I rischi della nuova instabilità in Etiopia
Nell’ottobre del 2019 Abiy Ahmed Ali, primo ministro dell’Etiopia, è stato insignito del premio Nobel per la pace «per i suoi sforzi nel raggiungere la pace e la cooperazione internazionale, e in particolare per le sue iniziative decisive per risolvere i conflitti lungo il confine con l’Eritrea». Il premier, in carica da poco più di un anno e mezzo, era già considerato “il volto del rinnovamento”, una speranza per il futuro democratico del Paese. Il più giovane leader del continente ‒ 44 anni ‒all’inizio del suo mandato aveva rilasciato migliaia di prigionieri politici, rimosso il divieto alla creazione di nuovi partiti, licenziato i funzionari carcerari accusati di violazione dei diritti umani e, soprattutto, favorito l’accordo di pace con l’Eritrea del luglio del 2018 che ha messo fine a vent’anni di conflitti e tensioni tra i due Stati.
A distanza di un anno dal Nobel, che tanto aveva fatto sperare in una maggiore stabilità nell’area, le cose sono radicalmente mutate. Negli ultimi mesi si sono verificati numerosi scontri nel Paese che hanno causato la morte di centinaia di persone. Le violenze hanno avuto inizio il 29 giugno, dopo l’assassinio di Hachalu Hundessa, un famoso cantante e attivista di etnia Oromo, la stessa dell’attuale primo ministro. Non è ancora chiaro chi abbia commesso l’omicidio e perché, ma poche ore dopo la morte di Hundessa ci sono state rivolte in tutta la regione di Oromia, la più popolosa tra quelle che compongono la Repubblica federale democratica di Etiopia, con circa 33 milioni di abitanti, compresi quelli della capitale Addis Abeba.
Le proteste si sono acuite con l’annuncio del rinvio delle elezioni, previste per il mese di ottobre, a causa dell’emergenza Covid-19. Un gesto ritenuto dalle forze di opposizione come un tentativo da parte Abiy Ahmed di restare al potere, tanto che i leader della regione settentrionale del Tigray hanno deciso di indire comunque le elezioni. La tornata elettorale, che si è svolta a settembre, ha visto la vittoria del Tigray People’s Liberation Front (TPLF) uno dei partiti storici dell’Etiopia. Anche se i tigrini rappresentano solo il 6% della popolazione, composta da oltre 110 milioni di persone, sono stati una delle forze dominanti nel ventennio precedente l’arrivo al potere di Abiy Ahmed. Il timore che tali elezioni, dichiarate illegali dal premier, potessero essere il primo passo verso la secessione del Tigray ha aperto la fase delle ostilità tra l’esercito federale e le forze del TPLF. Il 4 novembre il primo ministro ha deciso di lanciare un’offensiva armata contro la “regione ribelle” dispiegando truppe a ridosso delle regioni di Amhara e Afar, a sud e a est del Tigray. Nonostante gli appelli dell’Unione Africana per una sospensione delle violenze gli scontri continuano e i rischi vanno ben oltre i confini dell’Etiopia.
In primo luogo il “tentativo separatista” potrebbe estendersi alle altre regioni del Paese, facendo esplodere le rivendicazioni autonomiste delle diverse comunità o riaccendendo vecchie tensioni come, per esempio, quella tra la regione di Amhara e quella del Tigray, da decenni “impantanate” in una disputa sulla terra dalla quale sono scaturiti violenti scontri. D’altra parte non va dimenticato che l’Etiopia è uno Stato federale che tiene insieme diverse istanze regionali, espressioni di etnie, clan e tribù. Le spinte secessioniste sono ricorrenti nella storia etiope e questo spiega il motivo per cui il Paese è stato per lungo tempo governato da militari che legittimavano il loro potere con la capacità di tenere assieme “un mosaico” a rischio di azioni separatiste. Il nuovo premier ha tentato di sviluppare una politica atta a ridurre la conflittualità interetnica ed evitare spinte centrifughe. Per questo motivo lo spettro che l’iniziativa tigrina possa aprire ad altre “ambizioni secessioniste” potrebbe aumentare il livello delle violenze in modo da far desistere qualunque altra regione da simili tentativi.
Un altro punto interrogativo riguarda un possibile coinvolgimento di Asmara nel confitto. L’élite politica del Tigray era al governo di Addis Abeba nei lunghi anni di guerra e tensioni con l’Eritrea che potrebbe decidere di approfittare della situazione per assestare un colpo definitivo ai nemici di lunga data, ampliando ulteriormente gli attori coinvolti nel conflitto e, dunque, il livello di violenze. Pochi giorni fa le forze del Tigrai hanno rivendicato il lancio di razzi sull’aeroporto della vicina capitale dell’Eritrea. Un segnale che non fa ben sperare per le sorti di una guerra che rischia di deflagrare ben oltre i confini etiopi.
I problemi, poi, potrebbero estendersi agli Stati vicini del Corno d’Africa, una delle aree più vulnerabili del continente. In primo luogo alla Somalia, da cui le forze etiopi si sono ritirate dopo lunghi anni di campagna militare e con cui in tempi recenti hanno riaperto un dialogo su questioni regionali di interesse comune, in linea con l’iniziativa di pace e di integrazione economica avviata da Abiy Ahmed. In secondo luogo al Sudan, che sta affrontando una delicatissima transizione politica e che potrebbe vedere ulteriormente aggravata la propria situazione interna. Secondo stime dell’ONU, vi sarebbero più di un milione di sfollati nella regione del Tigray e circa 40.000 persone sarebbero già fuggite dalle zone di guerra attraversando il confine occidentale con il Sudan; un numero che è «probabile aumenti rapidamente», ha avvertito l’alto commissariato ONU per i rifugiati. Se così fosse rischierebbe di aprirsi una crisi umanitaria di enormi dimensioni.
Infine, guardando verso il Mediterraneo, l’Egitto resta uno spettatore interessato a una possibile destabilizzazione dell’Etiopia che potrebbe rallentare il progetto di riempimento della Grande diga del rinascimento etiopico (GERD, Grand Ethiopian Reinassance Dam). Il Cairo, preoccupato per le possibili ripercussioni in termini di approvvigionamento d’acqua, aveva già minacciato di intraprendere un’azione militare per impedire la creazione della diga. Al momento appare assai improbabile che l’Egitto possa in qualche modo entrare nel “caos etiope”, ma, come ben noto, il protrarsi delle guerre in queste aree profondamente destabilizzate attira da sempre gli appetiti e gli interessi delle potenze regionali e non solo. Il caso libico insegna.
È dunque lecito ipotizzare che più questa guerra si prolungherà, maggiori saranno i rischi di una sua espansione a livello regionale, con tutti i conseguenti rischi per la “tenuta” di un’area estremamente instabile che, solo da poco, aveva raggiunto un precario e parziale barlume di equilibrio.
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