sabato 31 dicembre 2016
giovedì 22 dicembre 2016
.LIbia: alla ricerca di nuovi orizzonti
venerdì 9 dicembre 2016
La Russia sulla quarta sponda
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Le vicende libiche più recenti mostrano l’emergere di un equilibrio a vantaggio di Tobruk, del generale Khalifa Haftar e del presidente della Camera dei Rappresentanti Aqila Saleh e, per contro, uno sfaldamento progressivo del governo di accordo nazionale, Gan, di Fayez Serraj e delle forze che gli si sono raccolte intorno, più o meno islamiste.
In primavera, le milizie di Misurata postesi sotto l’autorità di Serraj hanno preso d’assalto Sirte per sloggiare l’autoproclamatosi “stato islamico”. Gli inviti di Serraj a Haftar di unire le forze sono rimasti inascoltati. Haftar ha lasciato che le milizie di Misurata si attardassero nell’assedio a Sirte in un’operazione che non ha un’influenza diretta sull’equilibrio politico-militare interno e ha invece occupato il suo tempo consolidando il controllo del territorio a Bengasi e nelle aree a oriente e a sud di Sirte. Il successo di Misurata a Sirte, appena proclamato all’inizio di dicembre, è costato molto caro, tiene ancora bloccate le milizie a Sirte e le ha indebolite. In occasione dei tumulti causati a Tripoli dalle agitazioni contro il Gan promosse da Ghweil (il capo del vecchio parlamento islamista sostituito dal Gan), fu subito ventilata l’ipotesi di un intervento di queste milizie, ma fu anche subito dismessa in quanto queste non erano in grado di lasciare Sirte. In questo quadro di debolezza militare a Tripoli, Haftar ha occupato la “mezzaluna petrolifera”, liquidando in poche battute le Guardie petrolifere di Ibrahim Jadran (alleate del Gane senza reazioni da parte di Tripoli di fronte a una mossa così strategicamente importate per l’equilibrio delle forze in Libia: le forze a Sirte di nuovo non si sono potute muovere, quelle stanziate a Tripoli, come che sia, non si sono mosse. L’insospettato acume strategico di Haftar A queste dinamiche militari si è aggiunta un’azione politica. Haftar, non molto brillante fino a tutto il 2015, nel 2016 ha mostrato un insospettato acume strategico, sia lasciando - come abbiamo visto - che Misurata si logorasse contro lo “ stato islamico”, sia occupando i pozzi e scartando di assediare Tripoli o cercare un scontro diretto con le forze del Gan, sia mostrando una statura di statista quando ha lasciato che le risorse dei campi petroliferi conquistati andasse nelle tasche della Banca centrale invece che in quelle di Tobruk, sia tessendo una tela diplomatica non più solo con l’Egitto e gli Emirati Arabi Uniti, ma anche direttamente con la Russia. Gli interessi russi dall’Egitto alla Libia sono ormai chiari. Mosca ha fornito armi ad Haftar (sembra per circa tre milairdidi dollari) e, nel complesso, si appresta a migliorare le infrastrutture e le risorse militari in Egitto con l’idea di prolungare l’azione in Libia (intanto si ha notizia della costruzione di una base militare a Marj, il quartier generale di Haftar, da parte degli Emirati Arabi Uniti). Lo scontro non l’ha cercato Haftar e neppure le milizie di Misurata, bensì una milizia di islamisti estremisti formata da uomini dello Shura Council di Bengasi. Il 7 dicembre una forza di circa 600 uomini ha attaccato il presidio di Haftar nella mezzaluna petrolifera, con l’intento di strapparglielo e di aprire un corridoio verso Bengasi per aiutare le forze islamiste che ancora occupano una piccola frazione della città. Questa forza è stata pienamente respinta, confermando l’equilibrio militare a favore di Haftar che oggi regna in Libia. Secondo voci insistenti, riportate dall’International Crisis Group, la sfortunata impresa verrebbe dagli ambienti del Ministro della Difesa di Serraj, Mehdi Barghati. Se questo fosse vero, sarebbe una vivida testimonianza della disgregazione del Gan e di una debolezza politica di Serraj che si aggiungerebbe a quella militare. Il tramonto del governo di accordo nazionale In questo quadro, già da alcuni mesi il processo politico promosso dall’Onu e il Gan sembrano non essere più in grado di fornire la soluzione politica bilanciata che molti Paesi hanno sinceramente appoggiato (come l’Italia) e altri hanno appoggiato a New York, ma non in Libia (come la Francia e l’Egitto), contribuendo al fallimento dell’iniziativa. Si moltiplicano le voci di un negoziato che comprenda anche Haftar e le forze di Tobruk. Vari accenni sono stati anche fatti dal ministro ( ora premier) Paolo Gentiloni. Ma su quali basi impostare un negoziato con Haftar? Serraj ci ha già provato senza risultati e del resto con le sue evidenti debolezze non poteva certo convincere Haftar. In effetti, nel momento in cui la dinamica dell’equilibrio politico-militare è favorevole ad Haftar - come si è già visto in Libia e in Siria - non è detto che egli voglia trattare. I nodi della trattativa sono essenzialmente due: la frammentazione delle forze sul territorio e il ruolo degli islamisti. Riprendere il discorso dove lo ha lasciato re Idris Per aggirare la frammentazione delle forze si dovrebbe prefigurare un’articolazione territoriale del Paese che lasci loro una misura di autonomia. Non si tratta assolutamente della partizione della Libia - che del resto l’impostazione nazionalista di Haftar non accetterebbe - ma di riprendere il disegno del compromesso federalista o confederalista che le diverse tendenze libiche avevano accettato negli anni ‘50 all’epoca della formazione dello stato unitario affidandone la realizzazione a re Idriss come super partes. Quest’ultimo però non mantenne la promessa e ne sono seguiti decenni di infelice repressione e minorità politica della Libia. Perché quel disegno sia fattibile è anche necessario che le componenti islamiste moderate si decidano a distanziarsi da quelle estreme come hanno fatti Fratelli Mussulmani in Tunisia. Se lo faranno, ci sarà una possibilità di stabilire un equilibrio accettabile e costituire sotto un governo di unità nazionale una convivenza di tendenze politiche diverse. Se non lo faranno la guerra civile potrebbe riprendere, stavolta probabilmente con la Russia a gestire la crisi. Roberto Aliboni è consigliere scientifico dello IAI. | ||||||||
sabato 26 novembre 2016
Trump: anche l'Africa è araba
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Per il mondo arabo, Usa 2016 è stata la prima campagna presidenziale nel corso della quale l’islamofobia - e con essa l’hate speech - è stata uno strumento strategico utilizzato per incassare consenso.
