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Per il mondo arabo, Usa 2016 è stata la prima campagna presidenziale nel corso della quale l’islamofobia - e con essa l’hate speech - è stata uno strumento strategico utilizzato per incassare consenso.
Dopo che Donald Trump, nel dicembre 2015, ha proposto di vietare l’ingresso dei musulmani negli Stati Uniti, l’appuntamento elettorale è diventato un test in cui alla prova, oltre ai due candidati, c’era l’intero elettorato statunitense chiamato a esprimersi anche sui toni apertamente razzisti del tycoon. La retorica islamofobiche e le audience arabe Un sondaggio pre elettorale svolto da YouGov ed Arab News aveva infatti mostrato come la retorica islamofobica della campagna del tycoon stesse alienando le audience arabe: anche se sulle tematiche sensibili, come l’aborto e la condizione femminile, oltre il 75% degli intervistati si sentiva più vicino alle posizioni di Trump, solo il 9% avrebbe dato a lui la sua preferenza. In aggiunta, un’indagine di opinione realizzata un mese prima dell’election day dall’Arab Center di Washington su un campione di 3600 persone residenti in nove Paesi arabi ha mostrato come oltre il 60% degli intervistati aveva già allora un’opinione negativa di Trump. Nonostante questo, meno del 20% credeva che il cambio di guardia alla Casa Bianca potesse avere un impatto significativo sulla politica estera globale e regionale degli Stati Uniti. E solo il 13% pensava che con Trump alla presidenza questo impatto potesse essere positivo. All’indomani del risultato, Trump ha comunque ricevuto le congratulazioni di tutti i leader arabi, ma il pragmatismo dei governanti arabi non ha contagiato le società arabe. Sono infatti rimasti critici sia la maggioranza dei cittadini che i rappresentanti dell’Islam più radicale. Basta pensare alle prime parole pronunciate da Abu Muhammad Al-Maqdisi, ideologo di Al-Qaeda, che non ha esitato a definire il successo di Trump l’inizio del declino più profondo e della disintegrazione degli Stati Uniti. Secondo Al-Maqdisi, infatti, l’elezione di Trump ha messo a nudo, una volta per tutte, la mentalità razzista e islamofobica degli statunitensi. Questo potrebbe quindi motivare i musulmani nemici degli Stati Uniti a reagire. Reazioni immediate a parte, in pochi si sono sbilanciati nel fare previsioni sulla politica estera di Trump nella regione. Come già scritto su questa rivista, l’approccio al mondo del neo eletto presidente è infatti poco prevedibile. Per abbozzare qualche pronostico si può al massimo riflettere su tre elementi che hanno caratterizzato la campagna elettorale di Trump: il nazionalismo estremamente realista; la preferenza per accordi bilaterali con le potenze regionali e la riluttanza a intervenire militarmente su larga scala. Anche questi però vanno presi con cautela, visto che le prime dichiarazioni del Trump presidente hanno in parte rinnegato gli annunci fatti durante la campagna elettorale. Molto dipenderà dai nomi degli uomini che andranno a comporre la sua squadra. E le prime nomine non fanno ben sperare. Anzi visti i profili, il timore è che l’islamofobia che Trump ha usato per fare campagna elettorale, diventi ora un pilastro della sua pratica politica che in Medio Oriente avrà come priorità la lotta al terrorismo. Trump come Bush figlio L’enfasi posto dal nuovo presidente su questo ultimo aspetto ha spinto molti analisti a paragonare Trump con Bush figlio e a prevedere che il pendolo che registra l’andamento dell’azione statunitense nel mondo subirà una significativa oscillazione, tornando nella posizione già occupata durante l’epoca di Bush, ovvero l’estremo opposto di quello nel quale si è posizionato con l’arrivo di Obama. Anche se sull’interventismo Trump è stato cauto, è probabile che con il suo ingresso alla Casa Bianca gli Stati Uniti prenderanno le distanze dalle politiche della “mano tesa” volute (e spesso rimaste solo parole), da Obama. Come Bush, che voleva trasformare il Medio Oriente in una parte di mondo più stabile, anche Trump potrebbe commettere una serie di errori che porterebbero al risultato opposto, al contempo nutrendo le istanze antiamericane. Quelle sempre esistite e congenite alla regione; ma anche quelle sopite dall’avvento di Obama e dal restyling di immagine a cui questo ha costretto gli Stati Uniti appena entrato alla Casa Bianca. L’antiamericanismo nell’epoca Trump Anche se la burocrazia di Washington riuscirà ad imbrigliare il nuovo presidente, il suo arrivo alla Casa