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Metodo di Ricerca ed analisi adottato


Il medoto di ricerca ed analisi adottato è riportato suwww.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com

Vds. post in data 30 dicembre 2009 seguento il percorso:
Nota 1 - L'approccio concettuale alla ricerca. Il metodo adottato
Nota 2 - La parametrazione delle Capacità dello Stato
Nota 3 - Il Rapporto tra i fattori di squilibrio e le capacità delloStato
Nota 4 - Il Metodo di calcolo adottato

Per gli altri continenti si rifà riferimento al medesimo blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com per la spiegazione del metodo di ricerca.

mercoledì 31 maggio 2017

Tripoli: il Cairo all'offensiva

Raid aerei su Derna
Libia: l’Egitto ipoteca il futuro
Umberto Profazio
05/06/2017
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Il 26 maggio 2017, l’aviazione egiziana ha effettuato sei raid aerei in Libia, colpendo postazioni e campi di addestramento di presunti gruppi terroristici nell’est del Paese.

L’attacco è avvenuto poche ore dopo l’attentato di Minya, 250 chilometri a sud del Cairo, dove un gruppo di miliziani aveva aperto il fuoco contro un bus che trasportava cristiani copti diretti in pellegrinaggio presso il monastero di Anba Samuel, causando almeno 29 vittime e 24 feriti.

In un discorso televisivo, il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi ha condannato l’attacco, avvisando che l’Egitto non avrebbe esitato a colpire le basi dei terroristi, sia all’interno che all’esterno del Paese.

Nelle stesse ore l’aviazione egiziana lanciava raid aerei contro Derna, dove - secondo fonti del governo del Cairo - sarebbe stato pianificato l’attacco di Minya: tra gli obiettivi, campi di addestramento e depositi di armi del Derna Mujhahidden Shura Council (Dmsc), una coalizione islamista che controlla la città dal 2015.

Nelle ore successive, nuovi attacchi aerei egiziani hanno colpito invece Jufra, Waddan e Hun, mentre il 29 maggio l’aviazione egiziana è tornata nuovamente su Derna, colpendo l’entrata occidentale della città e il quartiere di Dahr al-Homir.

Non è la prima volta che il Cairo lancia attacchi aerei in Libia. Basti ricordare il raid effettuato il 16 febbraio 2015, quando l’Egitto rispose alla decapitazione di 21 copti egiziani rivendicata dalla filiale libica del sedicente Stato Islamico con attacchi aerei proprio su Derna.

Anche oggi come allora la furiosa reazione egiziana è stata evidentemente determinata dalla forte emozione per l’attentato subito. L’offensiva del Cairo nell’est della Libia ha tuttavia sollevato numerosi dubbi, in particolare riguardo la responsabilità dei gruppi colpiti e le reali motivazioni dietro la scelta di intervenire nel complesso teatro libico.

I dubbi sull’offensiva del Cairo
Il 27 maggio, infatti, il Dmsc ha negato ogni responsabilità nell’attacco di Minya. Il gruppo islamista ha inoltre definito gli attacchi aerei egiziani un diversivo per il regime di al-Sisi, una mossa utile a distogliere l’attenzione dalla crisi economica e dal deterioramento delle condizioni di sicurezza in Egitto.

Il giorno stesso, l’Isis ha invece rivendicato l’attentato terroristico di Minya. A differenza di altri casi, la rivendicazione sembrerebbe verosimile, in quanto già nei mesi scorsi i miliziani jihadisti della filiale egiziana del Califfato - meglio conosciuta come Wilayat al-Sinai e precedentemente nota come Ansar Beit al-Maqdis - si erano resi protagonisti di attacchi terroristici contro i copti in Egitto.