Dopo che Donald Trump, nel dicembre 2015, ha proposto di vietare l’ingresso dei musulmani negli Stati Uniti, l’appuntamento elettorale è diventato un test in cui alla prova, oltre ai due candidati, c’era l’intero elettorato statunitense chiamato a esprimersi anche sui toni apertamente razzisti del tycoon. La retorica islamofobiche e le audience arabe Un sondaggio pre elettorale svolto da YouGov ed Arab News aveva infatti mostrato come la retorica islamofobica della campagna del tycoon stesse alienando le audience arabe: anche se sulle tematiche sensibili, come l’aborto e la condizione femminile, oltre il 75% degli intervistati si sentiva più vicino alle posizioni di Trump, solo il 9% avrebbe dato a lui la sua preferenza. In aggiunta, un’indagine di opinione realizzata un mese prima dell’election day dall’Arab Center di Washington su un campione di 3600 persone residenti in nove Paesi arabi ha mostrato come oltre il 60% degli intervistati aveva già allora un’opinione negativa di Trump. Nonostante questo, meno del 20% credeva che il cambio di guardia alla Casa Bianca potesse avere un impatto significativo sulla politica estera globale e regionale degli Stati Uniti. E solo il 13% pensava che con Trump alla presidenza questo impatto potesse essere positivo. All’indomani del risultato, Trump ha comunque ricevuto le congratulazioni di tutti i leader arabi, ma il pragmatismo dei governanti arabi non ha contagiato le società arabe. Sono infatti rimasti critici sia la maggioranza dei cittadini che i rappresentanti dell’Islam più radicale. Basta pensare alle prime parole pronunciate da Abu Muhammad Al-Maqdisi, ideologo di Al-Qaeda, che non ha esitato a definire il successo di Trump l’inizio del declino più profondo e della disintegrazione degli Stati Uniti. Secondo Al-Maqdisi, infatti, l’elezione di Trump ha messo a nudo, una volta per tutte, la mentalità razzista e islamofobica degli statunitensi. Questo potrebbe quindi motivare i musulmani nemici degli Stati Uniti a reagire. Reazioni immediate a parte, in pochi si sono sbilanciati nel fare previsioni sulla politica estera di Trump nella regione. Come già scritto su questa rivista, l’approccio al mondo del neo eletto presidente è infatti poco prevedibile. Per abbozzare qualche pronostico si può al massimo riflettere su tre elementi che hanno caratterizzato la campagna elettorale di Trump: il nazionalismo estremamente realista; la preferenza per accordi bilaterali con le potenze regionali e la riluttanza a intervenire militarmente su larga scala. Anche questi però vanno presi con cautela, visto che le prime dichiarazioni del Trump presidente hanno in parte rinnegato gli annunci fatti durante la campagna elettorale. Molto dipenderà dai nomi degli uomini che andranno a comporre la sua squadra. E le prime nomine non fanno ben sperare. Anzi visti i profili, il timore è che l’islamofobia che Trump ha usato per fare campagna elettorale, diventi ora un pilastro della sua pratica politica che in Medio Oriente avrà come priorità la lotta al terrorismo. Trump come Bush figlio L’enfasi posto dal nuovo presidente su questo ultimo aspetto ha spinto molti analisti a paragonare Trump con Bush figlio e a prevedere che il pendolo che registra l’andamento dell’azione statunitense nel mondo subirà una significativa oscillazione, tornando nella posizione già occupata durante l’epoca di Bush, ovvero l’estremo opposto di quello nel quale si è posizionato con l’arrivo di Obama. Anche se sull’interventismo Trump è stato cauto, è probabile che con il suo ingresso alla Casa Bianca gli Stati Uniti prenderanno le distanze dalle politiche della “mano tesa” volute (e spesso rimaste solo parole), da Obama. Come Bush, che voleva trasformare il Medio Oriente in una parte di mondo più stabile, anche Trump potrebbe commettere una serie di errori che porterebbero al risultato opposto, al contempo nutrendo le istanze antiamericane. Quelle sempre esistite e congenite alla regione; ma anche quelle sopite dall’avvento di Obama e dal restyling di immagine a cui questo ha costretto gli Stati Uniti appena entrato alla Casa Bianca. L’antiamericanismo nell’epoca Trump Anche se la burocrazia di Washington riuscirà ad imbrigliare il nuovo presidente, il suo arrivo alla Casa Bianca contribuirà a delineare l’immagine degli Stati Uniti nel mondo; tanto più se Trump continuerà a utilizzare i toni incendiari della sua campagna. In generale però, la figura presidenziale ha un peso relativo sull’evoluzione dell’antiamericanismo. E questa è probabilmente una buona notizia per gli osservatori preoccupati da un’eventuale crescita dell’antiamericanismo dovuta all’arrivo alla Casa Bianca di un personaggio tutt’altro che amato nel mondo arabo. Consapevole di non essere un uomo popolare in Medio Oriente, all’indomani della vittoria, Trump è sembrato pronto a ricorrere ai ripari. Per scongiurare il peggio è andato a ripulire il suo programma elettorale, ritoccando la versione online dalla quale è scomparso il punto relativo al divieto di ingresso dei musulmani nel Paese. Un aggiustamento fatto probabilmente pensando alle conseguenze, in primis per la sicurezza della nazione, di una politica dagli spiccati toni islamofobici. Se da un lato è quindi prematuro prevedere un inasprimento sostanziale dell’antiamericanismo arabo legato esclusivamente alla nuova figura presidenziale, dall’altro si può già ipotizzare che se Trump si limiterà a modifiche cosmetiche del suo programma, cercando nei fatti di realizzarlo, avrà poche carte per contenere e combattere attivamente l’antiamericanismo arabo - un fenomeno che pur avendo radici relativamente giovani nella regione necessita ricette elaborate e di lungo periodo per essere estirpato. Né media diplomacy, né soft power riusciranno a vincere, da soli, le menti e i cuori degli arabi che negli ultimi decenni hanno maturato, per svariate ragioni e in diversa misura, un risentimento più o meno profondo nei confronti della Casa Bianca. Con l’arrivo del neo eletto, il timore è che la componente più virulenta dell’antiamericanismo possa, nel tempo, diffondersi e radicarsi in una fascia più ampia della popolazione, trasformandosi da mentalità a ideologia. Qualora questo accadesse, i pericoli per la Casa Bianca sarebbero certamente maggiori: in un mondo sempre più interconnesso, una volta cristallizzate, le ideologie sono più complesse da estirpare rispetto a mentalità che non portano direttamente alla creazione di pregiudizi. Azzurra Meringolo è ricercatrice presso lo IAI e caporedattrice di AffarInternazionali. Coordinatrice scientifica di Arab Media Report. Potete seguirla sul suo blog e su twitter a @ragazzitahrir. | ||||||||
mercoledì 16 novembre 2016
Tunisia: sostegno dall'Europa
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Sostegno alla società civile e alla riforma della pubblica amministrazione e del settore giudiziario, miglioramento della governance, riduzione delle disparità sociali e della disoccupazione giovanile, lotta al terrorismo: sono solo alcuni degli obiettivi contenuti nelle conclusioni del Consiglio dell’Unione europea, Ue, del 17 ottobre sulla Comunicazione congiunta “Un sostegno rafforzato per la Tunisia” presentato a Bruxelles dall’Alto rappresentante dell'Unione europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Federica Mogherini, e dal Commissario Ue per l'Allargamento e la politica europea di vicinato, Johannes Hahn, a fine settembre.
