A dieci anni da quella rivoluzione che fece cadere l’oltre ventennale regime di Zine El-Abidine Ben Ali, l’ombra di un ritorno al recente passato incombe di nuovo sulla Tunisia mettendo a dura prova la sua sempre più fragile democrazia. Il congelamento delle attività parlamentari e la sospensione del governo messi in atto dal Presidente Kais Saied domenica 25 luglio hanno aperto le porte ad una crisi politica e istituzionale senza precedenti, che pesa su un contesto già profondamente complesso dal punto di vista economico e sociale. A trovarsi tra l’incudine e il martello sono in primis le istituzioni democratiche che si trovano ora svuotate dei propri poteriDa tempo i tunisini sono chiamati a scegliere tra efficienza delle istituzioni e fedeltà ai valori democratici che hanno guidato le Primavere Arabe. La rivoluzione del 2011 continua ad essere per tutti un fondamentale riferimento storico e politico al quale si riconosce il merito di aver ricostruito il rapporto tra Stato e popolazione, ma le fratture socio-economiche che continuano ad attraversare il Paese hanno svuotato le promesse degli ultimi dieci anni. In questo senso, le manifestazioni che domenica hanno chiesto a gran voce l’esautorazione del Parlamento sono il riflesso dei fallimenti della classe dirigente, non solo dell’ultima legislatura, ma dell’intera struttura venuta a crearsi dopo la rivoluzione.
A prescindere, tuttavia, dall’evidente affanno che ha caratterizzato la politica tunisina e che motiva oggi i sostenitori del Presidente, l’iniziativa presidenziale di domenica si presenta come l’ultimo passaggio di un percorso ben preciso, quello di Saied, costruito per stravolgere il sistema politico e destinato ad imprimere una svolta radicale alla transizione tunisina. L’ascesa di Saied, l’homo novus della politica tunisina che è riuscito a raccogliere consensi trasversali alle presidenziali del 2019, è infatti fondata sul malcontento generale nei confronti delle istituzioni e sulla promessa di un riassetto strutturale della macchina statale. La retorica dei suoi discorsi si è sempre sviluppata attorno al tradimento della rivoluzione da parte delle istituzioni, accusate di aver abbandonato il popolo e di aver permesso che la corruzione dilagasse: l’obiettivo ripetuto di Saied è stato quindi sin dall’inizio quello di invertire le gerarchie di potere per restituire la gestione del Paese alla rivoluzione “tradita” e al popolo, un progetto indebolito dal contesto che lo stesso perseguimento di questo obiettivo ha generato. Il voto che lo ha portato ai vertici della Repubblica gli ha infatti attribuito un ruolo di tutela di quelle stesse istituzioni che desidera ora neutralizzare o quanto meno riformare in profondità, creando così una spaccatura interna difficile da risanare. La tensione istituzionale ha quindi definito negli ultimi due anni la direzione politica tunisina che si è trovata, alla vigilia del cosiddetto colpo di Stato, divisa tra due fronti: da una parte la Presidenza del Parlamento e del governo rappresentate dall’islamista Rachid Ghannouchi e dall’outsider Hichem Mechichi, divenuti ideologicamente l’ultimo bastione a protezione delle istituzioni tunisine (e per certi versi identificati e percepiti nella retorica presidenziale come la vecchia politica da rinnovare); dall’altra Kais Saied, che ha tentato a più riprese di emanciparsi dalle aule parlamentari attraverso un processo di presidenzializzazione della politica tunisina. L’esasperazione politica generale di cui Saied si è fatto portavoce ha trasformato un conflitto sociale in uno scontro tutto interno alle istituzioni, portando al punto di rottura una situazione politica già strutturalmente fragile e sancendo la fine del compromesso politico che ha dominato la politica post-rivoluzionaria della Tunisia.