L’eventuale veridicità di tale rivendicazione basterebbe ad inficiare la tesi della pianificazione dell’attacco di Minya a Derna. Il Dmsc è noto per la sua forte avversione verso il gruppo guidato da Abu Bakr al-Baghdadi, a causa della rivalità all’interno della galassia jihadista tra al-Qaeda e il sedicente Stato Islamico: tra i gruppi che fanno parte del Dmscvi sono infatti diverse formazioni legate ad al-Qaeda. Nel giugno del 2015, la rivalità tra Dmsc e Isis si è trasformata in uno scontro aperto, terminato con l’allontanamento di quest’ultimo dalla città di Derna.

Ad aumentare i dubbi sulle reali motivazioni dell’offensiva egiziana contribuisce anche il fatto che da diversi mesi Derna è sottoposta all’assedio del Libyan National Army (Lna). Le forze del generale Khalifa Haftar hanno da tempo bloccato ogni accesso alla città ed effettuano sporadici attacchi aerei contro il Dmsc. Poco prima dell’offensiva egiziana, l’Lna aveva anche concesso un alleggerimento del blocco di Derna, consentendo l’ingresso in città di una serie di beni di prima necessità.

Le difficoltà dell’Lna
L’Lna fedele ad Haftar è il principale beneficiario dell’irruzione egiziana sullo scenario libico. Oltre a Derna, i raid aerei egiziani hanno infatti interessato la base aerea di Jufra, negli ultimi mesi teatro di scontri tra l’Lna e la Terza Forza, una milizia di Misurata inviata nel sud della Libia nel corso del 2014 per mantenere i delicati equilibri tra Tebu, Tuareg e Awlad Suleiman. La Terza Forza è supportata nella sua azione dalle Benghazi Defence Brigades (Bdb), milizia islamista protagonista dell’offensiva nel “crescente petrolifero” lo scorso aprile.

Sia la Terza Forza sia le Bdb hanno partecipato all’attacco a sorpresa alla base aerea di Brak al-Shati, non lontano da Sabha, del 18 maggio scorso: il blitz, secondo alcune fonti, avrebbe causato la morte di circa 184 combattenti della 12° Brigata dell’Lna e provocato le dimissioni del suo capo, il generale Mohamed Ben Nayel.

Oltre a sollevare le denunce di diverse Ong che hanno accusato le milizie di crimini di guerra e dell’esecuzione di almeno 30 prigionieri, il massacro di Brak al-Shati ha messo nuovamente a nudo le debolezze dell’Lna, incapace di difendere una base strategica nel sud della Libia e fortemente decimato dall’attacco a sorpresa.

Le reali motivazioni di al-Sisi
In tale dinamico e frammentato contesto, ecco quindi che gli attacchi aerei egiziani in Libia sono stati mossi da una serie di motivazioni forse più importanti della stessa lotta al terrorismo. L’offensiva del Cairo va innanzitutto a sostenere Haftar, la principale carta in mano al regime egiziano di al-Sisi in Libia.

Nonostante le dimostrazioni di forza (come la parata di 12.000 combattenti dell’Lna in occasione del terzo anniversario dell’Operazione Karama a Tocra, lo scorso 16 maggio), Haftar sembra sempre più in difficoltà. L’azione del Cairo va quindi a puntellare la sua posizione, confermando una vicinanza già dimostrata durante la recente visita a Bengasi del capo di Stato maggiore dell’esercito (e capo del Comitato nazionale egiziano sulla Libia) Mahmoud Hegazy.

I raid aerei egiziani rappresentano inoltre un chiaro messaggio ai partner/competitor regionali. Messo ai margini dalla mediazione degli Emirati Arabi Uniti, che hanno di fatto rilanciato il processo di pace in Libia organizzando l’incontro tra Haftar e il primo ministro del governo di accordo nazionale Fayez al-Sarrajad Abu Dhabi il 2 maggio scorso, il governo del Cairo ha reagito immediatamente.

