lunedì 17 marzo 2014
Nigeria: rivoluzione ai vertici
Il 10 febbraio il Presidente nigeriano Goodluck Jonathan ha rimosso il suo capo di gabinetto, Mike Oghiadomhe. La notizia fa seguito alla nomina di 12 nuovi ministri avvenuta alla fine dello scorso mese, ma soprattutto alla sostituzione dei vertici delle Forze Armate, compreso il Capo di Stato Maggiore della Difesa, Ammiraglio Ola Ibrahim. Tale massiccio rimpasto governativo e dei vertici militari rappresenta la prima risposta di Jonathan alla crisi che ha colpito la propria amministrazione negli ultimi due mesi e che ha avuto una delle manifestazioni più evidenti nel passaggio all’opposizione di decine di parlamentari del PDP (People Democratic Party), il partito di governo a cui appartiene il Presidente. La crisi istituzionale nigeriana è iniziata quando Jonathan, cristiano di etnia Igbo, ha annunciato la volontà di ricandidarsi alle elezioni presidenziali del 2015, rompendo la tradizionale consuetudine di alternanza tra Presidenti musulm! ani, generalmente appartenenti all’etnia settentrionale degli Hausa-Fulani, e Presidenti cristiani, espressione delle etnie meridionali degli Yoruba e degli Igbo. Per riuscire nel suo intento, l’attuale Presidente avrà bisogno di una solida e ampia base di consensi nonché dell’appoggio dell’Esercito, organo dello Stato dominato dalle etnie settentrionali di religione islamica. In questo senso, la ridistribuzione delle cariche militari e ministeriali potrebbe rappresentare il primo passo verso la costruzione di un bacino di consensi funzionale ad appoggiare Jonathan alle prossime elezioni. Tuttavia, una simile azione, che ha già suscitato vive proteste negli ambienti politici e militari Hausa-Fulani e islamici, potrebbe ulteriormente radicalizzare e polarizzare il confronto tra le diverse comunità etnico-religiose del Paese, la cui convivenza e i cui rapporti sono già messi a dura prova dalle attività terroristiche da parte dei gruppi di ispirazione qaedista Boko ! Haram e Ansaru.
Fonte CESI
sabato 15 marzo 2014
Libia: ancora sempre più ingovernabile
L’11 marzo, il Primo Ministro Ali Zeidan è stato sfiduciato dal Congresso Generale del Popolo di Tripoli (Parlamento libico) e sostituito con il Ministro della Difesa, Abdullah Al-Thani, che dovrebbe rimanere in carica per le prossime due settimane, fino alla nomina del nuovo Premier.
Il voto del Parlamento è stato notevolmente influenzato dalla cattiva gestione del caso della petroliera nordcoreana Morning Glory. La nave, nonostante non fosse autorizzata a salpare, ha forzato il blocco della guardia costiera libica ed ha lasciato illegalmente il porto di Es Sider, nell’est del Paese. La Morning Glory era carica di petrolio estratto irregolarmente dalle milizie autonomiste della Cirenaica, che da alcuni mesi gestiscono la produzione e la commercializzazione del greggio nelle regioni orientali del Paese. Tali gruppi armati non riconoscono l’autorità di Tripoli e hanno instaurato, sin dalla caduta del regime di Gheddafi, il controll! o e l’amministrazione diretta del territorio e delle risorse petrolifere cirenaiche. Tuttavia, al di là del caso specifico della petroliera nordcoreana, il governo di Zeidan era soggetto a forti critiche a causa dell’incapacità di attuare misure efficaci per la stabilizzazione del Paese. Infatti, a distanza di tre anni dalla fine della guerra civile, la Libia non ha istituzioni politiche generalmente riconosciute e forze di sicurezza in grado di garantire il controllo del territorio. A questo si aggiunge che il Paese è in balia di milizie tribali e formazioni di ispirazione jihadista con legami qaedisti entrambi collusi con i network criminali che gestiscono i traffici illeciti rivolti verso sia l’Europa che l’Africa.