Il Consiglio, infatti, si è espresso favorevolmente sulle misure contenute nella Comunicazione, ribadendo il suo sostegno alla transizione in atto nel Paese e l’impegno a rafforzare gli aiuti alla Tunisia sulla base del progresso delle riforme annunciate nel piano di sviluppo quinquennale 2016-2020 presentato recentemente dal governo. In particolare, l’Ue raddoppierà l’assistenza finanziaria alla Tunisia prevista per il 2017, erogando fino a 300 milioni di euro. Questa cifra va ad aggiungersi ai due “pacchetti” dell’assistenza macro-finanziaria, uno strumento complementare agli aiuti del Fondo Monetario Internazionale, approvati nel 2014 e questa estate (rispettivamente 300 e 500 milioni di euro). I versamenti, ancora parziali, sono condizionati all’attuazione di riforme strutturali, tra cui la riforma delle istituzioni pubbliche e delle società statali e la riduzione dei sussidi energetici. Alle origini delle relazioni Tunisia-Ue Dal 2011, la Tunisia è stata uno dei principali beneficiari dei fondi europei erogati attraverso diversi programmi su base geografica, in primis lo Strumento europeo di vicinato (Eni), e di natura tematica, come lo Strumento europeo per la democrazia ed i diritti umani (Eidhr), lo Strumento inteso a contribuire alla stabilità e alla pace (IcSP) e lo Strumento per le Organizzazioni della società civile e Autorità locali. Le sue relazioni con l’Ue datano alla fine degli anni Sessanta (nel 1969 il primo accordo commerciale con la Cee). Nel 1995, la Tunisia è stato il primo Paese a firmare un Accordo di Associazione con la Ue nel quadro del Partenariato euro-mediterraneo inaugurato dal cosiddetto “Processo di Barcellona” e, a partire da gennaio 2008, il primo Paese della sponda sud del Mediterraneo ad entrare a tutti gli effetti nella zona di libero scambio per i prodotti industriali con l’Europa, dopo un periodo transitorio di progressivo smantellamento tariffario. Dal 2012, la Tunisia ha uno “statuto avanzato” con l’Ue, che mira principalmente all’attuazione del controverso Accordo di Libero Scambio Completo e Approfondito (Dcfta/Aleca) i cui negoziati sono stati avviati ufficialmente ad ottobre 2015. Il Dcfta, in continuità con gli accordi precedenti, mira ad estendere la zona di libero scambio a tutti i prodotti manifatturieri e a nuovi settori, tra cui quello dei servizi e dell’agricoltura attraverso la liberalizzazione commerciale. Emergenza economica tunisina In un’intervista radiofonica, Fadhel Abdelkefi, Ministro per gli investimenti, lo sviluppo e la cooperazione internazionale del nuovo governo tunisino di unità nazionale di Youssef Chahed aveva descritto il Paese in uno “stato di emergenza economica”. Le tensioni sociali che hanno segnato la prima metà del 2015 con le proteste nella regione interna di Kasserine e in altre aree del Paese, le ripercussioni sul turismo - settore trainante dell’economia tunisina - a seguito dei passati attacchi terroristici, sono stati i principali driver della performance economica della Tunisia nello scorso anno. Il rapporto annuale 2016 della Banca Mondiale ha registrato una crescita del Pil 2015 dello 0.8% soltanto (in calo rispetto agli anni precedenti), un tasso di disoccupazione al di sopra del 15%, in particolare giovanile, e un debito pubblico che ha raggiunto il 52% del Pil, contro il 40% nel 2010. A preoccupare è soprattutto la mancanza di investimenti, che dovrebbero beneficiare della nuova legge sugli investimenti recentemente adottata dall’Assemblea dei Rappresentanti del Popolo in Tunisi. In particolare, grandi speranze si nutrono attorno alla Conferenza Internazionale degli Investimenti che si terrà a Tunisi a fine novembre, tanto che recentemente il comitato consultivo del partito islamista Ennahda - parte del governo Chahed - ha richiamato all’unità politica per assicurare la riuscita di questa iniziativa economica, intesa come piattaforma fondamentale per il rilancio degli investimenti nazionali ed esteri in tutti i settori e la ripresa più in generale dell’economia. Non mancano posizioni molto critiche sulla natura sbilanciata e l’equilibrio delle relazioni commerciali ed economiche tra la Tunisia e l’Ue, in particolare per quanto riguarda il controverso accordo sul libero scambio. Si pensi, ad esempio, al comunicato congiunto co-firmato a febbraio 2016 da parte di diverse organizzazioni della società civile tunisina - tra cui il sindacato Ugtt e la Lega dei diritti dell’uomo - e francese in occasione del voto del Parlamento europeo sull’apertura dei negoziati per il Dcfta. A suscitare non poche perplessità è la mancanza di un cambiamento nella strategia europea che consenta al Paese nordafricano uno sviluppo sostenibile nel lungo periodo, un approccio che trascura le specificità del tessuto industriale tunisino e la sua competitività con la controparte e limita la libertà dello stato di proteggere gli investimenti in nome della “libera concorrenza”. Giulia Cimini è dottoranda di ricerca in Studi Internazionali presso l'Università degli Studi di Napoli L'Orientale. |
sabato 12 novembre 2016
Una visione africocentrica del Diritto
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Continua lo scacco alla Corte Penale Internazionale, Cpi, da parte degli stati africani. Più volte è stata considerata in seno all’Unione Africana, Ua, l’ipotesi di un “recesso di massa” dallo Statuto di Roma.
