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Metodo di Ricerca ed analisi adottato


Il medoto di ricerca ed analisi adottato è riportato suwww.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com

Vds. post in data 30 dicembre 2009 seguento il percorso:
Nota 1 - L'approccio concettuale alla ricerca. Il metodo adottato
Nota 2 - La parametrazione delle Capacità dello Stato
Nota 3 - Il Rapporto tra i fattori di squilibrio e le capacità delloStato
Nota 4 - Il Metodo di calcolo adottato

Per gli altri continenti si rifà riferimento al medesimo blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com per la spiegazione del metodo di ricerca.

domenica 28 febbraio 2016

Un continente conteso da tutti

Asia e Europa
L’Africa tra Via della Seta cinese e partenariato con l’Ue
Nicola Casarini
23/02/2016
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La presenza cinese in Africa è in continuo aumento. La Via della Seta marittima - che include le coste orientali dell’Africa - sta portando ulteriori investimenti in un continente dove la Cina è riuscita, nel giro di pochi anni, a diventare il primo partner commerciale della stragrande maggioranza dei paesi.

Rubinetti aperti da Pechino al continente nero
L’interscambio Cina-Africa ha raggiunto, infatti, i 220 miliardi di dollari a fine 2014, superando di gran lunga gli Usa e la Francia, tradizionali investitori nel continente nero.

Tali e tanti sono gli interessi cinesi nel continente - dall’energia, alle risorse minerarie, al crescente numero di imprese e lavoratori cinesi - che Pechino sta costruendo la sua prima base militare proprio li, a Gibuti - piccolo paese sulla costa orientale dell’Africa dove sono presenti anche truppe francesi e americane - e da dove si controlla il traffico marittimo verso il canale di Suez.

Durante il sesto forum di cooperazione Cina-Africa (Focac) svoltosi a Johannesburg lo scorso 4-5 dicembre, il presidente cinese Xi Jinping - che ha co-presieduto il forum con il suo omologo sudafricano Jacob Zuma - ha annunciato che la Cina stanzierà un piano di finanziamenti pari a 60 miliardi di dollari, incentrato prevalentemente sui seguenti settori: industrializzazione, modernizzazione agricola, implementazione delle infrastrutture, servizi finanziari, tutela ambientale, sviluppo del commercio e degli investimenti, riduzione della povertà, salute pubblica, scambi culturali, e cooperazione in ambito della sicurezza.

Di questi 60 miliardi di dollari, 35 saranno destinati a prestiti agevolati, 5 miliardi a prestiti a zero interessi e 5 miliardi a sostegno delle piccole e medie imprese. È prevista inoltre la creazione di un Fondo per lo sviluppo Cina-Africa con una dotazione iniziale di 5 milardi di dollari e un Fondo di Cooperazione per l’incremento della capacità produttiva con uno stanziamento di 10 miliardi.

Pechino ha già stanziato circa 100 milioni di dollari per l’African Standby Force, i caschi blu africani, e ha promesso maggiori fondi - e truppe - per le operazioni di peacekeeping in Africa.

Il rallentamento dell’economia cinese e il crollo delle borse di Shanghai e Shenzhen iniziato la scorsa estate hanno portato a una diversificazione dei finanziamenti cinesi nei paesi africani. Mentre sono aumentati i prestiti bilaterali e i fondi per i progetti di cooperazione, secondo il Financial Times gli investimenti cinesi greenfield - investimenti diretti in strutture fisiche da parte di società estere - sono calati di oltre il 40%.

La Cina rappresenta il 7% degli investimenti greenfield in Africa, per un totale di 6,1 miliardi di dollari, cosa che pone Pechino al settimo posto nella lista dei paesi investitori, mentre l’Europa ha rappresentato più della metà di tutti gli investimenti greenfield in Africa nel 2014, con una stima di 47,6 miliardi di dollari investiti.

Prestiti bilaterali e sostegno politico
Secondo il think-tank americano Aid Data, dietro ai prestiti bilaterali cinesi che si riversano sul continente africano, sembrerebbero celarsi aiuti “politici”, dati come ricompensa a quei regimi che - sempre secondo la Ong americana - appoggiano certe risoluzioni proposte dalla Cina alle Nazioni unite o in altri forum multilaterali.

Non è da escludere, inoltre, che la decisione di alcuni paesi africani negli ultimi anni di recidere i legami diplomatici con Taiwan sia stata agevolata da promesse di investimenti cinesi in tali paesi.

Non bisogna poi dimenticare che le banche cinesi forniscono prestiti a basso tasso d’interesse a quei paesi africani ricchi di petrolio e altre risorse naturali. Prestiti che - al contrario di quelli delle istituzioni finanziarie internazionali e della Ue - non sono vincolati a riforme democratiche e alla difesa dei diritti umani.

La concorrenza agli aiuti europei
L’entità e le modalità della penetrazione cinese in Africa hanno, pertanto, messo in crisi il modello occidentale di aiuti allo sviluppo che prevede condizioni di finanziamento legate alla creazione di un ambiente economico e politico di buona governance, la lotta alla corruzione e la promozione della democrazia e dei diritti umani.

L’Europa, soprattutto, ha dovuto confrontarsi nell’ultimo decennio con una politica cinese verso l’Africa che ha permesso ad alcuni regimi di prosperare, proprio quando i rubinetti dei finanziamenti occidentali si stavano prosciugando in mancanza di vere riforme democratiche.

Di fronte all’offensiva cinese, la linea ufficiale europea è stata quella dell’accettazione della concorrenza in quanto quest’ultima - così si dice a Bruxelles - fa bene a tutti, ma in particolare all’Africa.

In realtà, la Ue ha dovuto trovare una risposta adeguata a un modus operandi cinese in Africa che spesso viene definito in Occidente, con una qualche semplificazione, come troppo “pragmatico” - se non proprio spregiudicato.

La Ue ha, pertanto, ripensato la sua strategia africana. Il cambiamento - avvenuto durante il secondo vertice Ue-Africa tenutosi a Lisbona nel dicembre 2007 - prevede un partenariato da pari a pari e una maggiore cooperazione non solo in campo economico e commerciale, ma anche in quello politico e militare.

Bruxelles in difficoltà 
La nuova strategia Ue per l’Africa cerca di andare oltre gli accordi di Cotonou che costituiscono la base per le relazioni tra l’Ue e i 79 paesi del gruppo Acp. In base a questi accordi, il 99,5 % dei prodotti dei paesi Acp può beneficiare del libero accesso al mercato europeo - cosa che ha spinto l’Organizzazione mondiale del commercio (Omc) a dichiararli illegali e la Ue a creare un nuovo strumento, i cosiddetti Epa.

Insieme alla nuova strategia, la Ue ha aumentato la sua dotazione per l’Africa. Per il periodo 2014-2017, questa strategia è incentrata su cinque ambiti prioritari che sostituiscono gli otto partenariati tematici: pace e sicurezza; democrazia, buona governance e diritti umani; sviluppo umano; sviluppo sostenibile e inclusivo, crescita e integrazione continentale; questioni globali ed emergenti. La Ue rimane di gran lunga il più importante donatore per l’Africa.

Tutti i paesi africani facenti parte dell’accordo di Cotonou hanno accesso al Fondo europeo di sviluppo (Fes), che ha una dotazione di 31,5 miliardi di euro per il periodo 2014-2020.

Per il Sudafrica invece - paese dei Brics e considerato un “emergente” - i fondi Ue provengono dallo strumento di cooperazione allo sviluppo (Dci) che per il periodo 2014-2020 stanzia 845 milioni di euro, fondi che servono anche a sostenere il Programma panafricano (Panaf), istituito per finanziare la strategia congiunta Africa-Ue.

Nonostante questi sforzi, la Ue fatica a tenere il passo con la penetrazione cinese in Africa. Il progetto di nuova Via della Seta proposto dal Presidente cinese Xi Jinping a fine 2013 riverserà ancora più risorse - e prestiti bilaterali - ai paesi africani interessati all’iniziativa.

