.

Cerca nel blog

Per la traduzione in una lingua diversa dall'Italiano.For translation into a language other than.

Il presente blog è scritto in Italiano, lingua base. Chi desiderasse tradurre in un altra lingua, può avvalersi della opportunità della funzione di "Traduzione", che è riporta nella pagina in fondo al presente blog.

This blog is written in Italian, a language base. Those who wish to translate into another language, may use the opportunity of the function of "Translation", which is reported in the pages.


Powered By Blogger

Metodo di Ricerca ed analisi adottato


Il medoto di ricerca ed analisi adottato è riportato suwww.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com

Vds. post in data 30 dicembre 2009 seguento il percorso:
Nota 1 - L'approccio concettuale alla ricerca. Il metodo adottato
Nota 2 - La parametrazione delle Capacità dello Stato
Nota 3 - Il Rapporto tra i fattori di squilibrio e le capacità delloStato
Nota 4 - Il Metodo di calcolo adottato

Per gli altri continenti si rifà riferimento al medesimo blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com per la spiegazione del metodo di ricerca.

mercoledì 28 giugno 2017

Verso una stragegia efficace

Il G20 e l’Africa
Migranti: Angela l'Africana è una risposta
Giuseppe Cucchi
20/06/2017
 più piccolopiù grande
Angela Merkel, detta anche ‘l'Africana’? Se la risposta al quesito potesse essere positiva, si tratterebbe di un’ottima notizia che consentirebbe all'Unione europea di affrontare con efficacia il problema più grande che noi abbiamo al giorno d'oggi, un problema che tra l'altro appare destinato ad accompagnare anche i nostri figli ed i nostri nipoti investendo l'arco di almeno tre generazioni, quello dei migranti che in un flusso ininterrotto sbarcano sui nostri lidi provenendo dall’Africa nera.

Si tratta di un problema che, al di là di tutte le speranze degli altri Stati membri dell’Ue che hanno chiuso la rotta balcanica pagando il ricatto turco e hanno sospeso Schengen, sperando in tal modo di confinare i nuovi arrivati dalla nostra parte delle Alpi, rimane un problema comune a tutti i Paesi dell'Unione.

Un flusso in crescita e un problema che s’aggrava
Il flusso dei migranti è infatti un flusso, come quello dell'acqua, e dei flussi ha tutte le caratteristiche. Ci si può quindi illudere di arrestarlo, magari costruendo muri e barriere che non si capisce mai bene se siano strumento di interdizione diretto verso l'esterno o strumento di ricerca di consenso elettorale rivolto verso l'interno, ma il flusso non si arresterà mai. Magari rallenterà per un attimo, ma poi troverà sempre il modo per riprendere a filtrare.

Inoltre, se si guardano le statistiche dell'ultimo decennio, ci si accorge di come si tratti di un flusso in continua crescita, e per di più una crescita che avviene con un ritmo che lo porta ad aumentare quasi esponenzialmente. Se poi si tenta una proiezione e un confronto fra quello che avverrà in Europa e in Africa nei prossimi decenni, valutando il tutto alla luce del previsto sviluppo economico del Continente Nero, si vede come, a meno di cambiamenti radicali, il problema sia destinato ad aggravarsi e non certo a scemare con il trascorrere del tempo.

È proprio questa sua straordinaria dimensione che lo rende tanto terrorizzante da fare divenire difficile, se non impossibile, reperire il coraggio di affrontarlo con metodo e raziocinio. Come spesso succede nelle cose umane in situazioni del genere ci rifugiamo quindi nel sentimento, rifiutando di ascoltare la ragione.

I buonisti e i miopi, tra sentimento e ragione
È quanto fanno tutti coloro che si schierano per la incondizionata accoglienza dei migranti, rifiutandosi di vedere come accoglienza senza inserimento significhi consegnarli in blocco nelle mani dei caporali dell'agricoltura, dei racket della contraffazione dei marchi, dei gestori delle reti di distribuzione della droga o di quelle della prostituzione, nonché nell'isolamento dei ghetti mono-razzialio di baraccopoli di periferie degradate.

