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Metodo di Ricerca ed analisi adottato


Il medoto di ricerca ed analisi adottato è riportato suwww.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com

Vds. post in data 30 dicembre 2009 seguento il percorso:
Nota 1 - L'approccio concettuale alla ricerca. Il metodo adottato
Nota 2 - La parametrazione delle Capacità dello Stato
Nota 3 - Il Rapporto tra i fattori di squilibrio e le capacità delloStato
Nota 4 - Il Metodo di calcolo adottato

Per gli altri continenti si rifà riferimento al medesimo blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com per la spiegazione del metodo di ricerca.

mercoledì 31 agosto 2016

LIbia: ancora stallo politico

Libia
Sarraj e la vittoria di Pirro a Sirte 
Roberto Aliboni
24/08/2016
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Ora che la vittoria delle forze di Misurata a Sirte contro l’autoproclamatosi “stato islamico” si è materializzata, appare in più viva luce la sua sconnessione con il superamento dello stallo politico della Libia. Essa non servirà ad avanzare la riconciliazione fra le parti libiche in lotta, cioè a facilitare il riconoscimento del governo di unità nazionale di Fayez Sarraj da parte dei suoi avversari.

D’altra parte, la stessa vittoria, benché fortemente funzionale ai loro interessi, difficilmente indurrà i numerosi sostenitori internazionali di Sarraj a compensarlo con un appoggio più risolutivo verso i suoi nemici interni ed esterni: i condottieri della Cirenaica e i loro alleati in Egitto, nel Golfo e nella stessa Europa.

La crisi libica, con le sue conseguenze e i suoi straripamenti, potrebbe perciò durare. Lo “stato islamico”, dopo la sconfitta a Sirte, non scomparirà. Nondimeno, esce da Sirte (mentre le cose nel Levante non gli vanno meglio) fortemente indebolito. Resta comunque in piedi il conflitto fra le parti libiche.

Governo di Sarraj sfiduciato 
Le forze militari associate al governo di unità nazionale di Tripoli e quelle associate all’ex governo di Tobruk hanno separatamente combattuto i jihadisti : le seconde hanno avuto ripetuti scontri a Derna e Bengasi, le prime hanno condotto la grande offensiva contro Sirte. Fra i due schieramenti libici non ci sono stati scontri militari. Invece, lo scontro politico non si è mai placato.

Il Consiglio presidenziale guidato da Sarraj si è spaccato un mese dopo la sua nascita con la defezione dei rappresentanti della Cirenaica e di Zintan. È riuscito a varare un governo ma, in virtù del sabotaggio esercitato con successo nel parlamento internazionalmente riconosciuto di Tobruk, non ha mai avuto da quest’ultimo il voto di fiducia richiesto dagli accordi che hanno dato vita al Consiglio presidenziale e al Governo di Unità nazionale di Sarraj.

L’Onu ne ha comunque confermato la legittimità e assicurato, con l’aiuto dei paesi occidentali, il suo controllo sulle risorse finanziarie e naturali del paese (o meglio ha escluso quello della parte avversa). Lunedì, il parlamento di Tobruk ha espresso un voto contro il governo di Sarraj in circostanze tuttavia che non prestano a questo voto alcuna credibilità e che non è destinato ad avere sulla situazione nessun impatto concreto.

Sarraj, caccia al tesoro per ottenere consenso
Sarraj ha lavorato per ottenere l’adesione di Tobruk lungo due direttrici. Da una parte, ha bandito la crociata contro lo “stato islamico” a Sirte intendendo così di porre le basi di una forza militare nazionale sotto il manto del Consiglio presidenziale. Mail suo appello è stato ascoltato dalle milizie di Misurata e da alcune delle milizie islamiste di Tripoli, mentre il generale Khalifa Heftar e il suo così detto Esercito nazionale libico non si sono mossi facendo fallire l’obiettivo politico che Sarraj si proponeva.

Dall’altra, ha stabilito un dialogo diplomatico con i padrini politici di Tobruk e Haftar peregrinando fra il Cairo, Abu Dhabi e Riyadh. Questi però che sono rimasti fermi nel loro appoggio a Tobruk e Zintan, Haftar e Jibril.

Nella sua azione diplomatica non ha avuto nessun sostanziale appoggio dai suoi sostenitori occidentali, che hanno tanto premuto perché fosse condotta l’offensiva contro l’Isis, hanno inviato consiglieri militari e aerei da bombardamento in ausilio delle truppe sotto bandiera tripolina, ma nella difficile ricerca della soluzione politica alla crisi libica l’hanno lasciato solo.