Gli attacchi aerei ribadisconol’impossibilità di trovare una soluzione alla crisi libica senza tenere in considerazione gli interessi dell’Egitto. E l’irritazione con la quale Algeri ha accolto la notizia dei raid su Derna, elevando lo stato di allerta delle proprie forze aeree sul confine orientale - e convocando una riunione d’urgenza dei ministri degli Esteri di Algeria, Egitto e Tunisia - evidenzia altrettanto bene come sia impossibile comprendere la crisi libica senza collocarla adeguatamente nella sua dimensione regionale.

Umberto Profazio è dottore di ricerca in Storia delle Relazioni Internazionali presso l’Università di Roma “Sapienza”, ACD Analyst per l’International Institute for Strategic Studiese Maghreb Analyst per la NATO Defence College Foundation.

venerdì 19 maggio 2017

LIbia: ancora incertezze

Libia
Tutte le incognite dell’incontro tra Serraj e Haftar
Michela Mercuri
14/05/2017
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Si sono incontrati ad Abu Dhabi lo scorso 2 maggio, dove avrebbero discusso di alcune questioni importanti per il futuro della Libia: da una parte il generale Khalifa Haftar, capo dell’Esercito nazionale libico e uomo forte di Tobruk, dall’altra Fayez al-Serraj, premier del governo di accordo nazionale riconosciuto dall’Onu.

Dopo una serie di mediazioni fallite, spesso a causa dell’atteggiamento poco collaborativo del generale, questa volta gli sponsor di Haftar - Emirati Arabi Uniti, Egitto e Russia su tutti - sembrano aver ricondotto il figliol prodigo a più miti consigli. L’evento è stato accolto con un certo ottimismo dalle cancellerie internazionali, tuttavia è bene non farsi troppe illusioni: “l’intesa di massima” discussa nella capitale degli Emirati presenta molte criticità sia per l’assetto istituzionale che potrebbe generare sia in termini di concreta applicabilità.

Tobruk e il modello al-Sisi
Partiamo dal primo punto. Premesso che i dettagli sono ancora poco chiari, la proposta politica che sarebbe scaturita dall’incontro è decisamente sbilanciata verso Tobruk, il che non dovrebbe stupirci visto che è stata mediata dai suoi alleati.

In sintesi: elezioni entro marzo 2018, scioglimento delle milizie locali, formazione di un nuovo Consiglio presidenziale non più composto da nove membri ma da Serraj, Haftar e dal presidente del Parlamento di Tobruk Aghila Saleh, fedele al generale, e, forse, un comando delle Forze armate maggiormente svincolato dal controllo del governo civile, come invece imposto dagli accordi di Skhirat del 2015.

Detta in altri termini,il generale della Cirenaica in un colpo solo potrebbe avere l’istituzione più importante del Paese dalla sua parte, con Serraj in minoranza, un ruolo militare di primo piano e la possibilità di presentarsi alle elezioni, magari vincendole in assenza di una valida alternativa.

Le conseguenze di un tale scenario non sono difficili da prevedere: una deriva verso un modello militare sullo “stile al-Sisi”. Un’ipotesi destinata a rivitalizzare il fronte islamista e portare il Paese verso una deriva securitaria, così come accaduto in Egitto. A livello internazionale, la Russia, forte del paventato disimpegno americano in Libia, avrebbe “chiuso il cerchio”, con una rafforzata partnership tra Tripoli e il Cairo utile alla sua proiezione strategica nell’area.

Milizie e lotta al terrorismo
Se questo è il quadro teorico che emerge dalle frammentate informazioni trapelate sui media locali, all’atto pratico i punti del possibile accordo presentano non poche criticità in termini di fattibilità. In primo luogo, si è parlato della necessità di sciogliere i gruppi armati e di integrarli in un unico esercito sotto il controllo di Haftar.

