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Metodo di Ricerca ed analisi adottato


Il medoto di ricerca ed analisi adottato è riportato suwww.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com

Vds. post in data 30 dicembre 2009 seguento il percorso:
Nota 1 - L'approccio concettuale alla ricerca. Il metodo adottato
Nota 2 - La parametrazione delle Capacità dello Stato
Nota 3 - Il Rapporto tra i fattori di squilibrio e le capacità delloStato
Nota 4 - Il Metodo di calcolo adottato

Per gli altri continenti si rifà riferimento al medesimo blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com per la spiegazione del metodo di ricerca.

venerdì 27 maggio 2016

Libia: i libici vogliono fare da soli

Armi in Libia, eccezione alla regola
Umberto Profazio
20/05/2016
 più piccolopiù grande
Volta alla stabilizzazione di un Paese ormai logorato da 5 anni di lotte intestine e consumato dall’espansionismo del gruppo terrorista del’autoproclamatosi Stato Islamico, la conferenza di Vienna sulla Libia ha prodotto risultati scontati, non in grado di imprimere una svolta e suscettibili di porre nuovi ostacoli al lungo processo di transizione.

Il tandem Roma-Washington
La conferenza ministeriale di Vienna del 16 maggio è stata il prodotto degli sforzi diplomatici di Stati Uniti e Italia. A prima vista, il tandem Roma-Washington sulla crisi libica, inaugurato lo scorso 13 dicembre con la Conferenza Internazionale di Roma sembra tenere.

Tra i risultati principali, oltre all’accordo di Skhirat del 17 dicembre sul governo di unità nazionale, vi è anche il trasferimento a Tripoli del Government of National Accord, Gna, guidato dall’uomo d’affari Fayez al-Serraj e l’emarginazione del General National Congres, Gnc, il parlamento di Tripoli guidato da Nuri Abusahmain a cui fa capo il Governo di Salvezza Nazionale del Premier Khalifa Ghweil.

Nonostante questi segnali positivi, sul terreno il bilancio risulta essere più magro. La più volte annunciata avventura militare nel Paese sembra sollevare numerosi dubbi e perplessità. Più spesso ipotizzata a fini addestrativi, l’opzione di una missione internazionale di sostegno e stabilizzazione risulta sempre meno appetibile. Se non sconfessata.

Apertamente, come nel caso dell’Italia, dove il governo ha deciso di puntare sulla strada diplomatica, lasciandosi aperta la possibilità di inviare soldati per la protezione della sola sede diplomatica. O implicitamente, come nel caso statunitense, dove risulta alquanto improbabile che il Presidente Barack Obama impegni gli Stati Uniti nella regione durante la delicata stagione elettorale. A garantire la sicurezza degli uffici delle Nazioni Unite a Tripoli sarà con molta probabilità un contingente proveniente dal Nepal.

Un’eccezione all’embargo di armi
Nell’impossibilità di intervenire direttamente in Libia, i principali attori interessati hanno concordato nel ridiscutere la questione dell’embargo. Di fronte alle richieste di al-Serraj, anch’egli presente nella capitale austriaca, gli Stati partecipanti hanno aperto all’ipotesi di armare il governo di unità nazionale per combattere più efficacemente lo Stato islamico.

Le modalità erano state approntate nei giorni precedenti. Il 10 maggio infatti il Gna aveva annunciato la creazione di una nuova forza militare, la Guardia Presidenziale. Basata a Tripoli, essa sarà composta da personale di polizia e esercito selezionato nelle diverse regioni libiche e servirà a garantire la sicurezza degli uffici, del personale, dei membri stessi del governo e delle infrastrutture considerate vitali.

L’ipotesi di un affievolimento delle sanzioni non è del tutto nuova. In passato era stato l’Egitto a richiederla con insistenza, al fine di armare Haftar e sostenere il Parlamento di Tobruk. Vi è inoltre da ricordare come l’embargo sia stato spesso violato: più recentemente dagli Emirati Arabi Uniti, come evidente dalle foto diffuse a fine aprile sulla consegna di pick-up e veicoli trasporto truppe alla Libyan National Army di Haftar.