Beninteso, i sostenitori di Sarraj, a cominciare dagli Usa e dal Regno Unito, hanno incoraggiato il Cairo e Abu Dhabi per le vie diplomatiche affinché accedessero al progetto di rappacificazione nazionale concepito in seno all’Onu e affidato a Sarraj. L’Italia lo ha certamente fatto nei confronti del Cairo e, dopo il caso Regeni, si è rivolta ad Abu Dhabi perché, non potendo l’Italia più farlo, premesse sul Cairo.

Mentre è chiaro che queste pressioni dovrebbero essere accompagnate da qualche argomento più forte della “moral suasion”, non è evidente se la politica occidentale in Siria, vista come “anti-sunnita” in quelle capitali orientali, dia alle esortazioni dell’Occidente a Riyadh, al Cairo e Abu Dhabi la necessaria autorità.

Neppure è chiaro se la “moral suasion” da sola sarebbe sufficiente. Inoltre, almeno un paese occidentale, la Francia, persegue una politica di forte sostegno al regime di Al-Sisi in Egitto e agli interessi economici e di sicurezza che Egitto e Francia condividono in Cirenaica. Infine, considerata l’evoluzione del regime di Al-Sisi, probabilmente non esistono quegli ottimi rapporti che servirebbero affinché paesi occidentali ed Egitto si prestino effettivamente ascolto.

Perciò, Sarraj si trova oggi ad avere ottenuto una vittoria militare, che probabilmente suscita anche simpatia nell’opinione pubblica libica (che però conta molto poco), ma è inutilizzabile sul piano politico. Molti si sono chiesti come mai Haftar abbia consentito alle milizie di Misurata di andarsi a coprirsi di gloria da sole: probabilmente Haftar ha capito meglio di Sarraj la situazione.

Alla ricerca di un ruolo per Haftar
Che cosa accadrà ora? Qualcuno ha criticato Sarraj per aver lasciato che Misurata assumesse troppa prominenza rispetto ad altre forze libiche: la critica è che un leader destinato a creare le basi di una concordia nazionale avrebbe dovuto invece puntare a bilanciare il ruolo relativo dei protagonisti. In realtà, Sarraj ha provato a negoziare un ruolo soddisfacente per Haftar nel suo governo. Tuttavia Haftar punta probabilmente più in alto di quanto Sarraj gli abbia potuto concedere, mentre Misurata e gli islamisti in genere sono forse disposti a compromessi, ma non sul ruolo di un uomo che essi vedono come una replica di Gheddafi.

I rivoluzionari non possono accettare che un uomo vocato all’emarginazione di qualsivoglia tipo di islamismo abbia un ruolo in un governo di unità nazionale che è invece aperto agli islamisti moderati e vada quindi a rappresentare nel governo forze regionali che questo islamismo vogliono mettere al bando. La soluzione politica promossa dall’Onu ha dei parametri di democrazia e inclusione simili a quelli che i tunisini hanno applicato da soli. Il governo Sarraj non può perseguire una soluzione politica che esuli da questi parametri.

Perciò non ha commesso un errore, ma si trova in una situazione di stallo,oltretutto in gran parte dovuta all’incapacità dei suoi sostenitori occidentali di sottrarlo ai ricatti e alle pressioni delle varie potenze regionali e internazionali che per loro interessi sono causa maggiore di quello stallo.

Incassato l’indebolimento dello “stato islamico” alle loro porte, è quindi tempo che gli occidentali cessino di farsi aiutare dalla Libia nei confronti dell’estremismo e aiutino invece questo Paese a rendere innocui coloro che ostacolano il progetto di unità nazionale che essi stessi hanno chiesto a Sarraj di realizzare.

Roberto Aliboni è consigliere scientifico dello IAI.

lunedì 22 agosto 2016

Libia: operazioni contro i Jiaidisti

Medio Oriente
Libia, raid americani e titubanze italiane
Natalino Ronzitti
09/08/2016
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Da inizio agosto si susseguono i raid statunitensi contro le postazioni dell’Isis (Daesh) in Libia, a Sirte. Viene per il momento escluso l’invio di truppe di terra.

Si vuole ripetere il copione già sperimentato, in verità con scarso successo, in altre aree e specialmente in Iraq: sul terreno combattono le forze del governo locale, supportate dal cielo dall’alleato americano.