Oppure ci diamo buona coscienza affrontando il problema dell'oggi e vivendolo giorno dopo giorno per non vedere il ben più grande problema di domani. È l'ottica che domina tutte le azioni navali di soccorso in atto nel Mediterraneo, con presenze che hanno probabilmente salvato migliaia di vite umane ma che nel contempo hanno indubbiamente fatto crescere il flusso, lasciando nel contempo indisturbati o addirittura favorendo come effetto collaterale i trafficanti che su tale traffico speculano.

E ciò grazie anche all'infinita serie di auto limitazioni che ci imponiamo o per incapacità a raggiungere un accordo collettivo o per un continuo rifiuto di ricorrere alla forza giusta anche dove l'uso della forza giusta risulterebbe indispensabile.

Siamo insomma prigionieri del cosiddetto "problem solving avoidance mechanism”, cioè del riflesso che, davanti ad un problema apparentemente insolubile, o per lo meno difficilissimo da affrontare, ci spinge a crearci problemi minori più facilmente gestibili che ci tengano talmente occupati da impedirci di alzare la testa e di vedere l'interrogativo macroscopico.

Migliorare la sicurezza e combattere la povertà
Da qualche tempo in ogni caso si è cominciato a parlare di un altro modo di affrontare il flusso dei migranti, vale a dire combattendo all'origine le due piaghe che lo innescano, cioè da un lato la mancanza di sicurezza di Paesi travagliati da terrorismo, rivolte e guerre, e dall'altro l'estrema povertà accompagnata dalla totale assenza di prospettive per il futuro.

Bisognerebbe quindi evitare che gli africani fossero ridotti in quelle condizioni in cui, come disse un tempo un direttore generale della Fao, hai soltanto tre soluzioni: "o ti ribelli , o muori oppure emigri!".

Un primo tentativo di porre in opera a Bruxelles un "migration compact" si è risolto in ben poco di fatto, ma se non altro ha avuto il merito di richiamare l'attenzione di tutti gli stati membri dell'Ue sul problema , evidenziando tra l'altro come le sue dimensioni siano tali da richiedere uno sforzo collettivo della intera Unione, magari allargata a tutti gli altri Stati ad economia avanzata che riterranno opportuno partecipare.

Dal “migration compact” Ue al piano tedesco del G20
Un concetto che certo non inficia la validità delle iniziative individuali di Paesi che cercano sin da ora di fare qualcosa alla loro portata. È il caso dell'Italia con il cosiddetto ‘Piano Minniti’, che però appare molto più centrato sul settore del ripristino della sicurezza nelle aree più travagliate che su quello dello sviluppo economico.

In prospettiva ciò che appare più promettente è ora il piano di intervento che la Merkel sembrerebbe intenzionata a proporre al G20 nel corso della prossima riunione del Gruppo che verrà gestita dai tedeschi a luglio, ad Amburgo. Sono già in corso riunioni preparatorie con la partecipazione anche dei presidenti di parecchi Paesi africani, compreso quello della Guinea che è anche presidente dell'Unione africana.

Si può quindi se non altro sperare in una possibile evoluzione favorevole della situazione e perché l'iniziativa tedesca sembra destinata a coinvolgere tutte le parti interessate e perché il peso della leadership di Berlino dovrebbe risultare sufficiente a smuovere anche i riluttanti che sino ad ora si sono trincerati dietro i loro muri, metaforici o meno che essi siano.

Angela l'Africana, dunque? Auguriamocelo sinceramente!

Giuseppe Cucchi, Generale, è stato Rappresentante militare permanente presso la Nato e l’Ue e Consigliere militare del Presidente del Consiglio dei Ministri.

domenica 18 giugno 2017

Libia: la confusione continua

Verso nuove tensioni
La Libia: sogni infranti e tempo perso
Roberto Aliboni
10/06/2017
 più piccolopiù grande
Gli sviluppi in Libia indicano un forte acuirsi della tensione e la possibilità che questa sfoci in un nuovo conflitto civile. Alla base di questa tendenza ci sono potenti influenze regionali e internazionali che appoggiano il generale Haftar, rafforzano le correnti intransigenti e indeboliscono i moderati. Perciò, le possibilità che questi ultimi possano risolvere la crisi sul piano politico secondo gli auspici della comunità internazionale sembrano marcatamente affievolirsi.