Dal comunicato finale della conferenza di Vienna tuttavia emerge che a essere esentato dall’embargo sarà esclusivamente il Gna. La decisione sembra andare contro gli interessi dell’Egitto, che compare comunque tra i firmatari del comunicato finale di Vienna.

Tuttavia la recente visita di al-Serraj al Cairo durante un vertice della Lega Araba e il suo incontro con il Presidente al-Sisi potrebbe aver portato a nuovi sviluppi. Nell’occasione il Presidente egiziano si è espresso a supporto di al-Serraj e dell’esercito libico e pronto a cooperare nella lotta al terrorismo.

Assist allo Stato islamico 
La situazione sul terreno continua infatti a essere confusa. Nonostante le sanzioni internazionali approvate contro i principali responsabili dello stallo politico, in Libia continuano a operare tre governi, ognuno con una propria agenda politica e militare, in particolare nell’ambito della lotta a Daesh. L’obiettivo per tutti è la riconquista di Sirte che garantirebbe non solo una indiscussa legittimità, ma anche notevoli vantaggi tattici.

Per tale motivo Haftar ha annunciato l’operazione al-Qurdabyia, che oltre a presentarlo come il salvatore della patria, gli garantirebbe una notevole penetrazione verso Tripoli. Consapevole del rischio, al-Serraj ha chiesto alle controparti libiche di sospendere ogni operazione militare contro Sirte, sollevando timori sul mancato coordinamento delle offensive militari, annunciate anche dal Premier Ghweil.

Della confusione ha naturalmente approfittato lo Stato islamico che ai primi di maggio si è mosso verso ovest, occupando Abugrein e minacciando da vicino Misurata. Mettendo a nudo al contempo il difficile momento di quelle che fino a poco tempo fa erano considerate le milizie più potenti del Paese e le fragili fondamenta del Gna.

Umberto Profazio è dottore di ricerca in Storia delle Relazioni Internazionali presso l’Università di Roma “Sapienza”, Maghreb Analyst per la NATO Defence College Foundation e Junior Researcher per il Centre for Geopolitics and Security in Realism Studies. Il suo primo e-book “Lo Stato Islamico: origini e sviluppi”, è edito da e-muse.
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lunedì 16 maggio 2016

Costa d'Avorio: attacchi jihadisti

Fonte c.e.s.i. GEOPOLITCAL  n. 214.




COSTA D'AVORIO

 
Domenica 13 marzo, un commando jihadista ha attaccato tre diversi hotel di Grand Bassam, località balneare a 40 km da Abidjan, uccidendo 16 persone, tra cui diversi occidentali di nazionalità francese e tedesca. La responsabilità dell’attentato è stata rivendicata al-Qaeda nel Maghreb Islamico (AQMI) e da al-Mourabitoun (le Sentinelle), gruppo jihadista guidato da Mokhtar Belmokhtar attivo nel Nord Africa e nel Sahel.
Gli attentati di Grand Bassam si conformano ai recenti attacchi che hanno colpito il Sahel (a Bamako il 20 Novembre 2015 e a Ouagadougou il 16 gennaio 2016) rivendicati sempre da al-Mourabitoun ed AQMI. La diffusione del terrorismo islamico nell’Africa Sub-sahariana è infatti una realtà oramai in ascesa.
Belmokhtar, che è una delle personalità più influenti del panorama jihadista dell’Africa Occidentale, sembrerebbe voler continuare a espandere l’influenza qaedista nel resto del continente. In particolare l’escalation delle azioni terroristiche perpetrate dai gruppi jihadisti  africani vicini ad al-Qaeda potrebbe indicare il tentativo di contrapporsi alla crescita continentale dello Stato Islamico. Inoltre, la decisione di colpire i luoghi meno controllati e più vulnerabili come gli hotel e i centri turistici risponderebbe all’esigenza di massimizzare i risultati degli attacchi sotto il profilo delle vittime, del ritorno mediatico e della diffusione dell’insicurezza a livello globale.
Inoltre, nello specifico, la Costa d’Avorio, potrebbe andare a costituire uno dei nuovi focolai della realtà jihadista in Africa Sub-sahariana. Infatti il network del jihad africano, sfruttando il malcontento delle etnie di religione musulmane del nord nei confronti di quelle cristiane del sud, potrebbe trovare terreno fertile per gettare le proprie basi sul territorio ivoriano, ricalcando, per certi versi, quanto accaduto in Nigeria con Boko Haram. 

mercoledì 11 maggio 2016

Libia: prospettive incerte per l'influenza italiana

l futuro della Libia
Se per caso vincesse Haftar
Giuseppe Cucchi
09/05/2016
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La recente riunione in cui Obama, Merkel, Cameron, Hollande e Renzi hanno discusso della situazione e dei futuri assetti del Mediterraneo è stata, almeno in apparenza, un grande successo della diplomazia italiana.