Questo da una parte porterà crescita economica, ma non necessariamente buona governance e stato di diritto. La Via della Seta cinese e il partenariato Ue per l’Africa hanno obiettivi diversi. Cosa che permette ai regimi africani di giocare l’uno contro l’altro.

Articolo pubblicato su OrizzonteCina, rivista online sulla Cina contemporanea a cura di Torino World Affairs Institute e Istituto Affari Internazionali.

Nicola Casarini, responsabile di ricerca Asia, Istituto Affari Internazionali (IAI).
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lunedì 22 febbraio 2016

Egitto: il confronto con l'Italia

Egitto
Caso Regeni, le vie del diritto per ottenere giustizia
Natalino Ronzitti
18/02/2016
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La morte del povero Giulio Regeni rimane piena di interrogativi e il mistero si infittisce ogni giorno che passa con le più disparate e talvolta strampalate affermazioni.

Le nostre autorità, prontamente e doverosamente intervenute, trattandosi di un cittadino italiano, ripetono che non si accontenteranno di verità di comodo e che i responsabili dovranno essere puniti.

Bei propositi da prendere sul serio e da perseguire, senza il timore di mettere a repentaglio le relazioni economiche e politiche con un paese da tempo nostro alleato e con cui abbiamo recentemente rinsaldato i rapporti. Come impedire che la questione finisca nel dimenticatoio, dopo l’iniziale sdegno? Quali azioni possono essere intraprese?

Impossibile evocare tribunali penali internazionali
Prescindo da improbabili azioni a livello di tribunali internazionali. Tra l’altro non esiste per il momento una controversia in senso tecnico tra i due paesi interessati, ma non si può chiudere il caso e accontentarsi di eventuali scuse da parte egiziana.

Improprio è anche evocare l’azione di tribunali penali internazionali: in primo luogo poiché la Corte penale internazionale non giudica su singoli crimini; in secondo luogo perché l’Egitto non ha ratificato lo statuto della Corte, come è stato ricordato in occasione del tentativo di un gruppo di avvocati egiziani di mettere in moto il meccanismo di accettazione della competenza della Corte.

Indicherò due strade: la prima a livello internazionale, la seconda a livello interno. Ambedue i percorsi muovono dal presupposto che Regeni sia stato torturato e che, stando alle notizie della stampa occidentale, gli atti di tortura siano dovuti ad agenti dei servizi di sicurezza locali.

Di qui due conseguenze: primo, la tortura è un crimine internazionale che gli stati debbono prevenire e reprimere; secondo, qualora gli atti di tortura siano l’opera di agenti egiziani, l’Egitto è internazionalmente responsabile, quantunque gli agenti appartengano a servizi più o meno “deviati” o abbiano ecceduto dalle funzioni loro assegnate.

L’Egitto nella giurisprudenza internazionale sulla tortura
L’Egitto, come l’Italia, ha ratificato la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura del 1984 che assegna le funzioni di controllo sull’esecuzione della Convenzione al Comitato contro la tortura.

L’Egitto, però, a differenza dell’Italia, non ha accettato la clausola opzionale che attribuisce il potere a ogni stato parte di lamentare una violazione della Convenzione e di chiedere al Comitato di iniziare un’indagine ad hoc.

Altrimenti il Comitato si limita ad esaminare i rapporti degli stati a cadenza quadriennale e può condurre ispezioni nel territorio di uno stato parte, con il suo consenso e sempre che si tratti di uso sistematico della tortura e non di un singolo episodio. Inoltre l’Egitto non ha neppure ratificato il Protocollo opzionale del 2002 che ha rafforzato i sistemi ispettivi.

Le pratiche di tortura possono essere denunciate anche nell’ambito del Consiglio dei diritti umani (Nazioni Unite), in particolare in occasione dell’esame periodico universale (Upr, nell’acronimo inglese).

L’Egitto è stato ultimamente oggetto di Upr nel 2014. I membri del Consiglio hanno raccomandato che l’Egitto ratifichi il Protocollo opzionale del 2002 e introduca nel suo codice penale una più circostanziata definizione del reato di tortura (ma, sul punto l’Italia non può fare la voce grossa, poiché la relativa proposta di legge è ancora ferma al Senato!) ed hanno anche affermato che occorre impedire che si commettano atti di tortura a danno dei detenuti.

Tuttavia l’Upr non è lo strumento da impiegare per il caso Regeni. Si tratta inoltre di uno strumento cooperativo e non conflittuale, la prossima Upr per l’Egitto avrà luogo nel 2019!

Resta sempre la possibilità per l’Italia di proporre una risoluzione al Consiglio per l’istituzione di una commissione d’inchiesta. Ma a parte che le commissioni non riguardano il caso singolo (non credo che l’Italia voglia sollevare casi sistematici di tortura), è da chiedersi se la risoluzione riuscirebbe a ottenere la maggioranza necessaria per la sua adozione.

La responsabilità dello stato egiziano sul caso Regeni
L’improbabile presenza in futuro dei presunti responsabili in Italia, o la loro estradizione nel nostro paese, rende superflua ogni ulteriore considerazione circa la punibilità degli autori del reato che non potrebbero godere di nessuna immunità, anche qualora fossero funzionari dei servizi di sicurezza.

Una via da esplorare è piuttosto quella della responsabilità dello stato egiziano. Come abbiamo precisato, gli atti di tortura, qualora fossero stati commessi da funzionari dell’intelligence, deviata o meno, sarebbero imputati all’Egitto.

Questi potrebbe essere convenuto in giudizio dinanzi a un tribunale italiano da chi ne avesse titolo per chiedere il risarcimento del danno; l’Egitto non potrebbe invocare il principio dell’esenzione degli stati esteri dalla giurisdizione civile.

La possibilità di convenire in giudizio uno stato estero, messa in discussione da taluni tribunali stranieri, è regola che ha trovato invece piena applicazione in Italia, quando si è dovuto giudicare di atti che costituivano una lesione di norme a protezione di valori fondamentali della persona umana.

In conclusione, qualora si volesse mantenere la questione a livello bilaterale, l’Italia potrebbe lamentare la violazione di una norma internazionale, pretendere la punizione dei responsabili e il risarcimento del danno.

Alternativamente si potrebbe convenire in giudizio l’Egitto di fronte ai tribunali italiani per far constatare la commissione di un crimine internazionale e chiedere il risarcimento.

Natalino Ronzitti è professore emerito di Diritto internazionale (Luiss Guido Carli) e Consigliere scientifico dello IAI.
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venerdì 19 febbraio 2016

Libia: la doppia faccia di un paese fallito

Medio Oriente
Libia, guerra delle risorse tra Tripoli e Tobrouk
Umberto Profazio
15/02/2016
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Con l’attacco al terminal di Es Sider, lo scorso gennaio i seguaci del “Califfo” hanno dimostrato ancora una volta le loro capacità di proiezione offensiva.

Dopo essere stata allontanata da Derna lo scorso anno, la provincia libica dell’autoproclamatosi “Stato islamico” ha stabilito la sua roccaforte a Sirte, espandendosi lungo la costa in direzione del “crescente petrolifero”, la zona dove si trovano le principali infrastrutture per l’esportazione del greggio.

Già a inizio gennaio il gruppo terrorista aveva tentato una sortita in direzione di Es Sider, causando la distruzione di sette cisterne. Anche in quel caso l’attacco era stato respinto. Il prezzo pagato fu la morte di 18 miliziani delle Guardie Petrolifere - una milizia federalista guidata da Ibrahim al-Jathran e facente parte della coalizione Karama (Dignità) che sostiene il Parlamento di Tobruk - e la perdita di circa 1,3 milioni di barili di greggio secondo quanto riportato dal portavoce della National Oil Corporation, Noc, Mohamed al-Harari.