Dalla diplomazia internazionale a quella regionale
Con l’Accordo di Skhirat la diplomazia internazionale lanciò nel dicembre 2015 il Consiglio presidenziale (Cp), presieduto da Fayez Serraj, con l’aspettativa che esso agglomerasse le forze in presenza e aprisse la strada a una piena normalizzazione politico-costituzionale. Questo tentativo non è riuscito.

Numerose forze in Libia hanno indicato la necessità di passare da un accordo calato sul Paese dall’esterno ad uno, più “inclusivo”, “fra libici”. L’indicazione è stata ripresa dalla diplomazia internazionale, che ha in effetti cominciato a correggere l’impostazione di Skhirat. Entrata però la diplomazia internazionale in Libia in una fase di recesso - per vari motivi, molti dei quali non riguardanti la Libia -, l’iniziativa è ora nelle mani di quella regionale: Algeria, Tunisia ed Egitto.

Il nuovo percorso comporta un compromesso al vertice fra il Cp di Serrraj e Haftar che sarebbe poi definito nei dettagli dal lavoro congiunto della Camera dei Deputati di Tobruk e del Consiglio di Stato di Tripoli. Le due istituzioni, sia pure con difficoltà, specialmente a Tobruk, hanno negli ultimi mesi designato le due commissioni destinate alla bisogna, che però non possono iniziare a lavorare perché manca l’accordo al vertice. Cercato di nuovo ad Abu Dhabi il 2 maggio con l’incontro Serraj-Haftar, l’accordo non è infatti emerso.

Il processo “fra libici” è un’illusione
In realtà, nelle condizioni prevalenti, il processo “fra libici” non è solo vittima di cattiva volontà ma è un’illusione. Per essere realizzato deve comprendere Haftar, ma quest’ultimo vi prenderà parte solo se vengono esclusi gli islamisti, tutti gli islamisti (cioè solo se lui avrà nel governo un ruolo di supremazia politica oltre che militare).

D’altra parte, i rivoluzionari, di cui gli islamisti sono magna pars, alla sola idea che Haftar entri a far parte del processo preferiscono continuare la lotta armata contro di lui e i suoi alleati. Questo paralizza i moderati e crea uno stallo esattamente come gli Accordi di Skhirat.

Perciò, il compito del terzetto regionale che sta cercando una soluzione politica alla crisi libica non è davvero facile. Intanto perché gli obiettivi dei tre governi non sono omogenei: è vero che l’Egitto persegue una soluzione di compromesso, ma lo fa con l’intento di far pesantemente pendere il compromesso dalla parte di Haftar.

Nei giorni passati, l’Algeria si è mossa ai massimi livelli verso il Cairo per sottolineare che bombardare Derna (in risposta al massacro di copti effettuato a Minya da jihadisti provenienti dalla Libia) non serve a risolvere le questioni di sicurezza dell’Egitto.

L’incombente saldatura degli intransigenti
Ma anche se il terzetto riuscisse ad assicurare un compromesso, riducendo le ambizioni del Cairo, degli arabi conservatori del Ccg (e, forse, della Russia), l’emergere di un governo moderato di coalizione comprendente Haftar e altre personalità a torto o a ragione percepite come parte del passato regime determinerebbe ugualmente la reazione violenta del fronte di intransigenti, che include non solo Khalifa Ghwell e Nouri Busahmein, ma anche una parte, non facilmente delimitabile, delle milizie rivoluzionarie di Misurata nonché la variegata gamma di milizie più marcatamente islamiste che oggi combattono nelle zone centro-meridionali della Libia contro l’Esercito Nazionale Libico (Enl) di Haftar. Fra queste forze ci sono dissensi, ma la realizzazione di un compromesso con Haftar le salderebbe immediatamente.

Del resto che questa saldatura sia incombente si capisce dagli sviluppi fra Sebha, Giufra e Sirte che vanno avanti dal dicembre dell’anno scorso. Sin dall’inizio è stato chiaro che la coalizione che allora attaccò le forze dell’Eln nella “mezzaluna petrolifera” a sud di Sirte, sotto la guida delle Brigate di Difesa di Bengasi (Bdb), era una coalizione di rivoluzionari, ossia di islamisti e non, radicali e meno radicali, uniti dalla convinzione di dovere ad ogni costo impedire un ritorno delle forze del passato, a cominciare da Haftar.