Innanzitutto perché eravamo presenti, al contrario di quanto è avvenuto altre volte. Poi perché, su sollecitazione del Presidente Obama, è passata la tesi italiana secondo cui le crisi in atto nel Mediterraneo e Medio Oriente hanno un’importanza pari a quelle che segnano il confronto con la Russia.

Infine perché, sul piano pratico, si è iniziato ad esaminare la possibilità di unificare le due azioni navali Nato in atto nel Mar Mediterraneo, estendendole all'intero bacino e modificandone la natura perché possano contribuire al contenimento della crescente marea di profughi diretti verso l'Europa. L'ipotesi è molto gradita all'Italia che, dopo la chiusura della rotta balcanica e nel moltiplicarsi di muri e divieti alle sue frontiere, teme di restare più o meno sola a fronteggiare l’esodo.

Per quel che riguarda la Libia è stato ribadito l’appoggio corale al Governo Sarraj, lodata la decisione delle Nazioni Unite di dislocare permanentemente a Tripoli il proprio inviato speciale, il tedesco Kobler, deploro il ritardo del Parlamento di Tobruk nel fornire pieno supporto al Governo di Unità Nazionale. Si è ribadito infine il ruolo di leadership assegnato all'Italia per ogni eventuale azione a sostegno di Sarraj e della stabilizzazione del paese.

Tra il dire e il fare…
Tutto bene, almeno sulla carta, posto che si accettino senza verifica alcuna le dichiarazioni ufficiali. Se invece si prova ad approfondire, ci si accorge di come in realtà dietro all’accordo di facciata si celino realtà molto diverse e negative.

Non tutti desiderano realmente che la Libia recuperi l'unità perduta, né condividono pienamente l’operazione politica delle Nazioni Unite, per cui l'Italia si sta spendendo con grande coerenza politica e che anche gli Stati Uniti hanno infine fatto propria.

Molti puntano invece su un’altra delle possibili ipotesi, vale a dire quella di una Cirenaica e di una Tripolitania sovrane, divise e indipendenti, sancendo la fine di quello stato unitario libico che l’Italia aveva creato durante il periodo coloniale e che i Senussi prima e Gheddafi poi erano riusciti a preservare.

Questa soluzione non dispiacerebbe né alla Francia né alla Gran Bretagna che, per ragioni diverse, non hanno mai completamente accettato prima la presenza dell'Italia in Libia, poi l'influenza politica che esercitavamo nell'area.

In questa epoca di rinazionalizzazione delle politiche estere delle medie potenze europee, ed in particolare di quelle che ancora rimasticano brandelli di politiche imperiali in terra africana, sembra tornare ai tempi andati in cui la Gran Bretagna contrabbandava dal Cairo armi per i ribelli di Omar Ben Moktar o a quando, dopo il secondo conflitto mondiale, il Generale Leclerc, carismatico chef de guerre della Francia Libera, tramava per sottrarre il Fezzan alla Libia a beneficio del Ciad. Un tentativo in cui finì col perdere la vita in un incidente aereo molto simile a quello che subì il Presidente dell’Eni, Mattei. Ed anche li c'era il petrolio di mezzo.

Pur non osando contrastare ufficialmente la linea favorevole al mantenimento dell'unità del paese, Londra e Parigi stanno da tempo sostenendo con vigore ed efficacia il Generale Khalifa Haftar ed il Parlamento di Tobruk che esercitano in questo momento una sovranità di fatto su più di un terzo del paese e si stanno progressivamente evidenziando come il maggiore ostacolo politico sulla strada dell'unità libica.