Sebbene durante l’ultimo vertice dell’Ua alcuni Paesi tra cui Botswana, Nigeria, Senegal, Costa d’Avorio e Tunisia si siano pubblicamente opposti all'idea, nelle ultime settimane Burundi, Sudafrica e Gambia hanno manifestamente espresso la loro volontà di abbandonare la Corte. In ogni caso, il recesso entrerà in vigore a decorrere da un anno dalla notifica al Segretario Generale delle Nazioni Unite, che ne è depositario in conformità all’art. 127 dello Statuto di Roma. È bene tener presente che a norma dello stesso articolo, il recesso di uno Stato non lo esonera dagli obblighi posti a suo carico quando ne era parte, né compromette qualsiasi cooperazione concordata con la Corte in occasione d’inchieste e procedure penali alle quali lo Stato che recede aveva il dovere di cooperare e iniziate prima della data in cui il recesso è divenuto effettivo. Tale atto di rinuncia non impedisce neppure di continuare a esaminare qualsiasi questione di cui la Corte era già investita prima della data in cui il recesso è divenuto effettivo. Di conseguenza, i crimini che si sono commessi in precedenza alla data della notifica di recesso restano comunque perseguibili. Burundi, Sudafrica e Gambia votano il recesso dallo Statuto di Roma Il Parlamento del Burundi ha votato a favore del recesso dallo Statuto di Roma il 12 ottobre 2016, a poco più di un mese dalla pubblicazione del rapporto della Commissione di Indagine Indipendente delle Nazioni Unite in Burundi (Uniib), il quale registra prove di manifeste violazioni dei diritti umani e la potenziale commissione di crimini contro l’umanità da parte del governo di Bujumbura e degli organi agenti a proprio titolo. Appena una settimana dopo l’approvazione del recesso da parte del parlamento in Burundi, il 19 ottobre 2016, la Repubblica Sudafricana ha notificato al Segretario Generale delle Nazioni Unite la propria volontà di recesso con documento firmato dal Ministro degli Esteri Maite Nkoana-Mashabane. Le prime divergenze tra Sudafrica e Cpi sono nate lo scorso anno, quando Pretoria ha ignorato l’ordinanza d’arresto della Corte nei confronti del presidente sudanese Omar Hassan al-Bashir, accusato di genocidio e crimini di guerra in Darfur. Il governo sudafricano, inoltre, sostiene che l’effettiva implementazione dello Statuto della Cpi del 2002 si ponga in conflitto con le previsioni disposte dal proprio Diplomatic Immunities and Privileges Act n. 37 del 2001, e le sue obbligazioni riguardo alla risoluzione pacifica dei conflitti siano incompatibili con l’interpretazione proposta dalla Corte. Analogamente, a pochi giorni dalla notifica, il governo del Gambia si è schierato a sfavore della Corte, pronunciandosi duramente contro l’attività dell’organo, accusato di essere uno strumento umiliante nei confronti degli africani e il cui mirino è rivolto esclusivamente a questo continente, dislocando l’attenzione da altri episodi criminosi diffusi in diverse aree del globo. “Corte caucasica internazionale” La Cpi è stata perfino definita “Corte caucasica internazionale” alludendo alle ingerenze dei Paesi Occidentali e dei loro interessi negli affari della Corte. In questo clima di tensione sarebbe più che mai opportuno riconsiderare gli equilibri e soprattutto gli squilibri in seno alla Cpi e agli organi da cui discende. La critica non è recente: già in passato gli stati dell’Ua avevano biasimato la parzialità dell’organo, mal tollerando l’elevata concentrazione d’indagini sul territorio africano. Lo scorso settembre, la Procuratrice della Corte penale internazionale Fatou Bensouda ha pubblicato a tal proposito una dichiarazione concernente i parametri di selezione e classificazione dei casi dei quali la Procura è chiamata ad occuparsi. Oltre a chiarire il potere discrezionale dell’ufficio, il documento precisa i parametri che indirizzano la Procura nella scelta dei casi sui quali indagare, tra cui: la gravità dei crimini, il grado di responsabilità e i capi di imputazione in conformità ai principi di indipendenza, imparzialità e obiettività a fondamento dell’attività della Corte. L’ufficio istruttorio ha condotto negli ultimi anni indagini in Uganda; Repubblica Democratica del Congo; Darfur, Sudan; Repubblica Centrafricana, mediante due distinte investigazioni; Kenya; Libia; Costa d’Avorio, Mali e Georgia. La Procura ha altresì indetto indagini preliminari riguardo alle situazioni in Afghanistan; Colombia; Guinea; Iraq/UK; Palestina, Nigeria e Ucraina. Rischio reazione a catena La preoccupazione principale alla luce degli ultimi avvenimenti è che tali episodi possano provocare una reazione a catena, per cui ogni Stato che si trovi in posizione di dissenso con la Corte Internazionale sarebbe portato a notificare l’atto di rinuncia dallo Statuto. Il concreto recesso da parte di uno Stato membro rappresenterebbe un grave passo indietro, specialmente riguardo agli sforzi compiuti in virtù dell’universalità dell’Istituzione. In un momento simile frutterebbe se tutti gli Stati lavorassero congiuntamente, invitando i membri insofferenti a riconsiderare la propria posizione e avviando un nuovo dialogo, per sostenere la Cpi, ma soprattutto assicurarne efficacia e attendibilità per tutelare il sistema di giustizia universale garantito alle vittime di atrocità di massa e contrastare l’impunità innanzi alla brutalità di tali crimini, al di là dei dissapori e i vezzi politici di singoli capi di Stato. Sebbene imperfetta, la Cpi resta uno strumento cruciale di accesso alla giustizia internazionale, essenziale ad assicurare lo stato di diritto e la tutela dei diritti fondamentali per le vittime delle più gravi violazioni di diritto umanitario. Con i suoi 124 stati membri, dal 2002, è il primo organismo giudiziario con giurisdizione internazionale permanente per la persecuzione di genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra; in assenza di corti regionali con giurisdizione penale, è l’unica garanzia giudiziale sovranazionale per chi è vittima di crimini internazionali. Anastasia Buscicchio è assistente di ricerca presso il Budapest Centre for Mass Atrocities Prevention. |
domenica 23 ottobre 2016
Etiopia; difficoltà interne
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All’origine della decisione del governo di Addis Abeba di proclamare, il 9 ottobre, lo stato di emergenza vi sono gli scontri che hanno opposto manifestanti e militari soprattutto nello stato regionale dell’Oromia, ma anche in quello dell’Amhara. Il bilancio complessivo è pesante: molti i morti durante le proteste degli ultimi mesi (almeno 500 secondo alcuni osservatori) e ingenti i danni causati.
Oromo contro i Tigrini? La linea interpretativa prevalente mette all’origine degli scontri esasperate contrapposizioni etniche. In sostanza: una rivolta degli Oromo contro i Tigrini, dato che questi ultimi hanno dato vita all’Ethiopian People's Revolutionary Democratic Front, coalizione che governa l’Etiopia dal 1991, cioè da quando ha sconfitto il regime militare filosovietico del colonnello Menghistu Haile Mariam. Del resto un’analoga linea interpretativa godette di molto credito anche ad inizio degli anni novanta, quando diversi osservatori, riflettendo sulla caduta del regime militare, lo identificarono come espressione dell’egemonia Amhara sul Paese. “Vista” così la policy etiopica, ma più in generale africana, appare abbastanza statica, un susseguirsi di conflitti per l’egemonia e per il potere contrassegnati da dinamiche etniche e tribali. Sul fatto che gli scontri siano stati particolarmente frequenti e cruenti nello stato regionale dell’Oromia non vi sono dubbi, così come non ve ne sono sul fatto che in questo stato regionale risiede circa un terzo della popolazione etiopica, stimata in poco più di 90 milioni di persone. Lo stato regionale copre peraltro territori tra loro molto differenziati, dalla zona pastorale meridionale di Borana, al confine con il Kenya, alle montagne del Bale a sud del fiume Awash. Identificare l’insieme della popolazione di lingua oromo come caratterizzata da un’omogeneità culturale, religiosa, socio-economica è molto complesso e in ultima analisi non corretto. Analogia interpretativa a parte, ci sono però significative differenze con quanto accaduto negli anni novanta. Quando il regime di Menghistu Haile Mariam crollò, non lo fece in seguito ad un’esasperazione del conflitto etnico anti Amhara (per inciso, il regime stesso si caratterizzò anche per una certa propaganda contro questo gruppo linguistico, associato alla precedente dinastia imperiale), ma per l’effetto congiunto di eventi internazionali (il crollo dell’Unione Sovietica in primo luogo) e interni (la strutturale vulnerabilità alimentare del paese e la frequenza e gravità delle carestie). Oggi il contesto è del tutto diverso, sotto i profili istituzionale (l’Etiopia è dal 1995 una repubblica federale), macro economico (il Paese registra una crescita economica del 10,9% nel decennio 2004-2014 senza essere produttore di petrolio ed