In questo contesto, il piccolo esercito che iniziava una sua “lunga marcia” dal sud del Paese per arrivare a Sirte e Bengasi risultava appoggiato niente di meno che dal ministro della Difesa del Cp, al-Mahdi al-Barghati (in contraddizione con la politica di compromesso perseguita dallo stesso Cp).

Tra scontri militari e difficile diplomazia
Da allora la complicità con le Bdb all’interno del Cp ha continuato ad emergere in vari episodi finché il 18 maggio uno scontro fra Enl e forze rivoluzionarie a Brak al-Shati (1) (60 km. a nord di Sebha) non ha messo capo a un vero e proprio massacro degli uomini di Haftar, presi di sorpresa, ma non solo da parte delle Bdb bensì anche della Terza Forza di Misurata che, stanziata nella regione sin dal 2014, è ora alle dirette dipendenze di Barghati e quindi del Governo di Accordo Nazionale.

Serraj il giorno dopo ha sospeso dalle sue funzioni sia Barghati sia il comandante della Terza Forza, Jamal al-Traiki, in attesa di procedere ad accertamenti, ma ammesso che tali accertamenti siano mai compiuti lo sviluppo conferma quanto era già evidente a dicembre del 2016 e cioè - per riprendere le parole dell’International Crisis Group(2) - che “c’è una frammentazione nella coalizione che sostiene il Consiglio di Presidenza”: se il Cp si muove per sanare la spaccatura fra Tripoli e Tobruk, il risultato è che si spacca.

Il ruolo di Usa ed Europa
La diplomazia è dunque confrontata da una coriacea realtà che, dopo il fallimento degli Accordi di Skhirat, mette ora in dubbio anche la praticabilità di una loro modifica attraverso il dialogo “fra libici”. Ma la strada è in salita anche perché il riconsolidamento dell’alleanza fra gli Usa e gli Stati conservatori del Ccg in chiave di “anti-terrorismo” rafforza il fronte regionale che sostiene Haftar, quindi affievolisce le possibilità di compromesso, mina alla base il dialogo “fra libici”, conferma il fronte rivoluzionario nelle sue ragioni e lo allarga.

Gli interessi dell’Europa sono molto danneggiati da questa prospettiva. Ci sarà una risposta europea? Subito dopo la sua elezione, ci sono state dichiarazioni di Emmanuel Macron(3) che denotano una netta presa di responsabilità francese verso la Libia, ma ancora non ne definiscono i termini, soprattutto nella loro dimensione europea. Per sapere se l’Europa risponderà all’aggravarsi della crisi libica bisognerà aspettare almeno le elezioni tedesche. Speriamo che non sia troppo tardi.

(1) http://www.reuters.com/article/us-libya-security-toll-idUSKCN18F2KA, http://www.reuters.com/article/us-libya-security-idUSKBN18H0YK
(2) https://www.crisisgroup.org/middle-east-north-africa/north-africa/libya/oil-zone-fighting-threatens-libya-economic-collapse.
(3) http://www.reuters.com/article/us-france-libya-idUSKCN18E2UU.


Roberto Aliboni è consigliere scientifico dello IAI.

Nuove primavere arabe?

Corruzione e disoccupazione
Marocco: le nuove proteste nel Rif
Emanuele Bobbio
07/06/2017
 più piccolopiù grande
A metà maggio sono esplose in Marocco nuove proteste nella città di Al-Hoceima, centro importante del Rif, per denunciare gli alti livelli di corruzione e di disoccupazione, due dati endemici nel Paese, ma che si impennano nelle regioni lontane da Rabat.

Le manifestazioni sono avvenute a sette mesi dalle sommosse seguite alla morte di Mouhcine Fikri, il pescatore che rimase schiacciato da un camion nel tentativo di recuperare la sua merce sequestrata dalle autorità.

La folla si è mobilitata con forza nelle strade delle città del Nord e la polizia ha inasprito le misure di sicurezza, già particolarmente dure dopo gli eventi di novembre. Il leader delle proteste è Nasser Zefzafi, guida del movimento Hirak, che rappresenta l’opposizione nel Rif.