L’offensiva dello “Stato islamico” ha come obiettivo il controllo delle “infrastrutture critiche” e la rendita di posizione che ne deriva. In tale contesto, il gruppo terrorista è agevolato dalle numerose fratture presenti in Libia.

La stessa Noc, preoccupata dalla progressiva avanzata dello “Stato islamico”, (che metterebbe a rischio altri 3 milioni di barili di greggio) aveva predisposto piani di svuotamento dei terminal sotto attacco. Tuttavia le operazioni sono state impedite dalle Guardie Petrolifere che a fine gennaio hanno allontanato la petroliera inviata in loco per l’occasione.

La National Oil Company si sdoppia
La lotta per il possesso dei giacimenti e delle infrastrutture correlate aggiunge un ulteriore fattore di complessità alle già intricate vicende libiche, oltre a essere uno dei principali driver a muovere le dinamiche di frammentazione del Paese.

L’avvertimento lanciato dalla Noc l’8 febbraio scorso lo dimostra chiaramente: la compagnia nazionale hainfatti diffidato le principali società di trading dal rifornirsi presso il porto di Marsa al Hariga.

Secondo fonti di stampa, sono sei o sette le compagnie straniere che hanno firmato contratti d’acquisto con la Noc rivale, istituita dal governo di Beida lo scorso anno nell’est del Paese, nonostante le proteste della sede di Tripoli, il cui Presidente Mustafa Sanalla rivendica l’esclusiva legittimità in base alle più recenti risoluzioni delle Nazioni Unite.

Queste ultime sono state interpretate diversamente tra l’altro dalla Lloyd Capital Management LP che ha affermato di essere entrata in trattative con Beida dopo aver ricevuto richieste per la consegna di greggio anche da parte di governi occidentali.

Nonostante le conseguenze legali di tali sviluppi non siano ancora chiare, dal punto di vista politico la situazione sembra essere definita.

La Libyan Investment Authority
Dopo il Parlamento e il governo, la crisi libica ha avuto come risultato lo sdoppiamento di un’altra istituzione, la compagnia petrolifera nazionale, procedendo verso un modello che più che federalista sembra dirigersi verso la bipartizione secessionista.

L’importanza di mantenere intatte le istituzioni finanziarie libiche è stata spesso auspicata dalla comunità internazionale. Nonostante la Noc si trovi a operare in un contesto difficile (rappresentato numericamente dai 362.000 barili di petrolio al giorno prodotti attualmente, meno di un quarto rispetto al 2011), il fattore petrolifero rappresenta al momento l’unico in grado di garantire il futuro sviluppo economico del Paese.

Ne è la riprova la Libyan Investment Authority, Lia, il fondo sovrano libico costituito dai proventi delle vendite petrolifere negli scorsi decenni. La sua importanza è stata spesso sottolineata, così come le sue partecipazioni azionarie in diverse società occidentali.

Anche in questo caso tuttavia la situazione risulta complessa. Circa l’85% degli asset del fondo (il cui valore totale è stimato in 67 miliardi di dollari) è congelato dal 2011, in base alle decisioni del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. E anche in questo caso, il rischio di uno sdoppiamento rimane elevato.

Il governo di Beida ha infatti nominato il Presidente del fondo sovrano, scegliendo Hassan Bouadhi, mentre l’ex Presidente Abdul Magid Breish da Tripoli rivendica la carica, in base a una sentenza giudiziaria di una Corte d’appello che ha riconosciuto la non applicabilità nel suo caso della Legge sull’isolamento politico che impediva agli ex funzionari del regime di Gheddafi di accedere alle cariche pubbliche.

L’attuale situazione d’incertezza pesa sul futuro del fondo. Anche in considerazione delle nazionalizzazioni di alcuni asset decise da diversi stati africani e contro cui la Lia ha presentato ricorso.

La Banca Centrale libica
A completare il quadro infine, la Banca Centrale. Nonostante alcuni tentativi di clonare questa istituzione anche a est, finora l’istituto di credito è riuscito a mantenere una certa neutralità sotto la direzione di Saddek Omar Ali Elkaber. Tuttavia, la sua politica sta contribuendo alla confusione generalizzata nel Paese.

Almeno secondo le parole dell’ambasciatore britannico Peter Millet: in una dichiarazione resa a un’audizione presso la Camera dei Comuni lo scorso 8 febbraio, il diplomatico ha affermato che la Central Bank of Libya sta alimentando la guerra civile nel Paese, continuando a pagare salari ai membri delle principali milizie che, secondo recenti stime, sono aumentati dalle 30.000 unità del 2012 fino alle 140.000 attuali.

Umberto Profazio è dottore di ricerca in Storia delle Relazioni Internazionali presso l’Università di Roma “Sapienza”,Maghreb Analyst per la NATO Defence College Foundation e Junior Researcher per il Centre for Geopolitics and Security in Realism studies. Il suo primo e-book “Lo Stato Islamico: origini e sviluppi”, è edito da e-muse.
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LIbia: alla ricerca del tempo perduto

Lotta al terrorismo
In Libia, invertire le priorità
Mario Arpino
11/02/2016
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Considerato il pratico fallimento, o, al meglio, la dubbia efficacia del nobile tentativo dell’Onu per la costituzione di un improbabile governo unitario, sono in molti coloro che cominciano a pensare che in Libia sia tempo di invertire le priorità.

In altre parole: primo, debellare l’autoproclamatosi “stato islamico”. Secondo, pensare a un nuovo governo. Il generale Khalifa Belqasim Haftar, l’uomo più forte, ma anche il più discusso del governo di Tobruk, pur sbagliando nei modi ha dimostrato di pensarla così sin dall’inizio della vicenda.

Alla ricerca del tempo perduto
Si dirà che il tentativo dell’Onu era doveroso, ed è vero. Ma, intanto, il tempo passa e in Libia lo “stato islamico” cresce e si ramifica. Noi, forti del riconoscimento internazionale del governo di Tobruk, abbiamo puntato molto su Haftar, che già si autodefinisce l’Al-Sisi libico e si immagina in doppiopetto grigio.

Ma non c’erano alternative: abbiamo cercato, in prima istanza, di tutelare i nostri interessi. Brutta parola, quest’ultima, ma non è un peccato e purtroppo non ha sinonimi. È vero, forse i due citati personaggi non sono la quintessenza della democrazia, ma, nell’attuale situazione, è evidente che sarebbe inutile e ridicolo fare gli schizzinosi.

Il premier Renzi, infatti, non lo fa. È un pragmatico, e sembra aver già fatto la sua scelta nel 2014. Per il contrasto dell’Isis, confida soprattutto sulla capacità di leadership del generale Haftar, e del suo mentore egiziano.

Sa che dobbiamo crescere, creare lavoro, e che per questo in Libia dobbiamo indurre un minimo di sicurezza e stabilità. Il premier sa anche bene che stabilità e democrazia in certe parti del mondo possono essere conflittuali, e ciò che ne consegue a volte può non essere del tutto appetibile ai nostri delicati palati. E ancora meno a quelli della Ue, che quando manca l’acquis ripudia tutto e tutti. Tranne, ovviamente, gli affari. Al momento, in Nord Africa l’Egitto e l’Algeria sono i più importanti mercati italiani, e una Libia stabilizzata potrebbe seguire a ruota.

Un investimento a rischio, ma necessario
Prendere o lasciare. E, soprattutto, evitare di inseguire utopie. Alcuni nostri alleati europei le predicano, ma non le inseguono. Al momento, quindi, questo nostro investimento in fiducia è doveroso, sebbene l’autoreferenziale Haftar, ma anche Al-Sisi, a casa loro appaiano indigesti a molti.

Quindi, come si fa per ogni investimento ad alto rischio, sarà bene rimanere sul chi vive, perché un domani gli interessi potrebbero anche divergere. Ad esempio, sulle autonomie in Cirenaica e, forse, anche sulla forma del futuro stato libico. Ma è un rischio che, qualora il risultato del volonteroso tentativo dell’Onu dovesse dimostrarsi inefficace, non presenta alternative.