In verità, gli Usa erano già intervenuti contro l’Isis in novembre a Sabratha per neutralizzare un campo di addestramento e in febbraio per far fuori un leader dell’organizzazione terrorista.

L’incertezza di Roma
L’Italia ambisce alla guida della coalizione per il ristabilimento dello stato libico, ma finora si è limitata a coordinare le riunioni del gruppo di contatto e non intende impegnarsi in prima persona in azioni belliche.

Sono lontani i tempi in cui era stato detto che 5000 uomini erano pronti a partire. Ha prevalso l’indirizzo prudente del governo Renzi che, tradotto dal suo ministro degli Esteri, ha dichiarato che l’Italia non si sarebbe fatta trascinare in pericolose avventure. Quanto questa prudenza sia conciliabile con l’ambizione di assumere un ruolo guida è tutto da dimostrare.

A quanto risulta, gli Stati Uniti avevano avvertito l’Italia dell’imminenza delle operazioni. Tuttavia i raid, effettuati con aerei e droni, sono partiti da navi Usa nel Mediterraneo e dalla Giordania, nonostante che gli Stati Uniti possano utilizzare le basi italiane e il 22 febbraio 2016 sia stato concluso un accordo per lo stoccaggio e l’uso di droni armati a Sigonella.

L’Italia si è affrettata a dire, con un comunicato della Farnesina, che “valuta positivamente” le operazioni aeree Usa contro le postazioni dell’autoproclamatosi stato islamico a Sirte e, a scanso di equivoci, ha affermato di essere pronta “a valutare positivamente un’eventuale richiesta di uso delle basi e dello spazio aereo se fosse funzionale a una più rapida e efficace conclusione delle operazioni in corso” contro l’Isis.

Il linguaggio è chiaro: non ci si vuole impegnare in prima persona. Ma prima o poi i nodi verranno al pettine. Qualora, con la sconfitta dell’Isis e il consolidamento del governo guidato da Fayez al-Sarraj, fosse necessario costituire una missione di peace-building, quale sarebbe il ruolo italiano? Una missione di peace-building è una sorta di via di mezzo tra il peace-keeping ed il peace-enforcement e postula per sua natura l’invio di uomini sul terreno che, in appoggio al governo locale, possono anche impiegare le armi.

La legalità degli interventi Usa
Quale base giuridica hanno i raid Usa che sono stati ordinati dal presidente Barack Obama? A differenza di altri stati occidentali, gli Stati Uniti non vanno tanto per il sottile quando decidono di usare la forza. La loro maggiore preoccupazione è di ordine interno e, nel caso concreto, è stato fatto riferimento ad un’autorizzazione ricevuta dal Congresso nel 2001 (Authorization to Use Military Force, Aumf), che è servita in tutti questi anni per le numerose operazioni belliche in cui Washington è stata impegnata.

Il Pentagono ha comunque giustificato l’intervento a Sirte con la richiesta da parte del governo di al-Sarraj. Il consenso dell’avente diritto, cioè dello stato in cui le incursioni hanno luogo, è una valida causa di giustificazione in diritto internazionale per usare la forza. Solo che il governo al-Sarraj, pur essendo stato legittimato dalla risoluzione 2259 (2015) del Consiglio di sicurezza (Cds) dell’Onu come il governo legittimo della Libia, è un ente fiduciario, la cui effettività è in progress.

La Russia si è affrettata a dire che i raid americani sono illegali, dimenticando che ha invece giustificato il proprio intervento in Siria con la richiesta da parte di Assad, capo di un governo screditato, scarsamente effettivo, che non rappresenta più il popolo siriano.

Può l’intervento Usa trovare semmai la sua giustificazione nel paragrafo 12 della risoluzione 2259 del Cds, che invita gli stati membri a dare supporto al governo al -Sarraj? Direi di no, e infatti gli Stati Uniti non ne hanno fatta menzione.

La risoluzione non fa riferimento al Capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite e al linguaggio che il Cds usa quando autorizza gli stati a usare la forza. Al valore taumaturgico della risoluzione 2259 e al suo paragrafo 12 crede invece il governo italiano, secondo quanto si apprende dalle dichiarazioni effettuate il 4 agosto dinanzi alle commissioni congiunte Esteri e Difesa di Camera e Senato.