Il tema del disarmo delle milizie è la spina nel fianco della Libia fin dal 2011 quando, dopo la morte di Gheddafi, i miliziani raccolti sotto il Consiglio nazionale di transizione si sono rifiutati di consegnare le armi e di integrarsi in un esercito regolare, alimentando tendenze centrifughe, impegnate a creare entità autonome basate su rivendicazioni territoriali o di risorse. Difficile credere che possano decidere, senza colpo ferire, di cedere le armi. L’ipotesi più plausibile è quella di una recrudescenza degli scontri tra diverse fazioni del territorio.

In secondo luogo, va considerato il possibile orientamento delle formazioni islamiste, soprattutto nella zona di Tripoli, controllata parzialmente e a fatica da Serraj. Giova fare un passo indietro. Haftar si è accreditato nel panorama libico post-rivolte nel 2014, lanciando l’operazione dignità contro le forze islamiste. Da allora si è auto-proclamato baluardo della lotta al terrorismo, legittimandosi in chiave anti-jihadista, senza alcun discrimine tra le forze moderate e i gruppi dichiaratamente radicali.

Un atteggiamento che gli è valso un palmarès di alleati e sponsor di primo piano da al-Sisi a Putin, ma anche molti detrattori sia a livello locale che regionale. È facile prevedere che, soprattutto in Tripolitania, diversi gruppi non accetteranno un ruolo di primo piano per il nemico giurato. Tra questi, le numerose milizie di Misurata, una sorta di “terzo potere” in Libia, fin qui parzialmente fedeli al premier di Tripoli ma che mal digerirebbero un suo possibile cedimento. Alcuni gruppi misuratini hanno già abbandonato Serraj e altri ancora potrebbero farlo, rendendo così ancora più isolato il premier del governo di accordo nazionale.

Difficile credere che il debole premier tripolino, davanti a un tale scenario, possa acconsentire alle richieste dei mediatori di Abu Dhabi.I problemi non mancherebbero neppure a livello regionale:Turchia e Qatar, che sostengono da sempre gli islamisti di Tripoli,non resteranno in silenzio davanti alla deriva del Paese verso gli avversari regionali.

Ribilanciare la mediazione con Tripoli
Il quadro sembra davvero a tinte fosche e la stabilità della Libia ancora lontana. Forse, per evitare un nuovo ginepraio, sarebbe utile riprendere in mano gli strumenti della diplomazia e ribilanciare i termini della mediazione, oggi completamente appannaggio degli sponsor di Tobruk.

Un maggior coinvolgimento - e una maggiore convinzione - di alcuni attori regionali, come Algeria e Tunisia, potrebbe essere un buon inizio. Tuttavia, senza un’azione più incisiva e coesa degli Stati europei, al momento più interessati alla realpolitik che all’agire comune, poco potrà essere fatto. In un contesto così delineato, l’Italia, fin qui vicina a Tripoli, potrebbe ancora aspirare a un ruolo di mediatore per la stabilizzazione della Libia.

Michela Mercuri insegna Storia contemporanea dei paesi mediterranei all’Università di Macerata ed è editorialista per alcune testate nazionali, tra cui Huffington post, sui temi della storia e della geopolitica del Medio Oriente e del Nord Africa.

mercoledì 10 maggio 2017

Algeri: elezioni da interpretare

Elezioni politiche
Algeria: sistema stabile, ma fiducia in calo
Andrea Dessì, Fabiana Luca
08/05/2017
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In un contesto di affluenza alle urne costantemente bassa e in calo rispetto al 2012, le elezioni legislative del 4 maggio in Algeria hanno riconfermato il Fronte di Liberazione nazionale (Fln) primo partito del Paese, con 164 seggi su 262.

Il voto si è svolto in un contesto di generale apatia popolare, che dimostra un crescente disinteresse dell’opinione pubblica e un calo di fiducia complessivo nella classe politica in Algeria. L’affluenza appena del 38% evidenzia ampiamente questo dato, nonostante il governo abbia cercato in tutte le maniere di procurarsi un’ampia partecipazione popolare (le autorità hanno esortato gli Imam delle moschee a invitare i fedeli delle loro comunità a recarsi alle urne).