In più, è noto che nel confinante Paese dei Faraoni la caccia senza quartiere ai Fratelli Musulmani sta facendo regredire i più giovani verso una sorta di clandestinità jihadista che potrebbe rendere loro molto appetibile l’abbraccio con l’Isis libico, e viceversa. È chiaro che ciò renderebbe ingestibile la situazione in Libia, trascinando nella destabilizzazione anche i confinanti Egitto, Tunisia e, forse, Algeria.

È indispensabile un deciso cambio di priorità
Ciò significa che è tempo di riflettere se si stia sbagliando qualcosa, e sull’evenienza che alcune priorità vadano decisamente riviste. Questo, il generale Haftar e il suo mentore egiziano lo hanno intuito da tempo.

Invece l’Occidente, nel suo insieme, continua a trastullarsi con il tentativo dell’Onu di stabilire in Libia un improbabile governo unitario, o a proporsi per unilaterali, quanto pericolose, fughe in avanti.

Se poi questo asfittico governo dovesse davvero richiedere - come improvvidamente ci si attende - un intervento occidentale sul terreno, allora finirebbe con il delegittimarsi del tutto e per sempre in casa propria.

Definita come prima priorità la lotta all’Isis, dobbiamo anche noi cercare di favorire - magari con una raffinata diplomazia porta a porta - la creazione di una forza di terra che comprenda, con il sostegno egiziano anche in termini di uomini sul terreno, una saldatura tra le forze fedeli a Tobruk, quelle di Misurata e tutte quelle tribali non disponibili a sottomettersi all’Isis. Come le milizie di Zliten e, a Ovest e Sud-Ovest, le forze tunisine ed algerine. Forse, questa tela si sta già tessendo.

Ma bisogna fare presto, perché mentre l’Occidente discute patrocinando soluzioni al momento impraticabili, l’Isis in Libia cresce, rischiando di portare il contagio sia a Est che a Ovest. Il suo isolamento e distruzione è la priorità che può salvare il Nord Africa, ed è in questo che i nostri alleati africani devono dimostrarsi credibili e trovare un ruolo trainante. Ciò servirebbe anche a catalizzare una sorta di sinergia delle milizie tribali.

Solo dopo si potrà ripensare ad una forma di governo accettabile per tutti. Cercare di farlo oggi, appare una dannosa perdita di tempo. Come la Libia, anche noi non ce lo possiamo permettere.

Ufficiale pilota in congedo dell’Aeronautica Militare, Mario Arpino collabora come pubblicista a diversi quotidiani e riviste su temi relativi a politica militare, relazioni internazionali e Medioriente. È membro del Comitato direttivo dello IAI.
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Un ennesimo groviglio

Caso Regeni
In Egitto, l’Italia può battere i pugni sul tavolo
Azzurra Meringolo
08/02/2016
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Gli strumenti per non accontentarsi di una verità di comodo sulla morte di Giulio Regeni ci sono. E sono politici, economici e commerciali. Se il nostro governo vuole battere i pugni sul tavolo, può far ricorso alle stesse carte giocate per sostenere la scommessa sull’Egitto di Abdel Fattah al Sisi.

Una scommessa che Renzi ha difeso con determinazione, cercando di darle una concretezza economica minata fino a due anni fa dall’instabilità post-rivoluzionaria. Fattore, quest’ultimo, che rendeva titubanti gli investitori italiani.

Da quando al Sisi ha mostrato i primi risultati del suo progetto di stabilizzazione - forzata - dell’Egitto, il terreno per gli affari è diventato più fertile. Lo dimostra la missione al Cairo guidata dal ministro per lo Sviluppo economico, Federica Guidi, sospesa subito dopo la notizia della morte di Regeni.

Concretezza economica alla alleanza Italia-Egitto
La spedizione, alla quale hanno preso parte una sessantina di imprese italiane, è arrivata dopo la visita a Roma, a dicembre, del ministro egiziano per gli Investimenti, Ashraf Salman.

Nulla di nuovo sotto il sole, se pensiamo che Roma è il primo partner europeo dell’Egitto, dove operano stabilmente circa cento imprese italiane, e che il nostro interscambio - destinato secondo le previsioni a crescere - si aggira intorno ai 5 miliardi di dollari.

Il primo sforzo per dare concretezza alla scommessa politica di Renzi su al Sisi si è visto nel novembre 2014, in occasione del Business Forum italo-egiziano, il primo ufficiale dal 2012. Gli imprenditori di questo forum - nato nel 2006 - si sono riuniti a Roma in occasione del primo viaggio del maresciallo in Europa.

Una missione che Renzi ha spinto per far cominciare in Italia anziché in Francia, ricordando al raìs egiziano di essere stato il primo leader occidentale ad atterrare al Cairo, nell’agosto 2014, dopo che il maresciallo aveva sostituito la divisa con gli abiti da presidente. In questa occasione sono stati firmati una serie di accordi - in ambito di energia, trasporti, sicurezza, agricoltura, costruzione, formazione e infrastrutture - che hanno coinvolto in primis Fincantieri, Ansaldo Energia e Sace.

Shopping italiano a Sharm el-Sheikh
L’occasione più ghiotta è stata però quella del summit di Sharm el-Sheikh dello scorso marzo. Qui lo shopping ha coinvolto una trentina di nostre imprese, pronte a investire nei progetti di crescita presentati da al Sisi.

Nel nord del Paese l’Italia scommette sul turismo, cercando di replicare nella striscia di costa che si avvicina alla Libia la storia di successo dei resort di Sharm el-Sheikh che porta la firma del made in Italy.

Nel sud scende in campo il gruppo D’Appolonia, deciso a diventare protagonista del triangolo minerario Qena-Safaga-Quseir. In ballo c’è un piano di sviluppo da 1,7 miliardi di dollari per la creazione di un hub industriale, logistico e portuale.

Nel Sinai, i nostri investimenti si concentrano tutti sul Canale di Suez, il cui raddoppio annunciato ad agosto vede coinvolta anche Fincantieri.

In campo energetico a farla da padrone è l’Eni, primo gruppo straniero in questo settore. A mostrarlo è la firma, a latere del summit di Sharm, di un piano di investimenti da circa 5 miliardi di dollari per lo sviluppo di un giacimento da 200 milioni di barili di petrolio e 37 miliardi di metri cubi di gas.

Suggellato anche dall’intesa, a novembre, per la creazione del super hub del gas che vede coinvolti anche Cipro e Israele. Partendo dal Mediterraneo orientale, questo progetto potrebbe allargarsi alla sicurezza energetica continentale, in primis a quella dei Paesi della sponda nord del Mediterraneo.

Dopo la recente scoperta di nuovi giacimenti nei dintorni del bacino di Zohr - stimato in 850 miliardi di metri cubi -, il Cane a sei zampe pregusta i possibili guadagni.

A investire su nuove fonti di energia green sono invece l’italiana MegaCell - che ha firmato un contratto con Misr Asset Management per lo sviluppo di pannelli solari - e Italgen (Italcementi), che deve però risolvere un contenzioso legale. Lo stesso deve fare Intesa San Paolo, dal 2006 l’unico istituto di credito straniero in Egitto, ora sotto minaccia di un procedimento contro una sua acquisizione.

Missione del ministro Guidi
Tra le novità emerse nella missione capitanata dal ministro Guidi c’era anche la maxi commessa alla Technip Italia (la cui capogruppo è francese) per l’upgrade della raffineria di Midor, nei pressi di Alessandria, operazione che per una quota di 1,2 miliardi avrà il sostegno assicurativo-finanziario di Sace.

Vicina al traguardo - almeno prima della notizia della morte di Regeni - anche una nuova doppia commessa per Ansaldo Energia, pronta a finanziare una linea ferroviaria ad alta velocità di 1.200 km che colleghi Alessandria ad Assuan e a lavorare sull’ammodernamento della centrale elettrica del Sei ottobre, la città satellite del Cairo.

