione essenzialmente di esponenti delle opposizioni. Martin Kobler, il mediatore capo dell’Onu in Libia, l’ha apprezzata.

Mediazione politica autorevole cercasi
Ma l’Onu, a causa del fallimento degli Accordi di Skhirat e dell’insufficiente e talvolta ambiguo sostegno che ha ricevuto dai suoi fautori internazionali, difficilmente è il luogo in cui oggi possa emergere un accordo politico effettivo.

L’accordo potrà anche essere consacrato nel quadro Onu, ma deve emergere fra i libici, che al posto delle caselle e dei programmi devono trovare un equilibrio condiviso di obiettivi e di poteri.

Quest’accordo è problematico perché Haftar ha acquisito un margine di prevalenza militare e ha gli elementi per credere di poter ampliare questo margine e vincere. Tuttavia, benché indebolita sul piano militare, Misurata resta per Haftar un rivale militare di primo piano.

Se una mediazione politica autorevole non si farà viva in tempi brevi, Misurata potrebbe decidere di sfidare militarmente Haftar piuttosto che negoziare con lui e i suoi alleati. Gli sviluppi sul terreno fra dicembre e gennaio di cui abbiamo parlato hanno già riavvicinato le varie anime di Misurata di contro al campo avverso, facilitando un’eventuale opzione militare.

Esiste una mediazione autorevole che possa portare i libici all’accordo politico che l’Onu difficilmente può oggi promuovere? Autorevoli commentatori dei fatti di Libia, come Mezran (3) e Pack (4), suggeriscono d’aspettare che l’amministrazione del Presidente Trump nomini, secondo quanto sembra di sapere, un inviato presidenziale speciale nella persona di Phillip Escaravage, un vecchio amico e collaboratore di Trump, buon conoscitore della Libia.

Essi sviluppano degli argomenti per sottolineare che una stabilizzazione della Libia conviene agli Usa. Ma quali sono gli obiettivi del presidente Trump in realtà non è ancora chiaro. Essi comunque potrebbero divergere significativamente dagli interessi europei.

Aspettando Trump e l’Europa
Intanto la diplomazia dei maggiori Paesi europei ha già integrato la nozione di un ‘reset’ degli Accordi di Skhirat, è consapevole dei rischi in atto e sta esercitando pressioni soprattutto sui patroni regionali di Tobruk e Haftar perché si moderino militarmente e politicamente favorendo un compromesso.

Gli ultimi passi che l’Italia ha compiuto verso la Libia sono troppo vicini al governo Serraj e potrebbero risultare più dannosi che utili nel tentativo di ricostituire le condizioni per un compromesso politico fra le parti libiche.

Il lento ma evidente riemergere dalla crisi Regeni con l’Egitto potrebbe invece mettere anche l’Italia in grado di agire con efficacia nella direzione di una mediazione da parte europea.

È da dire che, mentre inizia la presidenza Trump, agli occhi dei libici e dei Paesi della regione gli europei appaiono anche più deboli del consueto. Essi, del resto, non hanno fatto nulla per coordinarsi fra di loro e cercare così di accrescere la loro autorità.

Tuttavia, il tentativo di una mediazione come quella in corso va fatto, anche per cercare di preparare le condizioni per un’autonomia europea nel Mediterraneo. All’epoca della crisi di Suez, nel 1956, gli Usa negarono tale autonomia agli europei nel Mediterraneo, ma hanno poi protetto gli interessi europei nel quadro dell’Alleanza. Oggi il rischio è che quest’autonomia venga negata ancora più recisamente e senza nessuna contropartita.

(1) W. Pusztai and A. Delalande, “A New Civil War Could Break Out in Libya”, War Is Boring, in https://warisboring.com/a-new-civil-war-could-break-out-in-libya-1e0fa7c20cf0#.rl0p7auk9.
(2) International Crisis Group, The Libyan Political Agreement: Time for a Reset, Brussels, 4 November 2016 in https://www.crisisgroup.org/middle-east-north-africa/north-africa/libya/libyan-political-agreement-time-reset.
(3) Karim Mezran, The Case for Wider US Engagement in Libya, Atlantic Council, January 4, 2017, in http://www.atlanticcouncil.org/blogs/menasource/the-case-for-wider-us-engagement-in-libya.
(4) J. Pack and N. Mason, A Trumpian Peace Deal in Libya?, Foreign Affairs, Snapshot, January 10, 2017 in https://www.foreignaffairs.com/articles/libya/2017-01-10/trumpian-peace-deal-libya
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mercoledì 25 gennaio 2017

Egitto: prospettive sulla informazione e sul potere

Egitto
La lunga mano di Al-Sisi sui poteri indipendenti
Viola Siepelunga
18/01/2017
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“Ci siamo preoccupati di controllare i mezzi di informazione sin dal primo giorno in cui noi (militari, ndr) abbiamo ripreso il potere”. Parola del presidente egiziano Abdel Fattah Al-Sisi.