Il voto del Parlamento è stato notevolmente influenzato dalla cattiva gestione del caso della petroliera nordcoreana Morning Glory. La nave, nonostante non fosse autorizzata a salpare, ha forzato il blocco della guardia costiera libica ed ha lasciato illegalmente il porto di Es Sider, nell’est del Paese. La Morning Glory era carica di petrolio estratto irregolarmente dalle milizie autonomiste della Cirenaica, che da alcuni mesi gestiscono la produzione e la commercializzazione del greggio nelle regioni orientali del Paese. Tali gruppi armati non riconoscono l’autorità di Tripoli e hanno instaurato, sin dalla caduta del regime di Gheddafi, il controll! o e l’amministrazione diretta del territorio e delle risorse petrolifere cirenaiche. Tuttavia, al di là del caso specifico della petroliera nordcoreana, il governo di Zeidan era soggetto a forti critiche a causa dell’incapacità di attuare misure efficaci per la stabilizzazione del Paese. Infatti, a distanza di tre anni dalla fine della guerra civile, la Libia non ha istituzioni politiche generalmente riconosciute e forze di sicurezza in grado di garantire il controllo del territorio. A questo si aggiunge che il Paese è in balia di milizie tribali e formazioni di ispirazione jihadista con legami qaedisti entrambi collusi con i network criminali che gestiscono i traffici illeciti rivolti verso sia l’Europa che l’Africa.
Fonte CESI
mercoledì 12 marzo 2014
Nigeria: attività di Boko Haram
Gli
attentati della setta islamica salafita Boko Haram continuano a
destabilizzare le regioni settentrionali della Nigeria. Da sabato 1
marzo, infatti, sono stati quattro gli attacchi portati a termine dal
gruppo nello Stato del Borno: due, nella sola giornata di sabato, contro
la città di Maiduguri e il vicino villaggio di Mainok e, nei giorni
successivi, contro la città di Mafa e il villaggio di Jakana. Il
bilancio finale è stato di circa 176 vittime. Il perdurare
dell’instabilità legata alle violenze di Boko Haram mette in evidenza la
mancanza di una strategia anti-terrorismo da parte del governo.
Nonostante i raid aerei compiuti dalle Forze Armate nei giorni scorsi
contro alcune istallazioni e campi di addestramento del gruppo nello
Stato di Yobe, infatti, i governatori delle regioni settentrionali
continuano a lamentare il comportamento poco professionale dei militari,
che difronte ai raid bokoharamisti sono scappati senza opporre alc!
una resistenza. In questo contesto, aumenta inevitabilmente la pressione
sul governo del Presidente Goodluck Jonathan, i cui sforzi per arginare
la crisi di sicurezza nel Paese non hanno fino ad ora prodotto alcun
risultato. Il recente cambio dei vertici delle Forze Armate, deciso da
Jonathan il mese scorso, infatti, sembra essere legato non tanto alla
definizione di una strategia di difesa più efficace contro la minaccia
terroristica quanto all’intento di garantirsi il sostegno dell’Esercito
in vista delle elezioni politiche del 2015
Algeria:Abdelaziz Bouteflika to seek fourth term
Algeria's
president, Abdelaziz Bouteflika, will stand for a fourth term in the
forthcoming elections on April 17th, according to a statement by the
prime minister, Abdelmalek Sellal, on February 22nd. Although
Mr Bouteflika's win is all but certain, his ill-health means that his
re-election will do little to mute the succession debate. Mr Sellal is
well placed to take over after the ageing president, but an increasingly
fragmented political scene poses threats to stability in the longer
term.
Mr Bouteflika had decided to stand owing to the "insistence of the representatives of the 46 municipalities" visited by the prime minister, said Mr Sellal in a press conference on the margins of a ceremony to mark the opening of the African conference on green energy. The president had "given his all" for Algeria "and would continue to give even more", said Mr Sellal. The interests of the country in terms of "stability and development" came "before everything else", he added. Later the same day Mr Bouteflika submitted his letter of intention to stand to the Ministry of the Interior, and acquired the forms necessary for the collection of the 60,000 signatures across at least 25 municipalities needed to qualify for candidacy in the elections.
But the decision leaves unanswered all of the troubling questions that have ultimately led the regime to default to a decision to stand behind a sick man as the country's leader for the next five years. Most prominent among them is who will succeed Mr Bouteflika in the event of the death of the president, who will be 77 by the time of the election, and has now been in a consistent state of ill health for almost a year. The government has made it clear that as part of a long-planned programme of constitutional revisions it plans to create a position of vice-president, the duties of which will include the leadership of the country in the event of the president's death or sudden incapacity. But just as the regime failed to reach a consensus over an alternative to Mr Bouteflika in the presidential race, it is likely that reaching agreement over the identity of the first vice-president will also be a difficult process.
There has been speculation that the first holder of the post will be the person who runs the president's re-election campaign. On the evidence so far, it appears that this is likely to be Mr Sellal. But the opacity that has surrounded the negotiations over the regime's preferred presidential candidate in recent weeks and months is likely to be replicated in the coming weeks and months when a decision is made as to the identity of the first vice-president. This lack of clarity, coupled with the serious ill-health of the president, increases political risk in the short term, and means that stability in the longer term remains in question.