La missione che stanno compiendo i nostri investigatori per far luce sulla morte di Regeni è tutt’altro che facile. Ma l’Egitto di al Sisi - ancor più di noi - non può permettersi di mettere in crisi la sua fragile economia. Dalla sua parabola dipende il futuro del maresciallo che si fece presidente.

Azzurra Meringolo è ricercatrice presso lo IAI e caporedattrice di Affarinternazionali. Coordinatrice scientifica di Arab Media Report. Potete seguirla sul suo blog e su twitter a @ragazzitahrir.
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mercoledì 10 febbraio 2016

ISIS: le fonti di sostentamento

Lotta al Califfato
Caccia alle finanze del Califfato, tra i fondi anche il crowdfunding 
Giuseppe Maresca
11/02/2016
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Approfittando del vuoto di potere causato dalla crisi degli stati iracheno e siriano, l'Is ha occupato una importante zona di territorio a cavallo dei due stati. Dal controllo del territorio Is ricava le risorse necessarie per finanziare la sua esistenza, le sue operazioni e il sostegno dei c.d. affiliates, i gruppi terroristici collegati a Is o che a Is si richiamano.

Si ritiene che la razzia delle banche irachene, all'atto dell'occupazione, abbia fruttato all'Is una somma stimabile in almeno 600 milioni di dollari. Si tratta di una fonte di reddito non ripetibile, poiché le filiali nei territori occupati sono state tagliate fuori dal circuito internazionale che passa obbligatoriamente dalla banca centrale irachena.

Petrolio, confische, razzie di opere d’arte
Il flusso di reddito continuo più importante è ora rappresentato dall'estrazione e commercializzazione del petrolio e - marginalmente - di altre materie prime (gas, fosfati). Queste fonti di reddito, soprattutto il petrolio, pur potenzialmente molto redditizie, trovano dei limiti nelle difficoltà tecniche e logistiche di estrazione e in quelle di commercializzazione tramite la rete preesistente di contrabbandieri.

Un'altra fonte importante di finanziamento è quella derivante dal taglieggiamento della popolazione, a cominciare dalle confische (tassazioni) dei prodotti agricoli e degli stipendi dei dipendenti pubblici.

La vendita dei prodotti archeologici e artistici razziati nei territori occupati produce un reddito più limitato ma si tratta di un fenomeno doloroso, sia per la dispersione di pezzi di patrimonio dell'umanità, sia perché i ricettatori si rivolgono a mercati europei e americani.

Esistono solo stime approssimative dei riscatti pagati a seguito di rapimenti ma si ritiene che possano essere consistenti. Le donazioni, che erano essenziali per la sopravvivenza di Al-Qaeda, sembrano avere invece un'importanza assai inferiore per Is, forse anche per la più attenta vigilanza dei paesi da cui tradizionalmente provengono le donazioni più importanti.

Oggi l'Is dispone ancora di fondi abbondanti, ma alcune delle sue fonti di reddito sono fragili mentre il mantenimento dello stato in guerra continua a essere costoso.

La razzia delle banche è per definizione una tantum, almeno in assenza di ulteriori espansioni territoriali del movimento, mentre il taglieggiamento della popolazione locale rappresenta un flusso di reddito ragionevolmente stabile, ma non sufficiente a mantenere Is.

Diventa quindi cruciale il flusso di denaro derivante dalla vendita del petrolio. Dalla grande quantità di dati acquisiti con il raid che il 16 maggio 2015 ha portato all'uccisione di Abu Sayyef, responsabile del settore gas e petrolio, sappiamo che Is dispone di una macchina burocratica complessa: esistono procedure amministrative per registrare veicoli e autisti, coordinare i movimenti di migliaia di camion nei luoghi di carico del petrolio, raccogliere i pagamenti, rilasciare ricevute, gestire e monitorare i movimenti di contante, registrare le vendite.

Le operazioni di estrazione e gestione del petrolio coinvolgono centinaia di ingegneri, di contabili e di specialisti di gestione finanziaria e logistica.

A questi si affiancano circa 1600 operai per i lavori sui pozzi: costruzione, manutenzione, riparazioni. L’Is è in possesso di mappe, dati sulla produzione, studi geologici del ministero del petrolio siriano che gli hanno permesso di programmare i suoi interventi sui siti petroliferi per massimizzare la sua capacità estrattiva.

Trasferimenti di denaro
Le informazioni raccolte permettono alla Coalizione di ottimizzare l’efficacia dei tre strumenti disponibili: gli attacchi militari mirati a colpire i punti più deboli del sistema produttivo di Is; il rafforzamento dei controlli sulle frontiere dei paesi limitrofi, specie della Turchia; la stretta sui trasferimenti di denaro attraverso i confini.

Su quest'ultimo punto i controlli della Banca centrale irachena sulle Exhage Houses hanno portato alla chiusura di circa 150 sportelli che avevano connessioni con i territori occupati da Is.

La Coalizione sta esercitando una forte pressione su Is: una ulteriore compressione dei ricavi da petrolio e controlli più efficaci sui movimenti di denaro dentro e fuori dai territori occupati costringerà Is a ridurre le spese, a cominciare dai salari dei combattenti e dei tecnici e operatori dei pozzi. Sarà inoltre costretta ad abbandonare qualsiasi supporto finanziario agli affiliates, a cominciare da quelli presenti in Libia nella zona di Sirte.

I paesi della Coalizione stanno inoltre aumentando l’attenzione sulle fonti di finanziamento finora meno utilizzate, in particolare le donazioni da parte di simpatizzanti nei paesi arabi, le distrazioni di fondi da charities nei paesi sviluppati, il ricorso a moderne tecniche quali il crowdfunding.

Giuseppe Maresca è Capo Direzione V - Prevenzione dell’utilizzo del sistema finanziario per fini illegali.
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venerdì 5 febbraio 2016

Marocco: il problema dei Sahrawi e l'Europa

Relazioni Ue-Mena
Ue-Marocco e l'autodeterminazione dei sahrawi
Claudia De Martino
31/01/2016
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Nella crisi regionale che contraddistingue l’area Mena, la politica commerciale dell’Unione europea, Ue, oscilla tra buone relazioni e sostegno agli esempi riusciti di “Primavere arabe” - Tunisia e Marocco - pragmatismo con Paesi crescentemente autoritari -Turchia ed Egitto, e difficoltà a relazionarsi con i Paesi, come la Libia, dove all’ordine del giorno si pone con urgenza la necessità di trovare una soluzione politica.

Tuttavia, se le “Primavere arabe riuscite” sembrano casi più facili per rilanciare buone relazioni euro-mediterranee di vicinato, anche in questi casi la posizione Ue incorre nel rischio di essere considerata partigiana e faziosa, ovvero diversamente indifferente, punitiva o conciliante a seconda dei suoi interessi strategici e commerciali verso Paesi dell’area che presentano situazioni comparabili.

Nel momento in cui assume toni di critica più accesi verso la fallimentare politica di occupazione israeliana della West Bank - attraverso l’imposizione dell’etichettatura dei prodotti dei Territori occupati commercializzati nella Ue e la recente decisione del Consiglio per gli Affari Esteri dell’Ue, che ieri ha approvato una risoluzione che chiede che gli accordi tra lo Stato di Israele e l’Ue siano inapplicabili nei Territori Occupati -, non si pronuncia su dossier analoghi di dispute territoriali tuttora aperti in altri Stati.

Pragmatismo europeo
È il caso della Turchia che continua da 42 anni l’occupazione di Cipro Nord, e del Marocco, che contende da altrettanti 43 anni il territorio del Sahara Occidentale, contestando il diritto all’autodeterminazione del popolo sahrawi. In entrambi i casi la Commissione europea legittima lo status quo per ragioni di interesse strategico, militare e commerciale dell’Ue.