Quando si è fatto scappare queste dichiarazioni - era l’ottobre 2013 -, come nelle migliori tradizioni egiziane il futuro raìs indossava ancora la divisa da generale. Ecco perché all’epoca le sue parole risuonavano solo come intimidatorie.

Riascoltate tre anni dopo, alla fine di un’annata in cui lungo il Nilo sono stati arrestati 25 giornalisti, quelle affermazioni sembrano piuttosto avere annunciato una profezia divenuta in fretta realtà. Nel 2016, infatti, l’Egitto ha conquistato il gradino più basso di un podio, quello di chi calpesta la libertà di stampa, le cui posizioni più alte sono già occupate da Turchia e Cina.

Libertà di espressione e sfera pubblica 
Nel tentativo di terrorizzare e mettere a tacere il maggior numero possibile di professionisti dell’informazione critici nei confronti dei militari, Al-Sisi non si è fatto scrupoli a utilizzare un apparato repressivo che ha fatto perno su censura e autocensura per garantire la tenuta del paese.

Un meccanismo tutt’altro che nuovo alla storia repubblicana egiziana. Già il primo presidente, Gamal Abdel Nasser, cercò di nazionalizzare il sindacato della stampa, mentre il suo successore, Anwar al-Sadat, fece di tutto per trasformarlo in un club.

Al resto pensarono Hosni Mubarak e, nel suo breve periodo al potere, l’islamista Mohammed Morsi: entrambi fecero infatti il possibile per avere saldamente il controllo della testa e dei diversi organi del sindacato. Nessuno dei due, però, riuscì a realizzare pienamente l’obiettivo.

Sul terreno della libertà di stampa si è quindi combattuta la battaglia della sfera pubblica egiziana, la cui sopravvivenza, qui minacciata, è stata già negata in altri ambiti. La resistenza è continuata anche negli ultimi dodici mesi, in quella che diversi analisti descrivono come l’epoca della più nera repressione mediatica dell’ultimo secolo di storia egiziana.

Una legge per controllare i media 
A confermare questa preoccupante escalation sarebbe anche una recente legge che si propone di regolamentare, da un punto di vista istituzionale, i mezzi d’informazione. Atteso da tempo e a lungo discusso, il nuovo testo di legge - approvato dal Parlamento prima di Natale - prevede la creazione di tre organismi destinati a supervisionare tutte le piattaforme mediatiche attive lungo il Nilo.

Al primo organo spetta il compito di vigilare sulla stampa statale, anche al fine di selezionarne i vertici; al secondo quello di controllare tutti gli altri canali statali. Il terzo occhio del Grande Fratello del Cairo, l’Alto consiglio per la regolamentazione dei media, dovrebbe invece estendere il suo sguardo sui restanti altri media, pubblici e privati.

Questo accresciuto potere di controllo dello stato sul settore mediatico è in linea con quanto già previsto dalla legge anti-terrorismo approvata da Al-Sisi nell’estate 2015. Questa, infatti, proibisce ai giornalisti di riportare statistiche e notizie false o non ufficiali, soprattutto se relative allo scottante tema della sicurezza e alle altre linee rosse tracciate - più o meno nettamente - dal regime.

Ecco perché è stata immediata l’alzata di scudi del sindacato dei giornalisti, da mesi in aperto scontro con i militari e l’apparato di sicurezza.

Secondo Yehia Qallash - leader dell’Unione che, pur avendo partecipato alle discussioni sulla legge, ha denunciato di essere stato ignorato nella stesura del testo definitivo -, il provvedimento contraddice l’art. 72 della nuova Costituzione, che mira a proteggere l’indipendenza dei media dallo stato, anche al fine di garantire, tramite l’equo accesso ai diversi canali, la neutralità dell’informazione.

Magistratura e regime, vigilia dell’ennesimo scontro 
L’interferenza dello Stato sul quarto potere non è l’unica a fare discutere. A inizio gennaio, il dibattito si è spostato anche sulla magistratura.

Una bozza di legge depositata da un deputato appartenente alla coalizione che sostiene Al-Sisi ha infatti proposto che sia il presidente a scegliere e nominare i vertici delle quattro principali autorità giudiziarie del Paese. Attualmente, queste figure sono scelte dalle assemblee generali di ciascuna istituzione in base anche all’anzianità di servizio.

Secondo la nuova proposta di legge, dovrebbe invece spettare al presidente della Repubblica il potere di scegliere, senza alcun chiaro criterio, chi promuovere in una rosa di nomi proposti.