L’insostenibile leggerezza dell’Ue
Ho preso a prestito il titolo del romanzo di Milan Kundera che ben si attaglia all’inettitudine dell’Unione europea (Ue) e alla sua assenza di peso specifico nella crisi libica, nonostante il pericolo rappresentato dall’insediamento di un’organizzazione terroristica vicino alle coste della sua frontiera meridionale.

L’Ue si è limitata all’istituzione della Eunavformed Sophia, operazione che dovrebbe contrastare il traffico illegale di migranti nel Mediterraneo centrale di fronte alle coste libiche. Un compito di primaria importanza, poiché i terroristi possono viaggiare con i migranti e soprattutto perché il traffico illecito è diventato una fonte di finanziamento per l’Isis.

Sennonché la missione navale si trova ancora a metà della sua seconda fase e non è stata autorizzata a entrare nelle acque territoriali libiche e a mettere mano alla terza fase, che prevede lo sbarco sulla costa e la distruzione dei battelli dei trafficanti. La missione è stata prolungata al luglio 2017, con l’aggiunta di due nuovi compiti: l’addestramento della guardia costiera libica e l’attuazione dell’embargo sulle armi decretato dal Cds.

È disposta l’Ue a utilizzare le proprie capacità militari per un’operazione di stabilizzazione in Libia? Un’eventualità di cui neppure si parla e che è frustrata sul nascere da alcuni stati membri che vedrebbero con favore una divisione della Libia e intanto intrattengono rapporti più o meno coperti con il governo di Tobruk.

Cosa fare adesso
Con l’intensificarsi dell’azione Usa in Libia si avvicina per l’Italia il momento della verità. Il primo nodo sarà quello della concessione delle basi militari. Non si potrà assistere passivamente al loro impiego, ma dovranno essere richieste precise garanzie quanto alle modalità di uso, tenendo anche conto degli obiettivi militari che s’intendono colpire. Un’azione illegale ci renderebbe corresponsabili.

In breve, l’incremento dell’azione bellica non ci consente di nutrire wishful thinkings e di rincorrere piani più o meno immaginari di leadership senza impegnarci in azioni concrete. Un’azione che il governo dovrebbe immediatamente intraprendere è di portare la questione libica in sede europea, allo scopo di verificare se l’Unione sia in grado di impegnarsi in un’efficace azione di peace-building, che vada oltre le iniziative settoriali finora effettuate.

Natalino Ronzitti è professore emerito di Diritto internazionale (Luiss Guido Carli) e consigliere scientifico dello IAI.
 

lunedì 1 agosto 2016

L'Africa ed il Diritto

Diritto internazionale
Unione africana e Corte penale, un matrimonio difficile
Anastasia Buscicchio
18/08/2016
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In un momento di tensione nelle relazioni con la Corte penale internazionale (Cpi), gli Stati dell’Unione africana (Ua) hanno mantenuto negli ultimi anni un atteggiamento di ostilità e diffidenza nei confronti del nuovo tribunale internazionale, istituito a Roma nel 1998 ed entrato in funzione nel 2002.

Più volte è stato rilevato dagli Stati membri dell’Ua come la Corte abbia concentrato i suoi sforzi investigativi quasi esclusivamente in Africa, tralasciando altri evidenti e rilevanti casi di crimini internazionali in diverse regioni del mondo.

Inoltre, è stata lamentata un’eccessiva ingerenza europea negli affari della Cpi: l’ammontare totale della partecipazione economica degli Stati europei al fondo della Corte, ad esempio, eccederebbe il 70%, contribuendo sensibilmente dal canto europeo all’imposizione di proprie soluzioni in Africa.

È stato altresì messo in discussione il carattere democratico di rappresentatività della Cpi, poiché - mancando l’adesione di Stati Uniti, Cina e India allo Statuto di Roma -, essa rappresenterebbe solo un terzo della popolazione mondiale.

Vecchie incomprensioni e nuovi spiragli
Tali risentimenti emergono chiaramente esacerbati dal processo contro l’ex presidente del Kenya Uhuru Kenyatta, una circostanza che ha portato molti paesi dell’Ua a voler rivedere la propria cooperazione con la Corte penale internazionale.

La situazione di stallo tra la Corte e l’Unione ha generato, inoltre, non pochi problemi per l’esecuzione del mandato d’arresto contro il presidente sudanese Omar Hassan Al-Bashir, accusato di crimini internazionali dall’ex procuratore della Cpi Luis Moreno-Ocampo: una vicenda segnata dal mancato arresto in Sudafrica, in data ai margini dell’assemblea generale dell’Ua, e dalla mancata cooperazione di paesi africani già membri dello Statuto di Roma.