Nel far questo le medie potenze europee si associano a quella parte del mondo arabo, in particolare Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, che sostiene l'Egitto nel suo tentativo di crearsi uno stato satellite in una Cirenaica ricca di petrolio e destinata, al termine della traiettoria, ad essere controllata da Haftar e dai suoi pretoriani per conto del Cairo .

Truppe speciali ed istruttori francesi ed inglesi sono presenti da tempo in questa parte del paese, mentre il Generale di Tobruk riceve un ininterrotto flusso di armamenti che dovrebbe, almeno nelle intenzioni dei suoi sponsor, metterlo in condizioni di marciare contro le roccaforti del'Isis e di acquisire saldamente il controllo della cosiddetta "mezzaluna petrolifera".

Vecchi riflessi e nuovi problemi
A ben guardare, la politica franco/inglese appare come la lineare continuazione dell'azione iniziata allorché i due paesi attaccarono Gheddafi, mascherando sotto giustificazioni di carattere umanitario la loro ambizione di giocare un ruolo predominante nel futuro del paese.

Se li si lascia fare, come sta ora avvenendo, la Libia appare destinata a cessare di esistere, andando incontro ad una spartizione. Si tratta di una soluzione che non è certo nell'interesse di un paese che ha vissuto unito per più di cento anni - cioè più o meno quanto la Finlandia e molto, molto di più di quanto sia successo ai baltici nel corso della loro intera storia - sviluppando un solido embrione di identità nazionale che tuttavia alcuni, per motivi interessati, stentano a riconoscere.

Oltre a danneggiare la Libia, una soluzione del contenzioso che non sia quella unitaria danneggerebbe anche l’Italia. Saremmo perdenti in primo luogo per come ci siamo spesi in favore di una riconciliazione nazionale e del governo Sarraj, giungendo ad accettare ufficialmente un ruolo guida per l'eventuale ricostruzione del paese.

In secondo luogo per una perdita rovinosa di influenza, che ci vedrebbe totalmente esclusi dalla Cirenaica e ridotti ad una presenza difficile in una Tripolitania molto frazionata e con i confini ancora tutti da definire, soprattutto se Haftar avrà successo nell'impadronirsi dei territori attualmente controllati dall'Isis.

Attuare una strategia vincente
Sun Tzu scrive che un buon generale non combatte mai le battaglie perse in partenza e certo l'Italia non può schierarsi apertamente e da sola contro Francia, Gran Bretagna e la metà che più conta del mondo arabo. Passando da Sun Tzu a Macchiavelli , non è questo il tempo di farsi lupi, ma piuttosto quello di farsi volpi, adottando una strategia simile a quella che scegliemmo allorché Gheddafi venne attaccato.

Allora ci unimmo alla guerra, ma nel fare ciò coinvolgemmo la Nato, internazionalizzando in tal modo al massimo il conflitto, coinvolgendo direttamente gli Stati Uniti e distruggendo quindi tutte le speranze di gestione autonoma della operazione e dei suoi esiti che potessero all'epoca nutrire Londra e Parigi. Adesso siamo più o meno nelle medesime condizioni , ed una riedizione efficace della stessa tattica appare per lo meno possibile , sia pure con molti punti interrogativi.

Gli Stati Uniti non amano l'idea di una spartizione della Libia. Il Presidente Obama ha chiaramente preso posizione a riguardo e c' è da sperare che il suo successore, chiunque esso sia, non decida di intraprendere una strada diversa nei primi mesi del suo mandato.

La Merkel è del medesimo parere. La divisione in due del paese danneggerebbe anche Berlino sul piano dell’immagine, e questo è un lusso che la Cancelliera, in calo di consensi, non si può permettere.

Ci sono poi le Nazioni Unite, che non vogliono il fallimento del loro tentativo di mediazione fra Tripoli e Tobruk, né assistere alla violazione del sacrosanto principio per cui le frontiere non debbono essere cambiate con la forza, unilateralmente. In tale ambito un ruolo di particolare efficacia potrebbe essere giocato dalla tradizionale riluttanza della Cina ad accettare simili operazioni.