Il primo a opporsi a questo disegno di legge è stato il Consiglio supremo della magistratura, istituzione che, essendo direttamente toccata da questa eventuale modifica, ha espresso chiaramente le sue riserve. Nel dibattito è poi intervenuto il Club dei giudici, gruppo che - sin dal massacro del 1969 - è stato protagonista dei principali scontri della storia egiziana tra regime e togati.

Dieci anni fa, il Club si espose apertamente contro il vecchio faraone, dando il via a una battaglia per la riforma del sistema giudiziario che rafforzasse l’indipendenza dall’esecutivo. Allora, questa ‘rivolta dei giudici’ fu sedata dal regime di Mubarak sempre con un misto di pratiche repressive e di cooptazione.

Alle elezioni successive, nel 2009, nel Club si imposero giudici niente affatto disposti a contrastare il regime. Pur traducendosi in un nulla di fatto, l’attivismo dei giudici riformisti (che anticipò, per alcuni aspetti, la rivoluzione del 2011), lasciò tuttavia un’eredità importante nei circoli dell’opposizione al regime.

Ecco perché durante la transizione, la magistratura venne vista come un’isola di integrità nel nuovo stato. In poco tempo, però, il regime di Al-Sisi è riuscito nella sua operazione di pulizia e attualmente il Club dei giudici non è così forte, arrabbiato e determinato come quello di dieci anni fa.

Difficilmente riuscirà quindi a mobilitare quelle masse di cittadini che lo avevano sostenuto nel passato più recente. Lo stesso si può dire del sindacato dei giornalisti che, pur essendo, dopo un momento di tregua, in aperto scontro con il regime, non ha però la forza di portare in strada milioni di persone. Anche se il livello di allarme è ancora sotto controllo, minimizzare la portata dello scontro in atto tra poteri sarebbe tuttavia un errore.

Il regime di Al-Sisi si regge sulla lealtà dei suoi pilastri portanti. Qualora questi vacillassero, magari rivendicando quell’autonomia formalmente riconosciuta ma nei fatti negata, l’intera impalcatura rischierebbe il tracollo.

Viola Siepelunga è una giornalista free lance.
 
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lunedì 16 gennaio 2017

Trump: prospettive ed interrogativi


L'America di Trump
Trump, se il mondo arabo vuol fare l'antiamericano
Azzurra Meringolo
14/12/2016
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Per il mondo arabo, Usa 2016 è stata la prima campagna presidenziale nel corso della quale l’islamofobia - e con essa l’hate speech - è stata uno strumento strategico utilizzato per incassare consenso.

Dopo che Donald Trump, nel dicembre 2015, ha proposto di vietare l’ingresso dei musulmani negli Stati Uniti, l’appuntamento elettorale è diventato un test in cui alla prova, oltre ai due candidati, c’era l’intero elettorato statunitense chiamato a esprimersi anche sui toni apertamente razzisti del tycoon.

La retorica islamofobiche e le audience arabe
Un sondaggio pre elettorale svolto da YouGov ed Arab News aveva infatti mostrato come la retorica islamofobica della campagna del tycoon stesse alienando le audience arabe: anche se sulle tematiche sensibili, come l’aborto e la condizione femminile, oltre il 75% degli intervistati si sentiva più vicino alle posizioni di Trump, solo il 9% avrebbe dato a lui la sua preferenza.

In aggiunta, un’indagine di opinione realizzata un mese prima dell’election day dall’Arab Center di Washington su un campione di 3600 persone residenti in nove Paesi arabi ha mostrato come oltre il 60% degli intervistati aveva già allora un’opinione negativa di Trump.

Nonostante questo, meno del 20% credeva che il cambio di guardia alla Casa Bianca potesse avere un impatto significativo sulla politica estera globale e regionale degli Stati Uniti. E solo il 13% pensava che con Trump alla presidenza questo impatto potesse essere positivo.

All’indomani del risultato, Trump ha comunque ricevuto le congratulazioni di tutti i leader arabi, ma il pragmatismo dei governanti arabi non ha contagiato le società arabe. Sono infatti rimasti critici sia la maggioranza dei cittadini che i rappresentanti dell’Islam più radicale.

Basta pensare alle prime parole pronunciate da Abu Muhammad Al-Maqdisi, ideologo di Al-Qaeda, che non ha esitato a definire il successo di Trump l’inizio del declino più profondo e della disintegrazione degli Stati Uniti. Secondo Al-Maqdisi, infatti, l’elezione di Trump ha messo a nudo, una volta per tutte, la mentalità razzista e islamofobica degli statunitensi. Questo potrebbe quindi motivare i musulmani nemici degli Stati Uniti a reagire.