L’affluenza è stata di poco superiore a quella delle elezioni del 2007 (35%), ma molto inferiore a quella del 2012 (43%). Allora però le elezioni si svolgevano nella scia delle cosiddette Rivolte arabe: il tasso di partecipazione popolare relativamente elevato alle elezioni legislative del 2012 si può spiegare in questo contesto.

Sfiducia verso i partiti e il Parlamento
Tutto ciò indica come la percezione generale algerina sia di sfiducia verso il Parlamento, che in effetti non ha molto peso nelle decisioni del governo. È il presidente, insieme alle forze di sicurezza e militari, che detta le linee guida del Paese, mentre il Parlamento, dominato da alleanze di partiti filo-governativi, si limita a dare il proprio consenso a queste politiche. Per queste ragioni, nessuno si aspettava una partecipazione popolare significativa a queste elezioni; e infatti il tasso di partecipazione è tornato a quello che era prima delle Rivolte arabe.

Quanto allo spostamento di voti che si è registrato tra l’Fln (220 seggi su 462 nel 2012 contro i 164 di ieri) e il Raduno nazionale per la Democrazia (68 nel 2012, 97 nel 2017), questo dato può essere interpretato come un ulteriore segnale di distacco popolare dal partito che ha guidato l’Algeria quasi interrottamente dall’indipendenza del 1962 ad oggi.

Successore di Bouteflika cercasi
Sebbene l’Fnl rimanga ancora il principale partito in Algeria, queste elezioni fanno emergere la grave crisi d’identità e fiducia che sta attraversando il partito sotto la guida del presidente Bouteflika, al potere dal 1999. I problemi di salute del presidente sono ben noti e vi sono scontri di potere nel partito per farne emergere un successore. Lo spostamento di voti è anche un segnale politico che chiede un urgente ricambio generazionale nel partito e più chiarezza sulle linee guida che ne formano il programma.

Il voto ha inoltre registrato un lieve aumento dei consensi per i partiti di matrice islamista, usciti sconfitti dalle elezioni del 2012, quando sull’onda delle Rivolte arabe in molti se ne aspettavano, invece, dei risultati migliori in Algeria.

Il ruolo dei partiti islamici
Ma la situazione politica in Algeria è ben diversa da quella dell’Egitto o della Tunisia. In Algeria vige un sistema multi-partitico dal 1989. E dunque le élite politiche del Paese hanno una ottima esperienza di giochi e strategie politiche voltr a frammentare e a cooptare possibili movimenti di protesta e/o di opposizione politica. Il principale partito di stampo islamista ad avere raccolto buoni risultati nelle elezioni del 4 maggio è il Movimento della Società per la Pace (Msp), partito affiliato alla Fratellanza Musulmana, ma che in passato ha dato sostegno al governo del Fnl anche in Parlamento.

Per questo, i 33 seggi vinti dall’alleanza tra Msp e Fronte per il Cambiamento (Fc) non possono certo costituire una vera e propria opposizione politica in parlamento. Va comunque ricordato che l’alleanza vincente tra Fnl e Rnd hanno seggi a sufficienza per approvare leggi in Parlamento senza il sostegno di altri partiti.

Una difficile situazione socio-economica
Il calo del consenso e della fiducia popolare verso le istituzioni politiche va certamente analizzato anche alla luce di una situazione socio-economica interna al Paese molto problematica. Un algerino su tre è senza impiego e il governo ha dovuto annunciare una serie di riforme economiche e tagli ai sussidi che hanno di molto ampliato il disagio popolare.

L’economia algerina rimane completamente dipendente dalle esportazioni di idrocarburi e il crollo del prezzo del greggio - combinato alle crescenti minacce di sicurezza alle frontiere algerine - hanno di molto complicato l’outlook economico del Paese.

