Gli sviluppi in Libia indicano un forte acuirsi della tensione e la possibilità che questa sfoci in un nuovo conflitto civile. Alla base di questa tendenza ci sono potenti influenze regionali e internazionali che appoggiano il generale Haftar, rafforzano le correnti intransigenti e indeboliscono i moderati. Perciò, le possibilità che questi ultimi possano risolvere la crisi sul piano politico secondo gli auspici della comunità internazionale sembrano marcatamente affievolirsi.
Dalla diplomazia internazionale a quella regionale Con l’Accordo di Skhirat la diplomazia internazionale lanciò nel dicembre 2015 il Consiglio presidenziale (Cp), presieduto da Fayez Serraj, con l’aspettativa che esso agglomerasse le forze in presenza e aprisse la strada a una piena normalizzazione politico-costituzionale. Questo tentativo non è riuscito.
Numerose forze in Libia hanno indicato la necessità di passare da un accordo calato sul Paese dall’esterno ad uno, più “inclusivo”, “fra libici”. L’indicazione è stata ripresa dalla diplomazia internazionale, che ha in effetti cominciato a correggere l’impostazione di Skhirat. Entrata però la diplomazia internazionale in Libia in una fase di recesso - per vari motivi, molti dei quali non riguardanti la Libia -, l’iniziativa è ora nelle mani di quella regionale: Algeria, Tunisia ed Egitto.
Il nuovo percorso comporta un compromesso al vertice fra il Cp di Serrraj e Haftar che sarebbe poi definito nei dettagli dal lavoro congiunto della Camera dei Deputati di Tobruk e del Consiglio di Stato di Tripoli. Le due istituzioni, sia pure con difficoltà, specialmente a Tobruk, hanno negli ultimi mesi designato le due commissioni destinate alla bisogna, che però non possono iniziare a lavorare perché manca l’accordo al vertice. Cercato di nuovo ad Abu Dhabi il 2 maggio con l’incontro Serraj-Haftar, l’accordo non è infatti emerso.
Il processo “fra libici” è un’illusione In realtà, nelle condizioni prevalenti, il processo “fra libici” non è solo vittima di cattiva volontà ma è un’illusione. Per essere realizzato deve comprendere Haftar, ma quest’ultimo vi prenderà parte solo se vengono esclusi gli islamisti, tutti gli islamisti (cioè solo se lui avrà nel governo un ruolo di supremazia politica oltre che militare).
D’altra parte, i rivoluzionari, di cui gli islamisti sono magna pars, alla sola idea che Haftar entri a far parte del processo preferiscono continuare la lotta armata contro di lui e i suoi alleati. Questo paralizza i moderati e crea uno stallo esattamente come gli Accordi di Skhirat.
Perciò, il compito del terzetto regionale che sta cercando una soluzione politica alla crisi libica non è davvero facile. Intanto perché gli obiettivi dei tre governi non sono omogenei: è vero che l’Egitto persegue una soluzione di compromesso, ma lo fa con l’intento di far pesantemente pendere il compromesso dalla parte di Haftar.
Nei giorni passati, l’Algeria si è mossa ai massimi livelli verso il Cairo per sottolineare che bombardare Derna (in risposta al massacro di copti effettuato a Minya da jihadisti provenienti dalla Libia) non serve a risolvere le questioni di sicurezza dell’Egitto.
L’incombente saldatura degli intransigenti Ma anche se il terzetto riuscisse ad assicurare un compromesso, riducendo le ambizioni del Cairo, degli arabi conservatori del Ccg (e, forse, della Russia), l’emergere di un governo moderato di coalizione comprendente Haftar e altre personalità a torto o a ragione percepite come parte del passato regime determinerebbe ugualmente la reazione violenta del fronte di intransigenti, che include non solo Khalifa Ghwell e Nouri Busahmein, ma anche una parte, non facilmente delimitabile, delle milizie rivoluzionarie di Misurata nonché la variegata gamma di milizie più marcatamente islamiste che oggi combattono nelle zone centro-meridionali della Libia contro l’Esercito Nazionale Libico (Enl) di Haftar. Fra queste forze ci sono dissensi, ma la realizzazione di un compromesso con Haftar le salderebbe immediatamente.