Reazioni immediate a parte, in pochi si sono sbilanciati nel fare previsioni sulla politica estera di Trump nella regione. Come già scritto su questa rivista, l’approccio al mondo del neo eletto presidente è infatti poco prevedibile.

Per abbozzare qualche pronostico si può al massimo riflettere su tre elementi che hanno caratterizzato la campagna elettorale di Trump: il nazionalismo estremamente realista; la preferenza per accordi bilaterali con le potenze regionali e la riluttanza a intervenire militarmente su larga scala. Anche questi però vanno presi con cautela, visto che le prime dichiarazioni del Trump presidente hanno in parte rinnegato gli annunci fatti durante la campagna elettorale.

Molto dipenderà dai nomi degli uomini che andranno a comporre la sua squadra. E le prime nomine non fanno ben sperare. Anzi visti i profili, il timore è che l’islamofobia che Trump ha usato per fare campagna elettorale, diventi ora un pilastro della sua pratica politica che in Medio Oriente avrà come priorità la lotta al terrorismo.

Trump come Bush figlio 
L’enfasi posto dal nuovo presidente su questo ultimo aspetto ha spinto molti analisti a paragonare Trump con Bush figlio e a prevedere che il pendolo che registra l’andamento dell’azione statunitense nel mondo subirà una significativa oscillazione, tornando nella posizione già occupata durante l’epoca di Bush, ovvero l’estremo opposto di quello nel quale si è posizionato con l’arrivo di Obama.

Anche se sull’interventismo Trump è stato cauto, è probabile che con il suo ingresso alla Casa Bianca gli Stati Uniti prenderanno le distanze dalle politiche della “mano tesa” volute (e spesso rimaste solo parole), da Obama.

Come Bush, che voleva trasformare il Medio Oriente in una parte di mondo più stabile, anche Trump potrebbe commettere una serie di errori che porterebbero al risultato opposto, al contempo nutrendo le istanze antiamericane. Quelle sempre esistite e congenite alla regione; ma anche quelle sopite dall’avvento di Obama e dal restyling di immagine a cui questo ha costretto gli Stati Uniti appena entrato alla Casa Bianca.

L’antiamericanismo nell’epoca Trump
Anche se la burocrazia di Washington riuscirà ad imbrigliare il nuovo presidente, il suo arrivo alla Casa Bianca contribuirà a delineare l’immagine degli Stati Uniti nel mondo; tanto più se Trump continuerà a utilizzare i toni incendiari della sua campagna.

In generale però, la figura presidenziale ha un peso relativo sull’evoluzione dell’antiamericanismo. E questa è probabilmente una buona notizia per gli osservatori preoccupati da un’eventuale crescita dell’antiamericanismo dovuta all’arrivo alla Casa Bianca di un personaggio tutt’altro che amato nel mondo arabo.

Consapevole di non essere un uomo popolare in Medio Oriente, all’indomani della vittoria, Trump è sembrato pronto a ricorrere ai ripari. Per scongiurare il peggio è andato a ripulire il suo programma elettorale, ritoccando la versione online dalla quale è scomparso il punto relativo al divieto di ingresso dei musulmani nel Paese. Un aggiustamento fatto probabilmente pensando alle conseguenze, in primis per la sicurezza della nazione, di una politica dagli spiccati toni islamofobici.

Se da un lato è quindi prematuro prevedere un inasprimento sostanziale dell’antiamericanismo arabo legato esclusivamente alla nuova figura presidenziale, dall’altro si può già ipotizzare che se Trump si limiterà a modifiche cosmetiche del suo programma, cercando nei fatti di realizzarlo, avrà poche carte per contenere e combattere attivamente l’antiamericanismo arabo - un fenomeno che pur avendo radici relativamente giovani nella regione necessita ricette elaborate e di lungo periodo per essere estirpato.

Né media diplomacy, né soft power riusciranno a vincere, da soli, le menti e i cuori degli arabi che negli ultimi decenni hanno maturato, per svariate ragioni e in diversa misura, un risentimento più o meno profondo nei confronti della Casa Bianca.

Con l’arrivo del neo eletto, il timore è che la componente più virulenta dell’antiamericanismo possa, nel tempo, diffondersi e radicarsi in una fascia più ampia della popolazione, trasformandosi da mentalità a ideologia.

Qualora questo accadesse, i pericoli per la Casa Bianca sarebbero certamente maggiori: in un mondo sempre più interconnesso, una volta cristallizzate, le ideologie sono più complesse da estirpare rispetto a mentalità che non portano direttamente alla creazione di pregiudizi.

Azzurra Meringolo è ricercatrice presso lo IAI e caporedattrice di AffarInternazionali. Coordinatrice scientifica di Arab Media Report. Potete seguirla sul suo blog e su twitter a @ragazzitahrir.