Nel 2016 l’Algeria ha registrato un deficit del 12% del Pil e il governo ha dovuto cancellare molti investimenti in grandi opere di alloggio e infrastruttura. In particolare, l’Algeria soffre di una carenza di alloggi per la popolazione, fonte di particolare proteste popolari. Anche i fondi di riserva stranieri derivati dalla vendita di idrocarburi sono diminuiti in maniera preoccupante, da 196 miliardi di dollari nel 2014 a 114 miliardi di dollari nel 2016.

Senza una riorganizzazione dell’economia e significative riforme istituzionali, il Paese rischia nuove ondate di proteste popolari, ma questa volta il governo non avrà a disposizione il denaro necessario per ‘comprare’ la pace come fece nel 2011 in seguito alle rivolte popolari in Tunisia, Egitto e Libia.

Andrea Dessì è Ricercatore nel Programma Mediterraneo e Medioriente, IAI; Fabiana Luca è stagista per la comunicazione dello IAI.

mercoledì 3 maggio 2017

Egitto: la visita del Papa

Egitto
Al-Sisi riceve il Papa in un Paese sotto attacco
Stefano Cabras
25/04/2017
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Il 28 e 29 aprile, poche settimane dopo l’incontro con Trump a Washington, il presidente egiziano al-Sisi si appresta a ricevere Papa Francesco. Nel mezzo, ci sono stati due terribili attacchi terroristici, che il 9 aprile hanno colpito la cattedrale copta di San Marco ad Alessandria e la chiesa di San Giorgio di Tanta.

I due attacchi da un lato confermano che la comunità cristiana in Egitto rimane uno dei principali bersagli della violenza jihadista e dall’altro minano le basi del patto ‘non scritto’ tra al-Sisi e i suoi alleati occidentali. L’ involuzione democratica del Paese nordafricano è infatti sinora avvenuta con il tacito benestare dell’Occidente, in cambio del ruolo di stabilizzazione che l’Egitto esercita nel quadrante mediorientale.

Il patto ‘non scritto’ con l’Occidente
Tale accordo è stato peraltro implicitamente confermato nel recente incontro tra al-Sisi e Trump, in cui l’ex generale ha incassato l’appoggio del magnate presidente. Tuttavia, gli attentati della domenica della Palme, che fanno seguito all’attacco alla Cattedrale di San Marco al Cairo del dicembre 2016, sono parte di un trend allarmante, che ha visto l’Egitto teatro di circa quaranta tra aggressioni ed attacchi a luoghi di culto cristiani a partire dal 2013, anno della deposizione dell’ex presidente Morsi.

Washington ed i suoi alleati, sinora disposti a chiudere un occhio sulle pratiche antidemocratiche del governo al-Sisi, potrebbero ritirare presto il loro appoggio incondizionato, soprattutto se la situazione interna del Paese dovesse ulteriormente deteriorarsi.

Le norme approvate dal governo egiziano sotto la comune etichetta di misure anti-terrorismo, impedendo di fatto il dialogo democratico nel Paese e riducendo drasticamente lo spazio riservato alle opposizioni e alle organizzazioni della società civile egiziana, hanno finito per esacerbare il settarismo che il presidente aveva promesso di combattere e che continua invece ad inquinare la società egiziana.

La repressione controproducente
La feroce repressione contro l’opposizione, specie quella di matrice islamista, sembra infatti avere fomentato la radicalizzazione del suo discorso politico. Il giro di vite operato ai danni della Fratellanza Musulmana, le incarcerazioni avvenute senza regolare processo e la violenta repressione delle manifestazioni di piazza hanno dato credito alla componente più giovane e spesso più estremista del movimento, ai danni della ‘vecchia guardia’, pacifista e non-violenta, i cui leader scampati al carcere sono ormai costretti all’esilio.

Gli islamici egiziani intravedono nelle tattiche repressive dell’ex generale una chiara strategia per escluderli dall’arena politica egiziana e temono soprattutto un pericoloso ritorno agli anni di Nasser, in cui i Fratelli Musulmani erano oggetto di sistematica persecuzione.