Bianca contribuirà a delineare l’immagine degli Stati Uniti nel mondo; tanto più se Trump continuerà a utilizzare i toni incendiari della sua campagna. In generale però, la figura presidenziale ha un peso relativo sull’evoluzione dell’antiamericanismo. E questa è probabilmente una buona notizia per gli osservatori preoccupati da un’eventuale crescita dell’antiamericanismo dovuta all’arrivo alla Casa Bianca di un personaggio tutt’altro che amato nel mondo arabo. Consapevole di non essere un uomo popolare in Medio Oriente, all’indomani della vittoria, Trump è sembrato pronto a ricorrere ai ripari. Per scongiurare il peggio è andato a ripulire il suo programma elettorale, ritoccando la versione online dalla quale è scomparso il punto relativo al divieto di ingresso dei musulmani nel Paese. Un aggiustamento fatto probabilmente pensando alle conseguenze, in primis per la sicurezza della nazione, di una politica dagli spiccati toni islamofobici. Se da un lato è quindi prematuro prevedere un inasprimento sostanziale dell’antiamericanismo arabo legato esclusivamente alla nuova figura presidenziale, dall’altro si può già ipotizzare che se Trump si limiterà a modifiche cosmetiche del suo programma, cercando nei fatti di realizzarlo, avrà poche carte per contenere e combattere attivamente l’antiamericanismo arabo - un fenomeno che pur avendo radici relativamente giovani nella regione necessita ricette elaborate e di lungo periodo per essere estirpato. Né media diplomacy, né soft power riusciranno a vincere, da soli, le menti e i cuori degli arabi che negli ultimi decenni hanno maturato, per svariate ragioni e in diversa misura, un risentimento più o meno profondo nei confronti della Casa Bianca. Con l’arrivo del neo eletto, il timore è che la componente più virulenta dell’antiamericanismo possa, nel tempo, diffondersi e radicarsi in una fascia più ampia della popolazione, trasformandosi da mentalità a ideologia. Qualora questo accadesse, i pericoli per la Casa Bianca sarebbero certamente maggiori: in un mondo sempre più interconnesso, una volta cristallizzate, le ideologie sono più complesse da estirpare rispetto a mentalità che non portano direttamente alla creazione di pregiudizi. Azzurra Meringolo è ricercatrice presso lo IAI e caporedattrice di AffarInternazionali. Coordinatrice scientifica di Arab Media Report. Potete seguirla sul suo blog e su twitter a @ragazzitahrir. | ||||||||
sabato 26 novembre 2016
Trump: anche l'Africa è araba
mercoledì 16 novembre 2016
Tunisia: sostegno dall'Europa
sabato 12 novembre 2016
Una visione africocentrica del Diritto
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Continua lo scacco alla Corte Penale Internazionale, Cpi, da parte degli stati africani. Più volte è stata considerata in seno all’Unione Africana, Ua, l’ipotesi di un “recesso di massa” dallo Statuto di Roma.
Sebbene durante l’ultimo vertice dell’Ua alcuni Paesi tra cui Botswana, Nigeria, Senegal, Costa d’Avorio e Tunisia si siano pubblicamente opposti all'idea, nelle ultime settimane Burundi, Sudafrica e Gambia hanno manifestamente espresso la loro volontà di abbandonare la Corte. In ogni caso, il recesso entrerà in vigore a decorrere da un anno dalla notifica al Segretario Generale delle Nazioni Unite, che ne è depositario in conformità all’art. 127 dello Statuto di Roma. È bene tener presente che a norma dello stesso articolo, il recesso di uno Stato non lo esonera dagli obblighi posti a suo carico quando ne era parte, né compromette qualsiasi cooperazione concordata con la Corte in occasione d’inchieste e procedure penali alle quali lo Stato che recede aveva il dovere di cooperare e iniziate prima della data in cui il recesso è divenuto effettivo. Tale atto di rinuncia non impedisce neppure di continuare a esaminare qualsiasi questione di cui la Corte era già investita prima della data in cui il recesso è divenuto effettivo. Di conseguenza, i crimini che si sono commessi in precedenza alla data della notifica di recesso restano comunque perseguibili. Burundi, Sudafrica e Gambia votano il recesso dallo Statuto di Roma Il Parlamento del Burundi ha votato a favore del recesso dallo Statuto di Roma il 12 ottobre 2016, a poco più di un mese dalla pubblicazione del rapporto della Commissione di Indagine Indipendente delle Nazioni Unite in Burundi (Uniib), il quale registra prove di manifeste violazioni dei diritti umani e la potenziale commissione di crimini contro l’umanità da parte del governo di Bujumbura e degli organi agenti a