Non stupisce, dunque, che in entrambi i casi la Ue adotti un atteggiamento a dir poco conciliante. Alla Turchia, la nota del Consiglio europeo n.389/2006 allocò, infatti, “un supporto finanziario” - pari all’incirca a 259 milioni di euro gestiti dal Direttorato Generale Ue per l’Allargamento alla comunità turco-cipriota - “che incoraggi lo sviluppo economico della comunità turco-cipriota”, che non è mai stata revocato.

Mentre al Marocco, nei recenti accordi siglati nel settore della pesca, riconosce ufficialmente il possesso di importanti risorse naturali, come le “risorse idriche [del Sahara Occidentale] (che) si possono considerare all’interno della giurisdizione del Regno del Marocco”.

Ue e Marocco: liberalizzazione dei prodotti agricoli e della pesca
Il Marocco è al momento al centro dell’attenzione perché oggetto di disputa tra differenti poteri europei che sembrano farsi portatori di visioni sensibilmente diverse sulla conduzione delle relazioni esterne dell’Ue.

Il 10 dicembre scorso, la Corte europea di giustizia ha infatti annullato l’accordo di reciproca liberalizzazione dei prodotti agricoli e della pesca tra Ue e Marocco, ordinando la modifica dei protocolli 1, 2 e 3 loro annessi e contestando la sua validità sul territorio conteso del Sahara occidentale.

L’accordo commerciale sollevava, a parere della Corte, una serie di problemi, dal momento che la stessa Ue non riconosce la sovranità integrale del Marocco sul territorio, sul quale sono in corso dei negoziati internazionali a livello Onu.

I rappresentanti del Sahara occidentale - il Fronte Polisario - avevano inoltre condannato l’accordo come un “tentativo di legittimare l’espoliazione delle risorse naturali dell’area da parte della potenza occupante”.

Tuttavia la Commissione Ue ha fatto subito appello contro la decisione della Corte e non sembra affatto disposta ad inserire un’esplicita clausola di esclusione del Sahara occidentale, che comunque verrebbe difficilmente accolta dal governo del Marocco, il cui Ministro delle comunicazioni, Mustapha Khalfi, ha bollato la sentenza come “politica” e tale da compromettere il complesso delle relazioni bilaterali con la Ue.

La sentenza della Corte europea di giustizia è infatti arrivata in completa controtendenza rispetto alla posizione tenuta dalla Commissione lungo tutte le negoziazioni: il Commissario Ue agli Affari marittimi e alla pesca, Enrico Brivio, aveva infatti affermato che l’accordo tra Ue e Marocco fosse perfettamente legale dal punto di vista del diritto internazionale e che dovesse applicarsi anche al Sahara occidentale, in quanto territorio non autogovernato, ma posto sotto l’amministrazione marocchina.

Il Protocollo n. 2, citato dalla Corte, definisce inoltre l’autorità marocchina come dotata non di“piena sovranità”, ma di “giurisdizione” sulle acque a largo del Sahara occidentale: un eufemismo utile a camuffare il pragmatismo tradizionalmente adottato dalla Commissione Ue nei negoziati commerciali con i Paesi mediterranei.

Colonizzazione del Sahara occidentale
A parere della Commissione, inoltre, l’Accordo avvantaggerebbe anche gli abitanti del Sahara occidentale che, dunque, esprimerebbero una certa miopia nel rifiutarlo.Tuttavia la Commissione sembra ignorare il fatto che la maggior parte delle proprietà agricole nella regione di Dakhla siano proprietà esclusiva della monarchia o di grandi multinazionali franco-marocchinee che quasi nessun sahrawi risulti proprietario di piantagioni.

Inoltre, è noto che il governo marocchino promuove attivamente una politica di colonizzazione del Sahara occidentale offrendo programmi ed incentivi ai lavoratori stagionali marocchini per trasferirvisi e risiedervi stabilmente.

Infine, l’Unione africana stessa denuncia l’occupazione del Sahara occidentale da parte del Marocco, ragione per la quale il paese non è stato accolto tra i suoi membri.

Sembra che l’Ue conduca con una certa schizofrenia i suoi accordi commerciali, cercando di premere sul conseguimento dei suoi obiettivi economici sui dossier controversi sui quali l’attenzione internazionale non è alta, appellandosi invece al diritto internazionale ed all’autodeterminazione dei popoli laddove gli interessi politici e strategici europei sono invece determinanti.

Per risultare più credibili, Parlamento, Commissione e Consiglio Ue dovrebbero pertanto concordare una strategia coerente nei confronti dei Mena.

Claudia De Martino è ricercatrice presso Unimed, Roma e autrice di “I mizrahim in Israele”, Carocci editore.
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martedì 2 febbraio 2016

LIbia: è difficile risalire la china

Libia
Governo libico, parto difficile
Umberto Profazio
28/01/2016
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Fiducia negata. Il 25 gennaio la Camera dei Rappresentanti di Tobruk non approva il governo di unità nazionale libico. Ennesimo smacco per i mediatori delle Nazioni Unite che pone nuovi interrogativi alle cancellerie europee messe di fronte alla frammentazione dello scenario politico libico e alla nuova offensiva lanciata dall’autoproclamatosi “stato islamico”.

Il voto di Tobruk
Il Parlamento di Tobruk, l’unico legittimamente riconosciuto dalla comunità internazionale, ha respinto il nuovo governo del Primo Ministro designato Fayez al-Sarraj che, composto da 32 membri in rappresentanza delle diverse regioni della Libia, era stato nominato il 19 gennaio. Già la sua gestazione aveva causato non poche polemiche nel Paese. L’elevato numero di ministri, il basso profilo di alcuni di essi e soprattutto l’annuncio della sua formazione dato da Tunisi e non dal territorio nazionale erano fattori indicativi che lanciavano chiari segnali sulla sua futura sorte.

L’impressione in tutto il Paese è infatti che il governo non sia un’emanazione libica, quanto il frutto di un’imposizione da parte esterna.

L’accordo di Skhirat e il fattore Haftar
Con l’uscita di scena del mediatore Onu Bernardino León e l’ingresso di Martin Kobler, il 15 dicembre si è arrivati al tanto sospirato accordo di riconciliazione nazionale, firmato a Skhirat. Tuttavia già allora l’accordo era stato investito da forti critiche.

Alcune clausole sono divenute ostacoli insormontabili, in particolare quelle relative al comando delle forze armate, con Tobruk che rifiuta ogni eventualità di un allontanamento del generale Khalifa Haftar come richiesto da Tripoli. Figura controversa, Haftar è a capo del Libyan National Army, Lna: a dispetto del nome, l’Lna non è altro che una delle principali milizie presenti nell’est del Paese, da mesi impegnato nell’assedio di Bengasi contro gli islamisti. Non è un caso che il giorno stesso in cui la Camera dei Rappresentanti ha negato la fiducia al nuovo governo, il Parlamento di Tobruk abbia anche abrogato l’art. 8 dell’accordo di Skhirat che stabiliva il trasferimento al Primo Ministro di ogni potere relativo al comando supremo delle forze armate, alla nomina degli esponenti militari e delle forze di sicurezza e la facoltà di decretare lo stato di emergenza.

Ancora una volta quindi il fattore Haftar è risultato decisivo, nonostante la figura del generale sia stata investita da pesanti accuse. Dopo aver defezionato dall’Lna, il suo ex portavoce Mohammed al-Hijazi ha accusato il generale di corruzione, trovando il sostegno del Presidente della Camera di Tobruk Agila Saleh che ha istituito una commissione d’inchiesta sulla vicenda. In realtà, se mai vi è stata frattura tra Haftar e Saleh, essa si è subito ricomposta come dimostra l’incontro tra i due ad al-Maraj il 24 gennaio e soprattutto l’esito del voto del 25 gennaio. Haftar gode poi del sostegno degli Emirati, della Giordania e dell’Egitto. Dopo aver violentemente represso la Fratellanza Musulmana, il Cairo si è mostrato fortemente avverso a un’eventuale diffusione dell’islamismo politico nella regione. In questo Haftar è risultato utile, sia come pedina da muovere nel complesso scenario libico, sia come baluardo all’avanzata degli islamisti lungo i confini orientali.