essendo caratterizzato da almeno due dei fattori che secondo Paul Collier ostacolano lo sviluppo, cioè l’assenza di sbocchi al mare e l’avere ai confini stati fragili e instabili) e demografico. Anche la mappa del Paese è diversa dal 1991, laddove l’Eritrea è a tutti gli effetti, a partire dal referendum celebrato nel 1993, uno stato indipendente. La coesistenza di crescita e povertà estrema Tuttavia una costante rimane: la strutturale esposizione alle carestie. Nel 2015 la carestia, originata da una forma particolarmente violenta del fenomeno El Nino, ha colpito direttamente più di 8,2 milioni di etiopici, traducendosi in insicurezza alimentare o dipendenza per l'approvvigionamento di cibo dal governo o dalle associazioni umanitarie internazionali. È a nostro avviso su questa coesistenza tra crescita e povertà estrema che si deve guardare per capire cosa sta davvero accadendo in Etiopia. Crescono le tensioni parallelamente alle diseguaglianze. La stessa capitale Addis Abeba - che in alcune aree assomiglia ad una moderna metropoli occidentale e in altre si caratterizza per assenza di servizi ed infrastrutture - esprime questa crescente divaricazione. Si innalza la crescita economica, ma si abbassa il livello di coesione sociale e di stabilità. Cooperazione con l’Etiopia, come e perché Un’evoluzione traumatica degli eventi in Etiopia rappresenterebbe un dramma. Per la sua popolazione, in primo luogo, ma anche per la stabilità dell’intera regione. È sufficiente uno sguardo alla carta geografica: Eritrea, Sudan, Sud Sudan, Somalia, Gibuti e Kenya sono i Paesi confinanti. Da alcuni di questi provengono centinaia di migliaia di rifugiati e richiedenti asilo che risiedono nel territorio etiope (nel marzo 2016 i rifugiati e richiedenti asilo in Etiopia ammontano a 735.165 persone, la grande maggioranza delle quali dalla Somalia, dal Sud Sudan e, in misura minore, dall’Eritrea). L’Etiopia va aiutata e sostenuta, con intelligenza e visione. È un ideale e impegnativo banco di prova anche per la nuova architettura della cooperazione italiana, basata su un rafforzato legame tra politica estera, partenariato per lo sviluppo, sostegno a sistemi di governance moderni e democratici. Programmi centrati sul protagonismo delle società civili, internazionale ed etiopica, e sull’inclusione sociale dei gruppi che finora neanche hanno sentito il “profumo” della crescita economica possono segnare una direzione, ispirare correttivi ad un modello di sviluppo oggi caratterizzato da una crescita non sostenibile, perché disattenta nei confronti dei bisogni dei gruppi più vulnerabili, indipendentemente dalla loro base etnica o linguistica. Dialogo sulle politiche economiche e sociali e azione umanitaria e a sostegno dello sviluppo sostenibile: sono i due ideali pilastri di un’incisiva politica di cooperazione con l’Etiopia. Occorre fare in fretta, anche attivando, in Italia, una consultazione strategica tra istituzioni, Ong e imprese presenti nel Paese. Paolo Dieci, Presidente del CISP. |
giovedì 6 ottobre 2016
Marocco: prospettive inquietanti
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Le elezioni politiche marocchine del 7 ottobre potrebbero riconsegnare al Parti de la Justice et du Développement, Pjd, le chiavi dell’esecutivo. Il partito del premier Abdelilah Benkirane ha governato ininterrottamente dal 2011, quando il re convocò le elezioni anticipate per placare il “Movimento 20 febbraio”.
Da allora, i Fratelli musulmani del Marocco (privi però di affiliazione formale con gli Ikhwan) sono divenuti forza di governo: l’unico esempio regionale, insieme a Ennahda in Tunisia, di un Islam politico capace di adattarsi al contesto locale. Slogan contrapposti tra partiti, ma convergenza di fondo sulle policieseconomiche: perché il vero arbitro, in materia politica e religiosa, continua a essere re Mohammed VI. I duellanti Pjd e Pam Per cinque anni, il Pjd ha guidato una coalizione composta da socialisti, centristi, conservatori e, fino al 2013, nazionalisti (Istiqlal). Per superare la frammentazione partitica e scongiurare l’ingovernabilità sarà ancora necessaria una coalizione: la soglia di sbarramento è peraltro scesa al 3%. Il Partito dell’Autenticità e della Modernità, Pam, è oggi il principale sfidante del Pjd: due partiti speculari che sembrano però complementari, poiché capaci, con la loro propaganda, di occupare tutto lo spazio pubblico. I Fratelli marocchini, principale sigla dell’Islam politico, raccolgono voti nei centri urbani: nel 2015, tutte le grandi città del Marocco (Rabat, Casablanca, Tangeri, Fez, Agadir) hanno eletto sindaci del Pjd. Nel Pam, molto vicino alla monarchia e fondato da un consigliere del sovrano nel 2008, si riconoscono invece le aree rurali del paese. Anti-sistema vs anti-islamisti Tra Pjd e Pam c’è una sostanziale convergenza sulle misure economico-sociali da attuare, con il primo più attento alla giustizia sociale e il secondo alla crescita economica. Così, più che sul bilancio dell’esecutivo Benkirane, i due principali partiti stanno duellando su temi-bandiera. Come nella campagna elettorale del 2011, il Pjd insiste nella denuncia delle clientele e della corruzione: tahakoum, ovvero ˊdominioˋ, ˊautoritarismoˋ, è stata la parola più utilizzata dalla Fratellanza durante questa campagna, nonostante i Fratelli marocchini abbiano finora governato evitando di sfidare apertamente il makhzen, il sistema di potere monarchico. Mentre il Pjd continua a porsi come partito anti-sistema, il Pam si focalizza invece sull’identità islamica del Pjd. L’obiettivo è assimilare i Fratelli del Marocco agli altriIkhwan regionali (in primis gli egiziani), per convincere gli elettori della necessità di sostituire l’Islam politico con un progetto ˊmodernistaˋ. I salafiti sono tornati nella competizione elettorale, ma da indipendenti ospitati in liste altre (Pjd e Istiqlal). Non partecipa al voto al-Adl wal-Ihsan (Giustizia e Carità), del defunto shaykh Abdessalam Yassine. La formazione, critica nei confronti del regime marocchino, è però in competizione con i Fratelli per il monopolio sull’Islam politico: tra l’altro, il Pjd conserva un movimento religioso affiliato (haraka) prezioso per la mobilitazione giovanile. Le risorse di Mohammed VI Placate le rivolte di piazza, i principali attori politici marocchini dimostrano, nei fatti, di accettare le regole del gioco imposte da Mohammed VI, vero perno del sistema: tempestività nelle riforme e risorse religiose (oltre che i prestiti sauditi del 2011) rappresentano i veri jolly del sovrano contro manifestazioni e sirene jihadiste interne. Rivendicando discendenza diretta dal Profeta (sharaf), Mohammed VI rinnova costantemente la propria legittimità religiosa, dunque politica, mediante i rituali del potere (baraka, la benedizione e bay’a, il voto d’obbedienza) e il titolo di amir al-mu’minin (capo della comunità dei credenti). L’originalità dell’Islam marocchino, che applica la scuola di giurisprudenza malikita e ha istituzionalizzato il folk Islam sufi, è un altro argine al disordine interno. Guardando alla formazione statuale, la monarchia fu poi protagonista del processo di indipendenza post-coloniale del Marocco (1956). Il 20 agosto, Mohammed VI ha rivendicato in un discorso televisivo alla Nazione il proprio ruolo di guida religiosa: condannando il brutale assassinio di Padre Hamel a Rouen, il sovrano ha incitato la diaspora marocchina a rigettare la violenza jihadista. Dopo gli attentati di Casablanca nel 2003 (45 morti), il re si è intestato una politica religiosa capillare, incentrata sulla formazione degli imam, anche nell’Africa occidentale, secondo i caratteri dell’Islam marocchino. Il Marocco sembra rientrare però nel “modello” di esternalizzazione della violenza già delle monarchie del Golfo. Almeno 1200 marocchini si sono uniti all’autoproclamatosi “stato islamico” comeforeign fighters; secondo uno studio del Real Instituto Elcano di Madrid, il 41% dei detenuti in Spagna per reati legati al sedicente califfato è di nazionalità marocchina, mentre l’énclave di Ceuta è il primo territorio spagnolo per radicalizzazione. In un contesto così scivoloso, la probabile conferma dei Fratelli marocchini può quindi rappresentare un buon risultato anche per la monarchia. Eleonora Ardemagni, analista di relazioni internazionali del Medio Oriente. Gulf Analyst, Nato Defense College Foundation, collaboratrice di Aspenia e Ispi, commentatrice per Avvenire. Autrice di “The Gulf Monarchies’ complex fight against Daesh”, Nato Review, settembre 2016. |
domenica 2 ottobre 2016
ALGERIA: apertura verso i Palestinesi
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Una delegazione di Hamas atterrata ad Algeri per una visita di 6 giorni. È avvenuto a fine agosto, proprio pochi giorni prima che il Vice Presidente dell’ufficio politico del movimento islamista, Abu Marzouk, annunciasse l’apertura di un ufficio di rappresentanza di Hamas in Algeria, nominando Mohammed Othman come capo missione.