I media governativi hanno accusato il leader e la popolazione locale di minacciare l’integrità dello Stato, sostenendo che Zefzafi è un leader separatista pagato da potenze straniere per minare la stabilità. Nel contempo, il governo ha riconosciuto le problematiche che la regione vive e si è proposto di lanciare un serio piano di sviluppo economico.

La regione del Ruif
Il Rifè sempre stata una regione ribelle, innanzitutto per l’alta presenza di berberi. A questo dato di carattere identitario si deve aggiungere che è una delle aree meno sviluppate del Paese: ciò ha sempre segnato gli sviluppi della società locale e il suo rapporto con il governo centrale.

In questa zona del Paese negli Anni 20, al momento dell’indipendenza dalla Spagna, la popolazione aveva creato una repubblica indipendente, usando come simbolo la bandiera berbera, con a capo Abdelkrim al-Khattabi, che tutt’ora è considerato un eroe locale. La repubblica fu riconquistata dalle truppe della monarchia marocchina in pochi mesi, ma i ‘lealisti’ furono costretti a sedare nuovamente una rivolta nel 1956 quando la popolazione si ribellò per le condizioni di vita proibitive.

In quel frangente fu imposta la legge marziale, la rivolta fu sedata nel sangue e l’allora monarca Hassan II arrivò a definire gli abitanti dei selvaggi, paragonandoli a delle bestie. Per molto tempo la legge marziale non venne abrogata.

La Hogra e la disoccupazione
La situazione nella regione è rimasta nel tempo molto dura e nel 2011 quando iniziò la primavera araba in Marocco, fu una delle zone più attive nelle manifestazioni e anche il luogo in cui si registrarono gli unici scontri. Il monarca Muhammad II, con una posizione diplomatica, è riuscito a calmare le rivolte garantendo dei diritti culturali alla popolazione berbera e aprendo un processo per garantire alla zona maggiore autonomia. La situazione politica era sembrata migliorare fino quando a novembre l’uccisione di MouhcineFikri ha fatto riesplodere le problematiche.

Al centro delle proteste di novembre e di metà maggio ci sono due temi fondamentali.Il primo è indicato dalla parola araba “hogra", che indica la perdita di dignità profonda di un individuo. Questo concetto, spesso ripetuto negli slogan delle proteste, definisce la condizione di vita della popolazione locale.

Lo Stato centrale è considerato il responsabile di questa situazione: infatti, la totale assenza dello Stato permette ai governatori e alla polizia locale di diventare i padroni incontrollati di quelle zone, trasformando la corruzione nella regola economica della regione. Inoltre la decisione del governo centrale di aderire a regolamentazioni internazionali sulla pesca ha privato l’area di uno dei mezzi fondamentali per il proprio sostentamento.

Il secondo è la disoccupazione, in particolare giovanile. Il Marocco, come tutti i paesi del Nord Africa, è duramente colpito dalla crisi occupazionale che raggiunge picchi del 30%, ma nelle zone periferiche, come il Rif, il dato si impenna anche oltre.

Le soluzione del governo
Lo sviluppo economico, guidato dallo Stato, si è concentrato nelle regioni del centro, mentre il Sud sopravvive grazie al turismo. In questo quadro il Nord non riesce a trovare mezzi di sostentamento adeguati.

Questi due problemi sono adesso percepiti centrali da re Muhammad II che ha risposto in modo molto diverso alle proteste di questi giorni e ha aperto una commissione che valuti un piano di sviluppo economico per il Rif. La monarchia ha confermato la capacità di capire le profonde problematiche del Paese, non utilizzando solamente lo strumento coercitivo, ma promettendo e lavorando sul fronte economico, confermando le proposte che erano state portate avanti nel 2011.

Nonostante tutto questo processo, mancano in realtà veri risultati. Non sembra infatti che le misure prese nel campo dello sviluppo possano realmente riuscire a risolvere il problema a breve termine.

Emanuele Bobbio è laureato all’Università di Roma la Sapienza in Scienze politiche e Relazioni internazionali, collabora con diversi giornali universitari mentre porta a termine la magistrale in International Relations presso l’Alma Mater Studiorum di Bologna.