L’offensiva jihadista e il nodo di Tripoli
Tuttavia ciò non basta a fermare l’avanzata del Califfato. Il camion bomba esploso a Zliten il 7 gennaio ha fatto registrare il bilancio peggiore in termini di vittime (circa 70, soprattutto cadetti di una scuola di polizia) da circa un anno. Ma è stata soprattutto l’offensiva scatenata contro il cosiddetto “crescente petrolifero” (la zona dove sono situati i principali terminal libici) ad aver creato allarme. L’attacco a inizio gennaio contro es-Sider è proseguito nei giorni scorsi a Ras Lanuf, respinto solo con molte difficoltà dalle Guardie Petrolifere, milizia federalista guidata da Ibrahim al-Jathran. Nonostante tali eventi incidano poco sui prezzi del greggio su un mercato internazionale sostanzialmente saturo, la capacità di proiezione della filiale libica di Al-Baghdadi è visibilmente aumentata.

Serra, l’incontro con le milizie libiche e l’intervento occidentale
Dopo il voto del 25 gennaio, Serraj ha altri 10 giorni di tempo per presentare un nuovo esecutivo, possibilmente meno numeroso. Oltre alla costante preoccupazione di garantire un’equa rappresentanza alle varie province libiche, tra i nodi principali da sciogliere vi è anche l’atteggiamento del Congresso Generale Nazionale.

Il suo Presidente, Nouri Abu Sahmain, è visibilmente ostile a ogni ipotesi che veda il nuovo governo insediarsi a Tripoli, così come diverse fazioni della coalizione islamista Fajr (Alba) che hanno minacciato di resistere con le armi. Nella stessa coalizione sono comunque iniziate a emergere divisioni, con alcuni gruppi che sembrano volersi attestare su posizioni più moderate. Su questo fronte sta lavorando il Generale Paolo Serra che, in qualità di consigliere militare di Kobler, ha incontrato diversi capi-milizia (tra i quali quelli di Zintan e Misurata) per assicurare condizioni di sicurezza accettabili nella capitale nell’eventualità di un trasferimento del governo.

La costituzione di un governo di unità nazionale è stato finora la condicio sine qua non per un intervento militare occidentale in Libia. Nonostante la cautela delle varie capitali è prevedibile una forte azione di contrasto per fermare i gruppi jihadisti che proliferano nell’area.

Al momento tuttavia, l’attività maggiore sembra registrarsi nel settore dell’intelligence, con il monitoraggio aereo e la presenza, segnalata a più riprese da diverse fonti di stampa, di forze speciali di diversi Paesi al fine di stringere legami con i numerosi attori presenti sul terreno. I pericoli sono dietro l’angolo. In un panorama politico e sociale così frammentato come quello libico, l’individuazione di partner affidabili risulterà un fattore cruciale per il buon esito di ogni eventuale operazione di contrasto al terrorismo jihadista.

Umberto Profazio è dottore di ricerca in Storia delle Relazioni Internazionali presso l’Università di Roma “Sapienza”, Maghreb Analyst per la NATO Defence College Foundation e Junior Researcher per il Centre for Geopolitics and Security in Realism studies. Il suo primo e-book “Lo Stato Islamico: origini e sviluppi”, è edito da e-muse.
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Egittto: conflitti in seno alla Fratellanza Mussulmana

Egitto
Fratelli coltelli Musulmani
Azzurra Meringolo
24/01/2016
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Una Confraternita che si presenta con un portavoce diverso in base all’emittente sulla quale compare. Un movimento privo di un unico portale e quindi problematico da seguire, vista l’esistenza di due siti web nella sua lingua ufficiale.

Che cosa sta succedendo alla Fratellanza Musulmana dopo la catastrofe del 2013? Basta seguire i dibattiti che compaiono sugli schermi delle principali emittenti arabe per capire che la catastrofe del 2013 ha trasformato la Fratellanza Musulmana in una Confraternita dalla doppia personalità.

Chi a metà dicembre ha fatto zapping tra Al-Jazeera Mubashira Misr (il canale di Al-Jazeera dedicato alla diretta dall’Egitto) e Al-Hiwar (tv araba che trasmette da Londra) è rimasto probabilmente spiazzato nel sentire Mohammed Montasser parlare a nome della Confraternita sulla prima rete, mentre Talaat Fahmy faceva lo stesso sul secondo canale.

L’episodio è in realtà la cartina di tornasole del forte conflitto, ormai di dominio pubblico,che attraversa il Movimento. I membri coinvolti hanno infatti trasformato l’arena mediatica nel loro campo di battaglia.



Un conflitto latente che viene a galla
Montasser - che ha dichiarato di usare uno pseudonimo per scongiurare la sorte toccata ai Fratelli coinvolti nelle retate di massa delle autorità egiziane - è per alcuni, era per altri, il portavoce della Suprema Commissione Amministrativa, l’organo più importante della Confraternita, dopo il Consiglio della Shura.

Fahmy è-sempre solo per alcuni - l’uomo che ha preso il suo posto. Lo ha deciso Mahmood Ezzat, vice di Mohammed Badie, ritenuto da tutte le fazioni ancora Guida Suprema, anche se sulla sua testa pende una condanna a morte. Da un Paese sconosciuto, Ezzat avrebbe preso questa decisione a dicembre insieme ai suoi due vice, uno in Turchia e l'altro in Regno Unito.

Dietro questi colpi di scena e smentite si nasconde un conflitto che va ben oltre quello tra i Fratelli in patria e quelli messisi in salvo nella diaspora. La frattura messa in luce da questo teatrino mediatico è in realtà uno spartiacque generazionale all’interno del Movimento molto più profondo e latente.

Uno scontro tra i giovani - che chiedevano ai vertici della Confraternita di adottare un processo decisionale più democratico - e la vecchia leadership che ha continuato per anni a escludere le nuove generazioni da ogni processo decisionale, arrivando anche ad allontanare dal movimento Aboul Fothou, islamista considerato dai Fratelli giovani l’uomo di referimento.

Da quando il “nuovo” regime di Abdel Fattah Al-Sisi ha confinato nelle carceri quasi tutta la vecchia guardia, i giovani hanno preso le redini del Movimento.

Attraverso un processo di consultazione interna, nel febbraio 2014 è stata eletta una commissione per la gestione della crisi. Ma se in patria la nuova guarda ha ormai il potere, nel contesto internazionale deve fare i conti con i rimasugli della vecchia leadership che non accetta il cambiamento generazionale e quanto ne deriva.

Ikhwan site, l'antagonista di Ikwan Online
I più agguerriti contro la nuova dirigenza sono soprattutto i Fratelli londinesi. Nelle loro fila ci sono anche gli architetti di Ikhwan site, il portale concorrente a Ikhwan Online, fino ad ora la pagina ufficiale della Fratellanza. Non sorprende quindi trovare su questo sito l’annuncio del licenziamento di Montasser, accusato di aver violato norme di comportamento interno.

Opposto il dibattito scatenatosi su Ikhwan Online che continua a mostrarsi insofferente verso i vecchi dirigenti, criticati per la loro chiusura e rigidità e accusati di aver mal gestito il potere ottenuto dopo la caduta di Hosni Mubarak.

È anche per questo che la nuova dirigenza ha optato per un approccio rivoluzionario e violento nei confronti del regime di Al-Sisi, ben rappresentato dall’appello lanciato da 150 studiosi musulmani provenienti da 20 paesi diversi, nel quale opporsi ad Al-Sisi è definito un dovere religioso da portare avanti punendo ogni sostenitore del suo regime.

Ritorno alla violenza, per ora limitata
Ritenendo fallimentare la gestione dei loro predecessori, i giovani non si starebbero facendo scrupoli a tornare alla lotta armata, caratteristica della Fratellanza dei primi decenni. Per ora si pensa a un ricorso limitato: usarla per operazioni che mirano a colpire il regime, ma non nei confronti di civili.