In occasione del ventisettesimo vertice dell’Ua, svoltosi a Kigali lo scorso luglio, tuttavia, non vi è stata ufficiale menzione della polemica e, per la prima volta dal 2013, l’incontro si è concluso senza un esplicito attacco all’attività della Corte. Inoltre,alcuni paesi (tra cui Botswana, Nigeria, Senegal, Costa d’Avorio e Tunisia), si sono pubblicamente opposti all’ipotesi di recesso dallo Statuto di Roma proposta da molti membri dell’Ua.

Che tale coraggiosa presa di posizione incoraggi gli altri Stati a superare le loro riserve è un’ipotesi del tutto augurabile, in quanto la Cpi è ancora oggi l’unico strumento della giustizia internazionale atto a giudicare individui che abbiano commesso crimini internazionali.

La procuratrice generale della Cpi Fatou Bensouda, di nazionalità gambiana, ha intanto avviato una serie di procedimenti anche in altre aree geografiche, comunque allineandosi a sostegno dell’operato della Corte e affermando che molti dei giudizi attivi nei confronti di individui africani siano effettivamente il risultato della volontà di alcuni paesi di rivolgersi all’autorità internazionale, poiché inidonei o impossibilitati a istituire processi a livello interno.

Il caso Habré
L'Unione africana, contestualmente, approvando misure per la formazione di una rete di pubblici ministeri per la disciplina dei crimini internazionali e incoraggiando i suoi Stati membri a conferire ai tribunali locali giurisdizione universale in materia, ha voluto affermare la propria autonomia nell’impegno a contrastare l’impunità, dimostrando di avere i mezzi e la volontà di perseguire i crimini commessi all’interno dei propri confini, senza l’interferenza di attori esterni.

Esemplare a tal proposito la sentenza del 30 maggio 2016 del Tribunale speciale istituito dal Senegal con il sostegno dell’Ua, che ha condannato per crimini contro l’umanità Hissène Habré, dittatore del Ciad tra il 1982 e il 1990.

La corte giudicante, designata dall’accordo tra Ua e Senegal il 22 agosto 2012, è un tribunale “misto” riconducibile per alcuni aspetti all’impostazione delle corti statali e per altri a quella dei tribunali internazionali, sulla falsariga della Corte speciale per la Sierra Leone e delle Camere straordinarie per la Cambogia, istanze istituite però con l’assistenza delle Nazioni Unite e non di un’organizzazione regionale.

Il Tribunale speciale, il cui statuto ne disciplina la competenza per materia con riferimento alle previsioni dello statuto della Cpi, è competente per i crimini di genocidio, crimini di guerra, tortura e crimini contro l'umanità.

Per quanto attiene alla competenza con riguardo all’accusato, si ritiene legittima la persecuzione di un singolo individuo che si trovi in territorio senegalese e sia principale responsabile dei crimini in analisi.

Ad avvalorare questa ipotesi, il disposto della Convenzione Onu contro la tortura del 1984, che obbliga in questo caso il Senegal a provvedere immediatamente all’istruzione di un processo, l’accordo tra il governo senegalese e l’Ua, con cui veniva istituita la giurisdizione penale ad hoc, il mandato del 2006 con cui l’Ua attribuiva la competenza a giudicare al Senegal (Decision sur le procès d’Hissene Habré et l’Union Africaine del 3 agosto 2006).

Giurisdizione universale e atrocità di massa
Il caso Habré è una manifesta dimostrazione di come la giurisdizione universale sia uno strumento rilevante o, ancor più, essenziale nell’ambito della repressione e della prevenzione delle atrocità di massa: essa garantisce che i sospetti non possano godere dell’impunità in uno Stato terzo, quando non possono essere perseguiti dinanzi ai giudici del paese in cui i crimini sono stati commessi o davanti a un Tribunale internazionale.

È auspicabile, in quest’ottica, non il recesso da parte degli Stati africani dallo Statuto di Roma, bensì l’implementazione di un impianto effettivamente ed efficacemente imparziale, libero da ingerenze politiche, capace di garantire giustizia alle vittime di crimini internazionali.

Anastasia Buscicchio è assistente di ricerca presso il Budapest Centre for Mass Atrocities Prevention.