Mr Bouteflika had decided to stand owing to the "insistence of the representatives of the 46 municipalities" visited by the prime minister, said Mr Sellal in a press conference on the margins of a ceremony to mark the opening of the African conference on green energy. The president had "given his all" for Algeria "and would continue to give even more", said Mr Sellal. The interests of the country in terms of "stability and development" came "before everything else", he added. Later the same day Mr Bouteflika submitted his letter of intention to stand to the Ministry of the Interior, and acquired the forms necessary for the collection of the 60,000 signatures across at least 25 municipalities needed to qualify for candidacy in the elections.
Too ill to rule?
After months of speculation, the decision that Mr Bouteflika will
stand is not a surprise but nor had it been taken for granted. The
president is in poor health, and has not made any public appearances
since his return from two months in a Paris hospital between April and
June last year for what was described at the time as a minor stroke. He
has appeared on television, but looked extremely frail, and with no
speech recorded. In one broadcast of a meeting between Mr Bouteflika and
the French prime minster, Jean‑Marc Ayrault, a hand movement made by
the president was repeated several times in an effort to make him look
more animated. The fact that Mr Bouteflika's candidacy was announced by
the prime minister will not have helped to reverse the image of a man
incapable of carrying out his duties.
Fragmenting political scene
It seems that for the regime Mr Bouteflika is the least bad
candidate. Fissures are opening up across Algerian politics, with
apparent divisions between the Bouteflika clan and the powerful state
security service, the Département du renseignment et de la sécurité, and
a split within the largest political party, the Front de libération
nationale (FLN). The triumvirate between the FLN, the Rassemblement
national démocratique (RND) and the Mouvement de la société pour la
paix (MSP) that was the foundation of Mr Bouteflika's government for
much of his 15 years in power has collapsed. The RND, whose leader left
his post in January under pressure from party members, is weakened and
appears to have been sidelined by the FLN, and the MSP has quit the
ruling alliance and has now announced its intention to boycott the
presidential election. Add to this a terrorist attack on the major gas
facility of In Amenas in January 2013 and sectarian troubles in the town
of Ghardaia, as well as a long list of unpopular alternatives to the
incumbent president, and there were few indications that this was a
propitious time for a change in leadership in Algeria.
Bouteflika set to win but succession issue looms large
It can now be assumed that Mr Bouteflika will win a landslide
majority in the forthcoming poll. More than 100 candidates have
announced their intention to run for the presidency, but many of them
are likely to withdraw their candidacy rather than challenge the
president and the machinery of state that will be mobilised behind his
campaign. This, together with a lack of strong challengers and an
electoral process skewed in favour of the regime, means that we expect
Mr Bouteflika to win re-election.But the decision leaves unanswered all of the troubling questions that have ultimately led the regime to default to a decision to stand behind a sick man as the country's leader for the next five years. Most prominent among them is who will succeed Mr Bouteflika in the event of the death of the president, who will be 77 by the time of the election, and has now been in a consistent state of ill health for almost a year. The government has made it clear that as part of a long-planned programme of constitutional revisions it plans to create a position of vice-president, the duties of which will include the leadership of the country in the event of the president's death or sudden incapacity. But just as the regime failed to reach a consensus over an alternative to Mr Bouteflika in the presidential race, it is likely that reaching agreement over the identity of the first vice-president will also be a difficult process.
There has been speculation that the first holder of the post will be the person who runs the president's re-election campaign. On the evidence so far, it appears that this is likely to be Mr Sellal. But the opacity that has surrounded the negotiations over the regime's preferred presidential candidate in recent weeks and months is likely to be replicated in the coming weeks and months when a decision is made as to the identity of the first vice-president. This lack of clarity, coupled with the serious ill-health of the president, increases political risk in the short term, and means that stability in the longer term remains in question.
Economist Intelligence Unit
Source: The Economist Intelligence Unit
venerdì 7 marzo 2014
Marocco: il caso delle miniere di IMIDER
La resistenza berbera
in Marocco tra identità culturale ed accesso alle risorse: il caso della
miniera di Imider
“Imazighen”,
il termine che i berberi utilizzano per autodefinirsi, significa “uomini liberi”.
Essi vivono in Nord Africa, tra Marocco, Algeria, Tunisia, Libia, Egitto, ma
anche Mali, Mauritania e Niger. E’ soprattutto il Marocco ad ospitare una vasta
“minoranza” berbera, che sfiora gli 11 milioni, circa il 40% della popolazione
totale.