I segni premonitori di quello che si è concretizzato il 25 luglio non sono comunque mancati da quando Saied è entrato in carica e, in maniera specifica, negli ultimi mesi. Dopo le elezioni del 2019, durante le difficili consultazioni per la formazione del governo e una fase di continui rimpasti ministeriali, le ingerenze del Presidente della Repubblica sono state continue, tutte finalizzate alla creazione di un governo più vicino a Cartagine che al Bardo. Un caso esemplare dell’intromissione nei lavori dell’esecutivo e del Parlamento è stata l’imposizione di un Capo di Governo, lo stesso Mechichi, direttamente scelto dal Presidente dopo le dimissioni nel luglio 2020 di Elyes Fakhfakh. Ma a suscitare maggiori preoccupazioni tra le fila dei detrattori di Saied sono state le vicende che, tra aprile e maggio di quest’anno, hanno visto il Presidente calpestare, o tentare di far ciò, le prerogative delle istituzioni democratiche. Un episodio significativo è stato quello che nell’aprile scorso, in occasione del 65° anniversario delle Forze Armate, ha visto il Presidente ritornare in maniera assertiva sul tema cruciale del controllo delle forze di polizia, che la Costituzione tunisina attribuisce al Capo di Governo: Saied sostenne in quell’occasione che il comando supremo è in mano alla Presidenza della Repubblica, un’affermazione che ha rievocato pericolosamente lo stato di polizia pre-rivoluzionario. Ad alzare però il termometro della preoccupazione si è aggiunta, nel maggio scorso, la scoperta da parte del giornale online Middle East Eye di un documento indirizzato al Capo dello Staff di Saied in cui si invitava il Presidente a sciogliere il Parlamento e richiedere i pieni poteri.
Benché le premesse giustifichino il timore che le manifestazioni di piazza a sostegno della manovra di Saied siano espressione di una mera nostalgia della dittatura in vigore prima della rivoluzione, è importante anche ricordare che Saied, dal momento della sua elezione, ha dato prova di grandi capacità strategiche che gli hanno permesso di alimentare un preciso progetto politico gestendo e mantenendo sempre il sostegno popolare. Kais Saied ha saputo infatti sfruttare il preciso momento in cui si trova la Tunisia e le fratture interne al Paese per catalizzare il consenso, presentandosi – almeno ad una parte della popolazione – come il deus ex machina lontano dagli intrighi politici che condannano l’iniziativa riformista in una fase di profonda crisi. La crescente sfiducia nei confronti delle forze politiche al potere – in primis Ennahda, ormai percepito da una parte della popolazione come il partito personale di Ghannouchi – ha confermato agli occhi dell’elettorato la legittimità delle dure critiche alle istituzioni da parte di Saied. A ciò si somma inoltre il bilancio impietoso un decennio dopo la rivoluzione del 2011, che rivela una politica stagnante e fortemente corrotta. In questo quadro, la nuova ondata di Covid-19 a partire da giugno che ha messo in ginocchio il sistema sanitario tunisino e colpito il settore turistico, sul quale si era scommesso per la ripresa economica del Paese, combinata alla confusione creatasi attorno alla gestione dei vaccini (ad oggi solo un tunisino su sette è vaccinato) hanno rappresentato l’ultimo tassello che ha permesso a Saied di destituire, prima ideologicamente che concretamente, le istituzioni e le forze politiche. In questo senso, la manovra condotta domenica da Saied è da intendersi come il prodotto delle sue chiare e note ambizioni cesariste, nel tentativo di, appunto, invertire la gerarchia di potere e porsi automaticamente al vertice con il sostegno popolare.
La legittimità costituzionale o meno della manovra del Presidente Saied, che ha invocato l’articolo 80 della Costituzione come ha fatto ritualmente nel corso degli ultimi due anni, è ad oggi ancora ampliamente dibattuta. L’articolo 80 sancisce infatti che di fronte ad un’emergenza che minacci le istituzioni o la sicurezza del Paese, il Presidente della Repubblica può «adottare le misure rese necessarie dalla situazione eccezionale, sentiti il Capo di Governo e il Presidente dell’Assemblea dei Rappresentanti del Popolo e dopo aver informato il Presidente della Corte Costituzionale». Su questo articolo molti costituzionalisti tunisini stanno discutendo in questi giorni per stabilire la legittimità della manovra di Saied: da una parte, le critiche si articolano attorno ad una sostanziale mancanza delle condizioni necessarie per un’azione di questo genere, sottolineando come la crisi sanitaria e politica non possano essere considerate come minacce dirette alle istituzioni o alla sicurezza dello stato; dall’altra, l’iniziativa del Presidente viene giustificata, anche se con molta prudenza, come l’unica exit strategy percorribile per sbloccare la crisi profonda in cui versa il Paese e in virtù della quale è necessario un intervento deciso e mirato, un’azione impossibile, come è ormai chiaro, da parte del governo. Sul piano prettamente formale, pertanto, definire la manovra di Saied come un colpo di Stato risulta ancora prematuro.