Del resto che questa saldatura sia incombente si capisce dagli sviluppi fra Sebha, Giufra e Sirte che vanno avanti dal dicembre dell’anno scorso. Sin dall’inizio è stato chiaro che la coalizione che allora attaccò le forze dell’Eln nella “mezzaluna petrolifera” a sud di Sirte, sotto la guida delle Brigate di Difesa di Bengasi (Bdb), era una coalizione di rivoluzionari, ossia di islamisti e non, radicali e meno radicali, uniti dalla convinzione di dovere ad ogni costo impedire un ritorno delle forze del passato, a cominciare da Haftar.
In questo contesto, il piccolo esercito che iniziava una sua “lunga marcia” dal sud del Paese per arrivare a Sirte e Bengasi risultava appoggiato niente di meno che dal ministro della Difesa del Cp, al-Mahdi al-Barghati (in contraddizione con la politica di compromesso perseguita dallo stesso Cp).
Tra scontri militari e difficile diplomazia Da allora la complicità con le Bdb all’interno del Cp ha continuato ad emergere in vari episodi finché il 18 maggio uno scontro fra Enl e forze rivoluzionarie a Brak al-Shati (1) (60 km. a nord di Sebha) non ha messo capo a un vero e proprio massacro degli uomini di Haftar, presi di sorpresa, ma non solo da parte delle Bdb bensì anche della Terza Forza di Misurata che, stanziata nella regione sin dal 2014, è ora alle dirette dipendenze di Barghati e quindi del Governo di Accordo Nazionale.
Serraj il giorno dopo ha sospeso dalle sue funzioni sia Barghati sia il comandante della Terza Forza, Jamal al-Traiki, in attesa di procedere ad accertamenti, ma ammesso che tali accertamenti siano mai compiuti lo sviluppo conferma quanto era già evidente a dicembre del 2016 e cioè - per riprendere le parole dell’International Crisis Group(2) - che “c’è una frammentazione nella coalizione che sostiene il Consiglio di Presidenza”: se il Cp si muove per sanare la spaccatura fra Tripoli e Tobruk, il risultato è che si spacca.
Il ruolo di Usa ed Europa La diplomazia è dunque confrontata da una coriacea realtà che, dopo il fallimento degli Accordi di Skhirat, mette ora in dubbio anche la praticabilità di una loro modifica attraverso il dialogo “fra libici”. Ma la strada è in salita anche perché il riconsolidamento dell’alleanza fra gli Usa e gli Stati conservatori del Ccg in chiave di “anti-terrorismo” rafforza il fronte regionale che sostiene Haftar, quindi affievolisce le possibilità di compromesso, mina alla base il dialogo “fra libici”, conferma il fronte rivoluzionario nelle sue ragioni e lo allarga.
Gli interessi dell’Europa sono molto danneggiati da questa prospettiva. Ci sarà una risposta europea? Subito dopo la sua elezione, ci sono state dichiarazioni di Emmanuel Macron(3) che denotano una netta presa di responsabilità francese verso la Libia, ma ancora non ne definiscono i termini, soprattutto nella loro dimensione europea. Per sapere se l’Europa risponderà all’aggravarsi della crisi libica bisognerà aspettare almeno le elezioni tedesche. Speriamo che non sia troppo tardi.
(1) http://www.reuters.com/article/us-libya-security-toll-idUSKCN18F2KA, http://www.reuters.com/article/us-libya-security-idUSKBN18H0YK (2) https://www.crisisgroup.org/middle-east-north-africa/north-africa/libya/oil-zone-fighting-threatens-libya-economic-collapse. (3) http://www.reuters.com/article/us-france-libya-idUSKCN18E2UU.
Roberto Aliboni è consigliere scientifico dello IAI.
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