Esiste quindi ancora ampio spazio per muoversi, ma gli eventi in corso dicono che bisognerà farlo in fretta. Sarebbe anche il momento dell'Unione europea che, almeno in teoria, disporrebbe di tutti gli strumenti necessari per condurre un’operazione così multiforme.

Tutti tranne uno: quella politica estera e di sicurezza comune di cui sempre più si sente la mancanza e la cui assenza permette lo scatenarsi del revival di nostalgie di potenza ottocentesche cui assistiamo in questo momento in Libia e che probabilmente, magari in altri cieli ed in occasioni diverse, continuerà ad inquinare i nostri orizzonti anche negli anni a venire.

Giuseppe Cucchi, Generale, è stato Rappresentante militare permanente presso la Nato e l’Ue e Consigliere militare del Presidente del Consiglio dei Ministri.
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lunedì 2 maggio 2016

Libia: un pantano sempre più intricato

Medio Oriente
Libia, i tricolori bruciati dai seguaci di Haftar
Umberto Profazio
05/05/2016
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Bandiere italiane date alle fiamme in Libia. Gli episodi sono stati registrati in numerose località del Paese, dove i manifestanti si sono radunati per protestare contro la presunta ingerenza di Roma negli affari interni.

Il tricolore italiano è stato dato alle fiamme a Tobruk, Derna e Bengasi tra il 27 e il 30 aprile. Gli episodi sono successivi alle indiscrezioni di stampa sull’invio di 900 soldati italiani in Libia, su richiesta del nuovo governo di accordo nazionale, Gna. L’ipotesi è stata prontamente smentita dallo Stato Maggiore della Difesa, ma non ha impedito lo svolgersi delle manifestazioni.

Non è certo la prima volta che in Libia vengono registrate violente proteste anti-italiane: a soffiare sul fuoco sono in particolare gli elementi più radicali della società libica, memori della colonizzazione italiana nel secolo scorso.

Tuttavia, imputare alla difficile storia delle relazioni italo-libiche i recenti avvenimenti di Derna, Bengasi e Tobruk risulterebbe fuorviante. La vicenda è frutto dell’attuale crisi libica, complice una transizione perenne che non riesce a trovare uno sbocco conclusivo.

La difficile strada intrapresa a seguito dell’accordo di Skhirat del 17 dicembre scorso risulta ancora piena di ostacoli, il principale dei quali è senza dubbio Khalifa Haftar.

Le manovre di Haftar e l’ipoteca su Tobruk
In effetti, il minimo comune denominatore delle tre località dove si sono recentemente registrate le proteste sembra essere proprio il Generale. Bengasi è da circa due anni sotto assedio da parte di Haftar e del suo Esercito nazionale libico, Lna (a dispetto del nome, l’ennesima milizia che compone il frammentato panorama del Paese).

L’offensiva di Haftar a Bengasi contro i gli islamisti ha ottenuto nuovi rilevanti successi nelle scorse settimane, sebbene parte della città sfugga ancora al suo controllo.

Derna, prima roccaforte del cosiddetto “stato islamico” in Libia fino a giugno 2015, è stata recentemente bersagliata dall’aviazione del Lna. Scopo di Haftar sarebbe stato quello di rivendicare la vittoria contro il Califfato, nonostante i meriti principali della liberazione della città siano appannaggio del Consiglio della Shura della di Derna.

Apparentemente, le proteste anti-italiane di Derna erano indirizzate anche contro il Lna, accusato di bombardamenti indiscriminati sulla città.

D’altra parte, Tobruk è da mesi ostaggio di Haftar. La Camera dei Rappresentanti trasferitasi in questa città non è ancora riuscita a votare la fiducia al Gna presentato dal Premier Fayez al-Serraj, condizione necessaria per l’entrata in vigore del Libyan Political Agreement, Lpa.

A impedirlo sembra essere proprio Haftar, la cui nomina a Capo di Stato Maggiore dell’esercito approvata lo scorso anno dalla Camera di Tobruk è stata il principale successo della sua nuova avventura libica dopo l’esilio negli Stati Uniti. Un risultato messo a repentaglio proprio dal Lpa che all’art. 8 assegna le prerogative di nomina dei vertici dell’esercito libico al Gna.