proprio titolo. Appena una settimana dopo l’approvazione del recesso da parte del parlamento in Burundi, il 19 ottobre 2016, la Repubblica Sudafricana ha notificato al Segretario Generale delle Nazioni Unite la propria volontà di recesso con documento firmato dal Ministro degli Esteri Maite Nkoana-Mashabane. Le prime divergenze tra Sudafrica e Cpi sono nate lo scorso anno, quando Pretoria ha ignorato l’ordinanza d’arresto della Corte nei confronti del presidente sudanese Omar Hassan al-Bashir, accusato di genocidio e crimini di guerra in Darfur. Il governo sudafricano, inoltre, sostiene che l’effettiva implementazione dello Statuto della Cpi del 2002 si ponga in conflitto con le previsioni disposte dal proprio Diplomatic Immunities and Privileges Act n. 37 del 2001, e le sue obbligazioni riguardo alla risoluzione pacifica dei conflitti siano incompatibili con l’interpretazione proposta dalla Corte. Analogamente, a pochi giorni dalla notifica, il governo del Gambia si è schierato a sfavore della Corte, pronunciandosi duramente contro l’attività dell’organo, accusato di essere uno strumento umiliante nei confronti degli africani e il cui mirino è rivolto esclusivamente a questo continente, dislocando l’attenzione da altri episodi criminosi diffusi in diverse aree del globo. “Corte caucasica internazionale” La Cpi è stata perfino definita “Corte caucasica internazionale” alludendo alle ingerenze dei Paesi Occidentali e dei loro interessi negli affari della Corte. In questo clima di tensione sarebbe più che mai opportuno riconsiderare gli equilibri e soprattutto gli squilibri in seno alla Cpi e agli organi da cui discende. La critica non è recente: già in passato gli stati dell’Ua avevano biasimato la parzialità dell’organo, mal tollerando l’elevata concentrazione d’indagini sul territorio africano. Lo scorso settembre, la Procuratrice della Corte penale internazionale Fatou Bensouda ha pubblicato a tal proposito una dichiarazione concernente i parametri di selezione e classificazione dei casi dei quali la Procura è chiamata ad occuparsi. Oltre a chiarire il potere discrezionale dell’ufficio, il documento precisa i parametri che indirizzano la Procura nella scelta dei casi sui quali indagare, tra cui: la gravità dei crimini, il grado di responsabilità e i capi di imputazione in conformità ai principi di indipendenza, imparzialità e obiettività a fondamento dell’attività della Corte. L’ufficio istruttorio ha condotto negli ultimi anni indagini in Uganda; Repubblica Democratica del Congo; Darfur, Sudan; Repubblica Centrafricana, mediante due distinte investigazioni; Kenya; Libia; Costa d’Avorio, Mali e Georgia. La Procura ha altresì indetto indagini preliminari riguardo alle situazioni in Afghanistan; Colombia; Guinea; Iraq/UK; Palestina, Nigeria e Ucraina. Rischio reazione a catena La preoccupazione principale alla luce degli ultimi avvenimenti è che tali episodi possano provocare una reazione a catena, per cui ogni Stato che si trovi in posizione di dissenso con la Corte Internazionale sarebbe portato a notificare l’atto di rinuncia dallo Statuto. Il concreto recesso da parte di uno Stato membro rappresenterebbe un grave passo indietro, specialmente riguardo agli sforzi compiuti in virtù dell’universalità dell’Istituzione. In un momento simile frutterebbe se tutti gli Stati lavorassero congiuntamente, invitando i membri insofferenti a riconsiderare la propria posizione e avviando un nuovo dialogo, per sostenere la Cpi, ma soprattutto assicurarne efficacia e attendibilità per tutelare il sistema di giustizia universale garantito alle vittime di atrocità di massa e contrastare l’impunità innanzi alla brutalità di tali crimini, al di là dei dissapori e i vezzi politici di singoli capi di Stato. Sebbene imperfetta, la Cpi resta uno strumento cruciale di accesso alla giustizia internazionale, essenziale ad assicurare lo stato di diritto e la tutela dei diritti fondamentali per le vittime delle più gravi violazioni di diritto umanitario. Con i suoi 124 stati membri, dal 2002, è il primo organismo giudiziario con giurisdizione internazionale permanente per la persecuzione di genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra; in assenza di corti regionali con giurisdizione penale, è l’unica garanzia giudiziale sovranazionale per chi è vittima di crimini internazionali. Anastasia Buscicchio è assistente di ricerca presso il Budapest Centre for Mass Atrocities Prevention. |
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