Hamas alla ricerca di nuovi sponsor L’apertura della missione di rappresentanza è stata interpretata dalla dirigenza di Hamas come un esplicito riconoscimento del movimento, allargando il suo raggio di azione ed espandendo il numero di attori con cui Hamas intrattiene legami ufficiali. L’annuncio è inoltre servito a rafforzare il ruolo del movimento agli occhi dell’elettorato palestinese. A tal proposito è da sottolineare l’irritazione con cui è stata accolta la notizia in Cisgiordania, dove il portavoce di al-Fatah Osama al-Qawasmi ha ammonito Hamas a non oltrepassare i limiti di competenza, ribadendo che la rappresentanza del popolo palestinese all’estero spetta all’Autorità nazionale palestinese, Anp. Come noto, la rivalità tra Hamas e al-Fatah si è palesata durante le elezioni del 2006, vinte dal movimento di Khaled Meshal. La diatriba elettorale è sfociata in conflitto aperto l’anno successivo, sancendo la divisione territoriale tra la Striscia di Gaza, sotto il controllo di Hamas, e la Cisgiordania, sottoposta al governo dell’Anpe guidato dal Presidente Mahmoud Abbas (Abu Mazen). Successivi tentativi di ricomporre la frattura tra le due entità non sono stati coronati da successo, spingendo la Palestina in un limbo, passato in secondo piano a causa delle sempre più frequenti crisi regionali. Anche l’ultimo tentativo di riconciliazione, che aveva prodotto un compromesso per fissare le elezioni amministrative al prossimo 8 ottobre, è fallito proprio poche settimane dopo l’annuncio di Algeri. In molti hanno visto nella posticipazione delle elezioni l’ennesimo segnale di debolezza della classe dirigente di al-Fatah. Dalla pallamano alle carte geografiche L’annuncio dell’apertura di un ufficio di Hamas ad Algeri ha confermato il sostegno algerino alla causa palestinese. Nelle ultime settimane diversi episodi hanno comprovato questa tradizionale vicinanza. Il 10 settembre, il team algerino di pallamano non ha giocato contro Israele ai Giochi para-olimpici di Rio, adducendo di aver perso il collegamento aereo per il Brasile. Il Comitato para-olimpico internazionale ha però aperto un’inchiesta sulla vicenda, a seguito delle accuse di Israele per il presunto boicottaggio. Maggiori polemiche ha causato la vicenda relativa ai manuali di geografia algerini. La scoperta della presenza di una carta geografica che indicava Israele al posto della Palestina ha costretto il Ministero dell’Educazione ad annunciare il ritiro dei manuali di scuola media, salvo poi sostituire solo la pagina incriminata. La vicenda ha sollevato le critiche di diversi settori della società algerina contro il ministro dell’Educazione Nouria Benghebrit-Remaoun, accusata da tempo di voler ‘occidentalizzare’ la scuola algerina. A criticare maggiormente il ministro sono stati soprattutto gli ambienti islamisti e conservatori, in particolare il Mouvement de la société pour la paix (Msp, precedentemente conosciuto anch’esso come Hamas). Parte dell’Alliance de l’Algérie Verte, coalizione di partiti islamisti moderati che ha conquistato 49 seggi alle ultime elezioni legislative del 2012, il Msp è considerato come l’espressione locale della Fratellanza Musulmana. Viste le comuni radici, è questo il principale beneficiario dell’apertura di un ufficio di rappresentanza di Hamas ad Algeri. A differenza di altri partiti di opposizione, il Msp è infatti intenzionato a partecipare alle prossime elezioni legislative del 2017. In tale contesto l’apertura agli islamisti interni ed esterni da parte di un regime ad essi tradizionalmente avverso come quello algerino potrebbe rispondere non solo al tradizionale sostegno alla causa palestinese, ma anche a ragioni più recondite. Molti osservatori hanno infatti prospettato una possibile cooptazione dell’Msp nell’attuale coalizione di governo, attualmente dominata dall’ex partito unico del Front de Libération National, Fln, e dal Rassemblement Nationale Démocratique, Rnd. L’entrata degli islamisti moderati nella coalizione di governo potrebbe fornire linfa vitale a un regime che, viste le difficoltà interne del Fln (e del suo Segretario generale del Amar Saâdani) e il declino fisico del Presidente Abdelaziz Bouteflika, è in costante ricerca di legittimità e di un successore. L’Algeria, l’Egitto e la supremazia regionale Allo stesso tempo, l’apertura ad Hamas sembra riflettere anche le attuali dinamiche regionali. Accogliendo un ufficio di rappresentanza della principale filiale dei Fratelli Musulmani nella regione, l’Algeria sembra sfidare apertamente l’Egitto. Dopo il colpo di Stato del luglio 2013, il Presidente egiziano Abdel Fatah al-Sisi ha promosso una politica di repressione contro tutti i movimenti islamisti, all’interno e all’esterno del Paese. All’interno la Fratellanza Musulmana è stata definita ufficialmente come un’organizzazione terrorista. All’esterno Hamas, che aveva goduto relazioni privilegiate con il Cairo durante la presidenza di Mohammed Morsi, si è trovata sempre più isolata e costretta a ripiegare su altri partner regionali. Ma l’azione egiziana è andata oltre, in particolare nello scenario libico, dove il Cairo appoggia esplicitamente il generale Khalifa Haftar nella sua offensiva contro i movimenti jihadisti/islamisti presenti in Libia. Al contrario, l’Algeria continua a sostenere il dialogo politico libico e promuove una soluzione condivisa, favorendo implicitamente gli interessi del parlamento di Tripoli prima e del governo di unità nazionale ora. Ne risulta che, nonostante la storica amicizia, il Cairo e Algeri non sono riusciti a coordinarsi né per guidare la transizione libica, né per sostenere la riconciliazione tra le diverse fazioni. Segno di una crescente rivalità tra i due Paesi per la supremazia in Nord Africa. Umberto Profazio è dottore di ricerca in Storia delle Relazioni Internazionali presso l’Università di Roma “Sapienza”, Maghreb Analyst per la Nato Defence College Foundation e Senior Researcher per il Centre for Geopolitics and Security in Realism Studies. Il suo primo e-book “Lo Stato Islamico: origini e sviluppi”, è edito da e-muse. |
giovedì 29 settembre 2016
EGITTO: alla ricerca di aiuti
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lunedì 26 settembre 2016
Libia. Il generale Haftar in Ciadd
Il Capo dell’esercito, generale Khafila Haftar, leale al parlamento di Tobruck, si è
recato il 17 settembre 2016 per poche ore nel Ciad dove dovrebbe aver
incontrato funzionari francesi per informarli sulla attuale crisi petrolifera
in corso in Libia, ovvero l’occupazione da parte delle sue truppe della zona
della mezzaluna petrolifera, In Ciad, Haftar ha incontrato il figlio del
presidente ciadiano Sahba Zakkaria Deby,
e, come detto, alcuni funzionari francesi, ai quali ha spiegato i particolari
della operazione condotta con successo contro le milizie, fedeli a Tripoli,
comandate da Ibrahim Jadhran e le sue guardie petrolifere.