É questa evoluzione che preoccupa, in quanto si teme che qualora fossero messi nuovamente ai margini, i giovani Fratelli potrebbero anche essere pronti ad arruolarsi nei movimenti estremisti che stanno sconvolgendo il Medio Oriente.

Questo triste sviluppo potrebbe essere scongiurato dall’elezione nella Confraternita di nuovi vertici. Visto che l’attuale dirigenza è stata eletta nel 2010 con un mandato di 4 anni, secondo Montasser ci sarebbero tutto le condizioni per farlo. Per la vecchia guardia però, il ritorno alla clandestinità della Confraternita in seguito al ritorno al potere dei militari rende i tempi non maturi e suggerisce di ritardare l’appuntamento.

A proporre un vero e proprio tentativo di mediazione sono stati anche 44 ex deputati appartenenti alla Fratellanza che a fine 2015 hanno annunciato un’iniziativa per rimettere insieme i cocci della Confraternita.

Anche questo sforzo rischia però di essere vano, almeno fino al 25 gennaio, quinto anniversario dello scoppio della rivoluzione di Piazza Tahrir. È questa la data che aspettano quanti vogliono misurare i muscoli dei giovani Fratelli e verificare la credibilità delle loro minacce nei confronti del regime di Al-Sisi.

Azzurra Meringolo è ricercatrice presso lo IAI e caporedattrice di Affarinternazionali. Coordinatrice scientifica di Arab Media Report. Potete seguirla sul suo blog e su twitter a @ragazzitahrir.
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Iran: l'orizzonte si schiarisce

Accordo sul nucleare iraniano
Il destino dell’accordo Iran-Usa, una questione di politica interna
Riccardo Alcaro
20/01/2016
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Sabato scorso le Nazioni Unite hanno confermato che l’Iran ha adempiuto alla sua parte dell’accordo siglato a Vienna nel luglio 2015 e limitato le attività più sensibili del suo programma nucleare.

In risposta, gli Usa e l’Unione europea, Ue, hanno sospeso (i primi) e revocato (la seconda) buona parte delle sanzioni che nel corso degli anni avevano adottato nel tentativo di costringere il governo iraniano a fornire garanzie della natura solo pacifica del programma nucleare.

A suggellare una giornata di ritrovata intesa, Usa ed Iran si sono anche accordati per uno scambio di persone detenute nei rispettivi paesi, nonché per chiudere un’antica vertenza finanziaria pendente fin dal 1981. Alcuni hanno parlato di un giorno storico. Se così sarà, tuttavia, dipenderà più da quanto succederà nel prossimo futuro in Iran e negli Usa che da quanto è avvenuto finora.

Obama e Rouhani, differenza di toni
Sia il presidente Usa, Barack Obama, che quello iraniano, Hassan Rouhani, hanno salutato l’entrata in vigore dell’accordo come un momento storico. Tuttavia i due leader hanno posto l’accento su aspetti diversi. Mentre Rouhani ha insistito sul fatto che l’Iran si è finalmente liberato dello status di paria internazionale, Obama ha ripetuto una volta ancora che l’accordo costituisce la garanzia migliore per tenere l’Iran lontano dall’ottenere armi nucleari.

La differenza nei toni non si spiega con una diversa lettura del valore strategico dell’accordo. Sia Rouhani sia Obama sono persuasi che l’accordo possa nel tempo creare un ambiente in cui una forma di cooperazione selettiva - come quella che, dietro le quinte, è già in atto in Iraq in chiave anti-“stato islamico” - diventi una pratica comune e accettata.

Tuttavia, entrambi i leader sono consapevoli che non esistono ancora le condizioni politiche interne perché l’ostilità ideologica tra Usa ed Iran venga messa da parte. È proprio il contesto interno che spiega la differenza di toni.

Nell’accordo nucleare Rouhani vede una leva per aumentare l’influenza della presidenza sugli altri centri di potere che caratterizzano la complessa architettura costituzionale della Repubblica islamica: il parlamento (oggi in mano ai conservatori), l’assemblea degli esperti (un organo riservato al clero che ha l’importante compito di eleggere la Guida suprema), il potere giudiziario, le Guardie rivoluzionarie (un’organizzazione para-miliare che però controlla ampi settori dell’economia), nonché la Guida suprema stessa.

L’accordo sul nucleare e la sopravvivenza politica di Rouhani
A febbraio gli iraniani saranno chiamati a eleggere il nuovo parlamento e i membri dell’assemblea degli esperti. Affrettando l’attuazione dell’accordo da parte iraniana (la cui rapidità ha sorpreso leader ed esperti occidentali) ed ottenendo così la fine delle sanzioni, Rouhani spera di guadagnare consenso ai candidati che lo sostengono.

Con un parlamento meno ostile al presidente ed un’assemblea degli esperti meno orientata verso il fronte conservatore, Rouhani si assicurerebbe maggiori spazi di manovra per una politica di moderazione sia sul fronte interno che esterno, nonché maggiori chances di essere rieletto nel 2017.

L’accordo nucleare è in altre parole più funzionale alla sopravvivenza e al successo politico di Rouhani che all’attuazione di un grande disegno di riconfigurazione costituzionale della Repubblica islamica. Per lo stesso motivo, l’opposizione all’accordo nucleare - diffusa in parte dell’establishment politico e di sicurezza iraniano - ha tanto un valore strategico quanto uno più prettamente politico.

Se l’accordo fallisse, la carriera politica e l’agenda intera di Rouhani sarebbero compromessi. Tuttavia, gli oppositori di Rouhani non possono semplicemente denunciare l’accordo, pena il ritorno delle sanzioni e il nuovo isolamento della Repubblica islamica.

Lo scenario migliore per i radicali iraniani è invece che siano gli Usa a perdere fiducia nell’accordo e renderne impossibile l’attuazione. Per questo una loro affermazione a febbraio potrebbe portare ad un atteggiamento più aggressivo nella regione e ad altre misure provocatorie verso gli Usa.

Opinione pubblica Usa divisa sull’accordo
L’accordo nucleare ha diviso l’opinione pubblica Usa e l’intero Partito repubblicano - che controlla entrambi i rami del Congresso - lo ha denunciato come un’inaccettabile capitolazione nei confronti dell’Iran. Tutti i candidati repubblicani alla presidenza lo osteggiano, sebbene non sempre abbiano chiarito che cosa ne farebbero se fossero eletti alle presidenziali del prossimo novembre. Improbabile (ma non impossibile) che si decidano per un ritiro unilaterale. Se così facessero, esporrebbero gli Usa all’accusa di avere compromesso da soli un’intesa raggiunta dopo anni di faticosi negoziati.

Tuttavia, un accordo così complesso sul piano tecnico è immancabilmente destinato a generare interpretazioni diverse. La prossima presidenza Usa potrebbe far leva su questo - oltre che sulle numerose altre questioni su cui Iran e Usa restano ai ferri corti - per minare la fiducia interna e internazionale nelle ‘vere’ intenzioni dell’Iran.

Se l’accordo venisse screditato, l’antagonismo Iran-Usa si acuirebbe, chiudendo ogni spazio o quasi alle limitate forme di cooperazione cercate da Obama e Rouhani.

Il destino dell’accordo nucleare e dei suoi effetti sulla relazione tra Usa e Iran dipende in buona parte dall’evoluzione del contesto interno ai due paesi. Se l’ala radicale dell’establishment iraniano dovesse uscire vittoriosa dalle elezioni parlamentari di febbraio, e se a novembre dovesse vincere un candidato repubblicano, la tenuta dell’accordo (così come la possibilità di una graduale stabilizzazione delle relazioni Usa-Iran) sarebbe tutt’altro che garantita.

Riccardo Alcaro è responsabile di ricerca dello Iai e non-resident fellow presso la Brookings Institution di Washington.
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