Obiettivo Sirte
La costituzione del Gna e il suo trasferimento da Tunisi a Tripoli è stato un successo diplomatico, su cui ha puntato principalmente l’Italia. Non è un caso che il primo esponente straniero a congratularsi personalmente con al-Serraj sia stato il Ministro degli Esteri Paolo Gentiloni.

Ciononostante, come tutte le soluzioni diplomatiche, quella del Gna richiede tempo e pazienza, fattori non spesso in dotazione in scenari di crisi. Inoltre, anche qualora il governo di al-Serraj riuscisse a mettere progressivamente radici a Tripoli, liquidando ciò che resta del Congresso Generale Nazionale e del governo di Khalifa Ghweil, resterebbe ancora da colmare la distanza con Tobruk, sempre più prigioniera delle manovre di Haftar.

Quest'ultimo, appoggiato dall’Egitto e dagli Emirati Arabi Uniti, ha annunciato nei giorni scorsi un'operazione militare per liberare Sirte dallo stato islamico. Il nome in codice è al-Qurdabyia, località nelle vicinanze di Sirte famosa per la sconfitta delle truppe italiane nel 1915.

L'annuncio ha fortemente preoccupato il Gna, consapevole del rischio di uno scontro tra il Lna e le milizie di Misurata, anch'esse pronte a muovere contro Sirte. Al-Serraj si è pronunciato contro un’offensiva non coordinata su Sirte, ammonendo i principali protagonisti sul rischio di una guerra civile.

L’Egitto, la Libia e il caso Regeni 
La cesura, anche storica, tra Tripolitania e Cirenaica è sapientemente coltivata non solo dai principali attori interni, ma anche dalle potenze regionali, consapevoli di poter (o dover) giocare un ruolo nella complessa partita libica.

Con l’Algeria paralizzata nella sua azione di governo a causa della sempre più evidente malattia del Presidente Abdelaziz Bouteflika, è l’Egitto a detenere la golden share della complessa partita libica. Il regime del Presidente Abdel Fattah al-Sisi possiede diversi asset nel Paese, il principale dei quali è il già menzionato Haftar.

Con il deterioramento dei rapporti italo-egiziani a seguito della tragica morte del ricercatore italiano Giulio Regeni e l’avvallo delle Nazioni Unite al Gna, nuove geometrie sembrano disegnarsi in Libia.

Una volta molto più vicina al parlamento di Tobruk (l'unico legittimamente riconosciuto dalla comunità internazionale negli scorsi mesi) che a quello di Tripoli, l'Italia ha deciso di scommettere sul Gna, proprio in coincidenza con le fase più concitate del caso Regeni.

L'arrivo di al-Serraj a Tripoli il 30 marzo scorso ha di poco preceduto la rottura dell'asse tra Roma e il Cairo, messa in piena luca dal richiamo dell'ambasciatore Maurizio Massari per consultazioni. L'evidente contrapposizione tra Roma e il Cairo aiuterebbe a spiegare in parte la vicenda delle bandiere italiane bruciate in piazza.

Più in generale, risulta molto improbabile che l’Egitto accetti una soluzione della crisi libica che non tuteli i suoi interessi, in particolare in Cirenaica e lungo i suoi confini occidentali.

Tuttavia, a preoccupare è ancora una volta il mancato coordinamento tra gli occidentali, gli europei in particolare. La posizione della Francia risulta infatti molto ambigua: nonostante le dichiarazioni di sostegno al Gna, Parigi sembra sempre più vicina alle posizioni egiziane, come dimostrato dalla recente visita del Presidente Francois Hollande al Cairo e dai suoi interessanti risvolti economico-commerciali.

A dispetto delle apparenza, il governo francese sembra sempre più indirizzato verso l’interventismo, comprensibile dopo i recenti attentati a Parigi, ma probabilmente controproducente nel lungo termine sia per l’unità libica che nel contesto della lotta al terrorismo internazionale.

Umberto Profazio è dottore di ricerca in Storia delle Relazioni Internazionali presso l’Università di Roma “Sapienza”, Maghreb Analyst per la NATO Defence College Foundation e Junior Researcher per il Centre for Geopolitics and Security in Realism Studies. Il suo primo e-book “Lo Stato Islamico: origini e sviluppi”, è edito da e-muse.
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