18.9.2016
Massimo Coltrinari
Libia. Azioni conro Ls
Le Milizie di Misurata, che stanno da giorni assediando
Sirte, hanno riferito che L’Is , riprendendo fonti tribali, i Jihadisti stanno
progettando le operazioni di sgombero da
Sirte, e miliziani sempre dell’Is sono stati avvistati nelle valli a sud della
città. Sempre citando fonti locali, si apprende che un dignitario di una tribù
locale ha affermato che L’Is sta organizzandosi per evacuare la città. A Sirte
i miliziani dell’Is sono presenti in alcuni quartieri. La situazione militare a
Sirte vede le milizie progredire, sostenute dalla aviazione statunitense che continua a bombardare le posizioni
Jiadiste. Dal 1 agosto i rai aerei, a supporto delle milizie libiche fedeli a
tripoli, sono state 150.
Le Milizie di Misurata
avevano qualche giorno prima esposto al presidente Al Sarray il loro
netto rifiuto ad entrare in conflitto con le truppe del gen. Haftar per
difendere la Mezzaluna petrolifera, dichiarandosi neutrali nel conflitto tra
l’esercito di Haftar e le guardie petrolifere di Ibraim Jadhran
Ripresi i combattimenti la mattina del 18 settembre, nel
corso degli scontri sono stati uccisi due importanti leader dell’Is Hassan Al
Kirrami e Walid Al Furjani, hanno portato le Milizie di Misurata a restringere
i combattenti del’Is in un area di ristretta nel centro di Sirte.
Mohamed al Ghasri, portavoce delle Milizie di Misurata, ha
dichiarato che “ ci stiamo dirigendo verso il distretto costiero di Jizah per eliminare
gli ultimi terroristi, dopo sarà il truno del distretto 600. I militanti del Is
sono confinati in un area inferiore a un chilometro quadrato: la lor ultima osa
sta per scoccare”.
domenica 25 settembre 2016
Libia: incontri al Cairo
Il presidente designato del Governo di accordo nazionale
libico Fayer Al Sarray è al Cairo per una serie di colloqui internazionali; tra
questi è previsto un incontro con il Presidente della Camera dei rappresentanti
il parlamento libero do Tobruck, Aqila Saleh. Tema dell’incontro la discussione
sulla lista dei ministri del nuovo esecutivo dopo che lo scorso mese la Camera
dei rappresentanti di Tobruck ha negato la fiducia al Governo di Tripoli. Sarà
presente anche il rappresentate dell’ONU per la Libia, martin Kobler. Al Sarray
incontra anche alcuni esponenti del Governo del Cairo che sostiene il
parlamento di Tobruck, al quale chiederà maggiori garanzie ai principali
sostenitori del generale Khafila Haftar.
Al Sarray ha anche incontrato il Capo di Stato Maggiore dell’Esercito
egiziano ed incaricato di seguire la crisi libica, gen. Mohammed Hijazi, con
cui ha discusso doverse questioni in
particolare la formazione del nuovo governo di riconciliazione nazionale da
presentare al vaglio del parlamento di Tobruck. L’Egitto avrebbe prposto al
premier Al Sarray di scegliere come Ministro della Difesa uno tra i nomi di due ufficiali libici Joma
Al Marafi, ex responsabile della sicurezza di Gheddafi e Osama l MArafi ec
ministro della difesa del governo di Alì Zeidan
17.9.2016
Massimo Coltrinari
Libia: La National Oil Company entra in possesso dei terminal petroliferi
I Terminal della mezzaluna petrolifera libica sono entrati
in possesso della National Oil Corporation, la compagnia nazionale libica
secondo le promesse del generale Haftar, che il 13/14 settembre li aveva
occupati, sottraendoli al controllo delle milizie fedeli a Tripoli.
La transizione ha evitato l’innesco di una pericolosa crisi,
che avrebbe potuto degenerare in una devastante guerra civile incontrollata.
La National Oil Cooperation ha concordato che su tutti i
pozzi ed i terminal è terminato lo stato di forza maggiore; le esportazioni
ripenderanno subito, appena terminati i colloqui con gli acquirenti
internazionali. La sicurezza dei siti, però, rimane in mano alle Milizie di
Tobrick, che di fatto hanno sottratto questa importante fonte di ricchezza a
Tripoli. La National Oil Company, in una nota, sottolinea che, secondo gli
accordi di Cipro, riconosce il Governo di Tripoli come la più alta autorità
esecutiva e quello di Tobruck come la più alta autorità legislativa.
A latere si è appreso che un primo cargo di petrolio sarà
esportato da Zuetina e sono stati stoccati a partire dal 18 settembre 20.000
barili al giorno. Miftah Maqreef, nuovo capo delle Autorità delle Guardie delle
installazioni petrolifere ha inviato un appello a tutti gli appartenenti alle
milizie legate a Tripoli di unirsi alle
milizie capitanate dal generale Ibrahim Jadhran, e presentarsi a lui in nome
dell’unità nazionale.
18.9.2016
Massimo Coltrinari
venerdì 23 settembre 2016
Il Grande Dilemma 2°
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La tragica fine di James Foley, rapito dai guerriglieri dell’Isil (Islamic State in Iraq and the Levant) ha riproposto il tema del pagamento dei riscatti per salvare la vita degli ostaggi.