In una società così lacerata al suo interno, il sedicente Stato islamico, Isis, facendo leva sull’elemento religioso, ha gioco facile nel fomentare ulteriormente le divisioni interne, colpendo i cristiani per acquisire consensi nella comunità musulmana. I copti, che rappresentano il 10% di un Paese a stragrande maggioranza musulmana sunnita, sono stati da sempre sotto-rappresentati a livello istituzionale e hanno costantemente faticato a vedersi garantita la propria libertà di culto.

I riflessi sui copti e l’arrivo di Francesco
L’avvento al potere di un presidente che prometteva di garantire sicurezza e protezione ai cristiani d’Egitto era stato quindi accolto con favore dalla comunità copta. Tuttavia, i cristiani d’Egitto, che sin dall’estate 2013 sono stati additati come sostenitori di un regime oppressore e liberticida e sono stati oggetto di attacchi e rappresaglie, nutrono sempre più dubbi sulla capacità dell’ex generale di tutelarli.

La visita in Egitto di Papa Francesco, che avviene quindi in una fase particolarmente delicata per gli equilibri interni del paese nordafricano, ha un valore altamente simbolico. Essa serve infatti a sottolineare la vicinanza tra la Chiesa cattolica e quella ortodossa d’Egitto, nonché a portare il sostegno del pontefice in un momento così drammatico per la comunità copta e in generale per i cristiani in Medio Oriente.

Soprattutto, tale viaggio costituisce un ulteriore tassello di un delicato processo di riavvicinamento al mondo musulmano che vede il pontefice impegnato in un complesso dialogo interreligioso, dopo le tensioni che avevano segnato il pontificato di Benedetto XVI. I rapporti si erano infatti quasi interrotti quando il precedente pontefice, dopo l’attentato alla comunità copta di Alessandria nella notte di capodanno del 2011, aveva denunciato il “vile gesto di morte” e aveva esortato i governi della regione ad adottare misure efficaci per la protezione delle minoranze religiose.

L’uomo giusto su cui puntare?
Interpretando tali dichiarazioni come un’ingerenza non richiesta, il Cairo aveva allora ritirato l’ambasciatore presso la Santa Sede e l’Università sunnita di Al-Azhar del Cairo, uno dei più autorevoli centri d’insegnamento religioso dell’islam sunnita, aveva sospeso il dialogo con la Santa Sede.

Proprio l’incontro tra l’Imam di Al-Azhar, Ahmad al-Tayyb, e il Vescovo di Roma nel maggio 2016 ha rappresentato una svolta storica per un dialogo rinnovato con il mondo islamico sotto il pontificato di Francesco ed è stato l’occasione per ribadire il comune impegno per la pace ed il rifiuto di ogni forma di violenza e terrorismo. Tale incontro, peraltro, dovrebbe replicarsi in occasione della visita di Francesco in Egitto, in un momento ancor più delicato.

Bergoglio, che vola al Cairo per riaprire un dialogo tra le due grandi religioni monoteiste, si troverà quindi a dialogare con al-Sisi che aveva promesso di farsi campione di un Islam moderato in contrapposizione alla visione distorta e sanguinaria promossa dall’Isis, ma le cui politiche repressive sono state sinora incapaci di fermare l’onda di attacchi che sta sfaldando il paese. Sullo sfondo, alla luce dei fatti del 9 aprile, occorre capire se Trump, e con lui l’Occidente filo-americano, ritengano ancora l’ex generale egiziano l’uomo giusto su cui puntare.

Stefano Cabras, Laureato in Scienze Economiche presso l'Università di Roma Tor Vergata, concluderà in ottobre il Master in European and International Studies all'Università di Trento. Attualmente stagiare presso La Rappresentanza Permanente d'Italia presso l'Ue. .