Al di là però delle controversie riguardo alla validità dell’applicazione dell’articolo 80, a suscitare le maggiori preoccupazioni riguardo agli obiettivi dietro gli eventi del 25 luglio è stato il preciso calcolo con cui il Presidente ha sfruttato le zone d’ombra della Costituzione e i vuoti istituzionali che lui stesso ha contribuito a creare. L’organo che in questo momento sarebbe incaricato di verificare la legittimità dell’azione del Capo dello Stato sarebbe la Corte Costituzionale o, in sua assenza, il Presidente del Parlamento insieme ad almeno due terzi dei parlamentari. Ad oggi, tuttavia, la Corte, che avrebbe dovuto essere creata al massimo un anno dopo le elezioni legislative del 2014, non è ancora stata formata e i lavori per la sua costituzione sono stati rallentati e poi bloccati dallo stesso Saied nel 2021, mentre le attività del Parlamento sono sospese per (almeno) trenta giorni proprio a causa dell’iniziativa di Kais Saied. In questa fase fortemente critica mancano, quindi, i due dispositivi che avrebbero il potere di verificare le circostanze per la validità dell’applicazione dell’art.80 e giustificare la sospensione delle attività parlamentari e del governo, creando un corto circuito istituzionale e politico che lascia sicuramente un buon margine di manovra al Presidente Saied per muoversi in uno spazio ancora sconosciuto, permettendogli, in ultima battuta, di creare una dittatura cesarista in pieno stile bourgibiano. A dieci anni quindi dalla rivoluzione del 2011 che ha riconsegnato la democrazia in mano ai cittadini tunisini, i limiti strutturali e contingenti della transizione democratica sono venuti a galla, rischiando non solo di segnare una battuta d’arresto del tanto acclamato laboratorio democratico arabo, ma anche un suo sgretolamento.
Definire, ad oggi, quale sia la traiettoria futura della democrazia tunisina è ancora difficile. L’annuncio fatto lunedì 26 luglio dell’avvio di un’inchiesta su Ennahda e altri due partiti per finanziamenti esteri (una procedura formalmente avviata a metà luglio) solleva i dubbi riguardo all’indipendenza della magistratura in un momento così delicato per le istituzioni e rievoca lo spettro di un’inversione autoritaria, una situazione che quindi contribuirebbe ad alimentare le preoccupazioni generali tra i detrattori del Presidente. In questa fase estremamente delicata, tuttavia, è possibile delineare quelli che potrebbe essere i potenziali scenari futuri.
Nel primo caso, piuttosto improbabile, Kais Saied riuscirebbe nell’impresa titanica di risolvere la crisi sociale, economica e politica in cui versa la Tunisia o, almeno, gettare le basi di una ripresa concreta in questa fase emergenziale per poi restaurare le istituzioni e restituir loro i loro poteri costituzionalmente definiti. Nel secondo scenario, quello più temuto, l’iniziativa presidenziale di domenica rappresenterebbe la fine della seconda Repubblica tunisina e l’inizio di una dittatura cesarista: le istituzioni verrebbero così svuotate del proprio potere e il Parlamento diventerebbe un mero organo consultivo del Presidente. Tuttavia, anche qualora la democrazia tunisina resistesse a questa difficile prova (uscendone comunque claudicante) e Kais Saied ricostruisse le istituzioni che ha a lungo criticato, la manovra presidenziale e il sostegno che ha ottenuto, almeno sino ad ora, creerebbero un precedente a conferma dell’inefficienza degli organi democratici creati dalla rivoluzione, compromettendo irrimediabilmente la loro credibilità. Uno scenario che, in ultima battuta, sancirebbe la fine dell’eccezione democratica tunisina., quasi fossero condannate dallo stesso sistema che le ha elette per l’incapacità dimostrata nel far fronte alle crescenti problematiche del Paese.
Fonte www. cesi.it
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