A quanto risulta, gli Stati Uniti non avevano aderito alla richiesta di pagamento ed avevano tentato di liberare Foley ed altri prigionieri mediante un blitz, non andato a buon fine. Altre persone sono tenute in ostaggio, tra cui taluni italiani, come le due cooperanti rapite in Siria. Vi sono pro e contro il pagamento dei riscatti. A favore, si possono invocare motivazioni umanitarie: il pagamento consente di salvare una vita umana. Contro, militano ragioni di opportunità e motivazioni politiche: il pagamento finisce per alimentare l’industria dei riscatti ed incoraggia nuovi rapimenti, innescando un circolo vizioso; inoltre i riscatti costituiscono una delle fonti di finanziamento dei gruppi terroristici. La questione del rapimento di persone a scopo di riscatto, noto fenomeno della criminalità organizzata, ha assunto un rilievo politico di portata internazionale con il ritorno della pirateria e le azioni di cui si sono resi protagonisti gruppi insurrezionali (tra cui l’Isil, ma non solo), che adottano il terrorismo come metodo di combattimento. A fronte di tali fenomeni manca una risposta unitaria non solo della comunità internazionale, ma anche della sua componente occidentale. La pirateria La pirateria è diminuita, grazie alla presenza ed al coordinamento delle flotte nei mari in cui è praticata e all’imbarco di scorte armate sui mercantili, ma non è stata definitivamente sconfitta. I moderni pirati catturano i mercantili e chiedono un cospicuo riscatto per la liberazione della nave e dell’equipaggio. L’armatore è costretto a pagare e si copre contro il rischio pirateria con apposite polizze assicurative che vengono stipulate in paesi dove non esiste una legislazione proibitiva. A quanto pare all’armatore conviene pagare il premio all’assicurazione, piuttosto che seguire rotte non infestate da pirati (ad es. entrare in Mediterraneo attraverso il Canale di Suez, piuttosto che fare il periplo dell’Africa attraverso la rotta del Capo di Buona Speranza). La pratica è normalmente accettata ed una Corte d’Appello inglese ne ha riconosciuto nel 2011 la liceità confermando la validità di un contratto di assicurazione che prevedeva il pagamento del riscatto. Le iniziative finora messe in campo riguardano la tracciabilità del riscatto, di regola pagato in contanti con sistemi rocamboleschi, senza andare alla radice del fenomeno imponendo una legislazione proibitiva. Movimenti insurrezionali La presa di ostaggi è proibita dal diritto internazionale umanitario, ma i movimenti insurrezionali non vanno tanto per il sottile e l’ostaggio è merce di scambio per ottenere la liberazione di prigionieri e /o avere un riscatto. Si tratta di pratica ben collaudata ed attuata prima che dall’ISIL dai Talebani in Afghanistan e in altri teatri. Quanto all’Isil, la presa di ostaggi ed il riscatto costituiscono una delle fonti di finanziamento, accanto alle altre, come l’imposizione di esazioni e la vendita di petrolio. Stando ad autorevoli fonti giornalistiche, Regno Unito e Stati Uniti non pagano nessun riscatto. Al contrario, gli altri occidentali, inclusa l’Italia, non sarebbero alieni dal farlo, quantunque venga di solito negato che alcunché sia stato versato. L’assenza di una legislazione internazionale Non esiste una legislazione internazionale che vieti il pagamento dei riscatti. Sono state adottate convenzioni contro la presa di ostaggi, come quella del 1973 a tutela delle persone internazionalmente protette, in particolare i diplomatici, o quella di portata più generale, come la Convenzione del 1979 contro la presa di ostaggi. Ma tali convenzioni non riguardano specificatamente il pagamento del riscatto e dispongono solo misure volte a prevenire il fenomeno e la punizione dei responsabili. Si potrebbe solo argomentare che il pagamento del riscatto integra una condotta (proibita) di finanziamento al terrorismo internazionale, ma si tratta di argomentazione che viene spesso vanificata invocando motivazioni di tipo umanitario, cioè la salvaguardia della vita dell’ostaggio, che assume valore preminente. Le iniziative in corso Il fenomeno, che nel gergo ha assunto il nome di Kidnapping for Ransom (Kfr), ha ormai assunto una tale entità da non poter più essere lasciato senza regolamentazione alcuna. Il Financial Action Task Force (Fatf), istituito nel 1989 dall’allora G7, si occupa piuttosto di lavaggio del denaro e di individuazione delle fonti del finanziamento al terrorismo. Il Global Counterterrorism Forum (Gctf), creato su iniziativa degli Stati Uniti nel 2011 e che annovera tra i fondatori non solo 29 stati ma anche l’Unione Europea (Ue), ha adottato nella riunione di Algeri (2012) un Memorandum che contiene talune linee guida ed esempi di “buone pratiche”, quali l’impedire che le organizzazioni terroristiche possano beneficiare delle risorse finanziarie ottenute con il pagamento dei riscatti e l’invito ai governi di entrare in contatto con le compagnie di assicurazione per spiegare la pericolosità della stipulazione di polizze che prevedano il pagamento dei riscatti. Su iniziativa del Premier britannico David Cameron, il G8 del 18 giugno 2013 ha rilasciato uno statement con cui i membri “rigettano inequivocabilmente il pagamento del riscatto ai terroristi” e fanno appello a tutti i paesi e alle società commerciali di seguire questa impostazione. Della questione si è occupato anche il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite (Cds). Di rilievo sono le risoluzioni adottate nel 2014, tra cui la 2133 che fa appello agli stati di evitare il pagamento dei riscatti e soprattutto la 2170, adottata il 15 agosto, che sul punto contiene specifiche disposizioni sia nella parte preambolare che nel dispositivo. Anche il Consiglio dell’Ue si è espresso sul punto (Council Conclusions on Kidnap for Ransom, 23 giugno 2014). Il Consiglio condanna la presa di ostaggi allo scopo di ottenere un riscatto e “inequivocabilmente” rigetta il pagamento del riscatto e le concessioni politiche ai terroristi. È necessario un protocollo ad hoc Nonostante i buoni propositi e il linguaggio aulico di talune proclamazioni, mancano iniziative concrete e una coesione in grado di porre fine o almeno contenere il fenomeno, come dimostra la differente condotta degli occidentali. Le risoluzioni adottate sono spesso delle linee guida, lasciate alla buona volontà dei governi, oppure prescrizioni molto contorte che ne diluiscono la cogenza. Come si è accennato, la comunità internazionale si è dotata di una Convenzione contro la presa di ostaggi. È ragionevole proporre un Protocollo aggiuntivo, che disciplini in modo esaustivo la questione della proibizione del pagamento del riscatto per la liberazione degli ostaggi. L’Ue e i suoi stati membri potrebbero prendere l’iniziativa in sede di Nazioni Unite. Un’occasione per la Presidenza italiana dell’Ue? Natalino Ronzitti è professore emerito di Diritto internazionale (LUISS Guido Carli) e Consigliere scientifico dello IAI. | ||||||||
Il Grande Dilemma
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