I
berberi marocchini possono essere divisi in tre gruppi principali, ognuno dei
quali parla un dialetto differente: i Riffiani nella regione settentrionale del
Rif, i Chleuh a sud-est e gli Imazighen nella porzione centrale. Popolano
questi territori fin dall’antichità, eppure si trovano ad essere stranieri
nella loro stessa terra. Nonostante rappresentino un gruppo etnico consistente,
infatti, l’identità culturale berbera è sempre stata soffocata dalle autorità
locali, che per decenni hanno promosso politiche di arabizzazione forzata e di negazione
della specificità amazigh. Soltanto
nel 2011, in seguito all’ondata di proteste della cosiddetta “Primavera Araba”,
il re Mohammed VI ha modificato la Costituzione introducendo il riconoscimento
ufficiale del tamazight come lingua
di Stato accanto all’arabo. Si è trattato un momento storico, poiché è la prima
volta che uno Stato nordafricano riconosce questo status ad una lingua
autoctona diversa dall’arabo. La revisione costituzionale è arrivata dopo il
larghissimo consenso espresso dalla popolazione nel referendum popolare, con il
98,7% delle preferenze a favore dell’introduzione del riconoscimento del tamazight e un’affluenza alle urne del
73%. Vi sono tuttavia sospetti che il risultato sia stato gonfiato per rafforzare
la figura del re come garante della democrazia e che sia stato funzionale
nell’ambito di quei ritocchi cosmetici al sistema politico che potessero
evitare gli sconvolgimenti violenti che hanno invece interessato Tunisia, Libia
ed Egitto. L’introduzione del riconoscimento a livello costituzionale, inoltre,
non ha implicato automaticamente la libertà di utilizzo della lingua, ma ha
rimandato alle leggi ordinarie le modalità dell’integrazione del tamazight nella struttura culturale e
sociale del Paese.
Qualcosa,
in effetti, sta cambiando: il 4 giugno 2013, per la prima volta nella storia,
un ministro ha parlato in berbero in Parlamento. La discriminazione, tuttavia,
rimane ancora radicata e se sul piano culturale sono stati concessi diversi
spazi agli Imazighen – come radio, giornali e l’insegnamento nelle scuole nei
dialetti locali – dal punto di vista politico ogni attività viene stroncata sul
nascere. Ne è un esempio, nel 2005, il tentativo di fondare un movimento politico
a sostegno dell’identità berbera, il loro Partito democratico amazigh marocchino (PDAM), che è stato
dichiarato fuorilegge dal ministero degli Interni nel 2007 e poi dissolto
secondo la legge che ancora oggi vieta in Marocco la formazione di partiti su
base etnica.
Con
l’intensificarsi delle proteste contro i regimi dittatoriali del Nord Africa,
anche i berberi marocchini hanno aderito al Movimento “20 febbraio”, che
raggruppa i contestatori della monarchia di Mohammed VI, subendo un’ulteriore
repressione. Nelle concitate vicende arabe, la questione berbera è stata ben
presto dimenticata. Eppure le richieste non sono diverse: diritto all’identità
culturale e dignità attraverso il lavoro. Oltre alla questione culturale e
politica, gli Imazighen subiscono, infatti, una vera e propria
marginalizzazione economica. Il caso della miniera di Imider nell’Alto Atlante,
a circa 200 km a nord-est di Ouarzazate, è esemplare. Qui, in cima al monte
Alebban, gli abitanti protestano dall’agosto del 2011 contro la Société métallurgique
d’Imider (SMI), che estrae argento dalla miniera locale, bloccando
l’approvvigionamento idrico dei sette villaggi circostanti, inquinando
l’ambiente e non consentendo lo sviluppo della popolazione del posto.
La
holding ONA- SNI, di proprietà reale e fondatrice della SMI, sfrutta il
territorio impoverendo la falda freatica e scaricando liquidi contaminati nel
terreno, devastando di conseguenza l’agricoltura e l’allevamento locali, oltre
a costituire un serio pericolo per la salute degli abitanti. Per consentire
l’estrazione intensiva del metallo, inoltre, ai villaggi vengono razionati, se
non addirittura tagliati, i rifornimenti d’acqua. Secondo uno studio realizzato
dal gabinetto Innovar per il comune di Imider, la fornitura d'acqua nella
regione ha registrato una forte flessione tra il giugno 2004 e l'agosto del
2005, con una regressione in certi casi del 60%; ciò è avvenuto in concomitanza
allo scavo da parte della SMI del nuovo pozzo di Tidsa, che rifornisce d’acqua
la miniera d’argento. La filiale locale della holding reale ha tuttavia negato
che vi sia qualsiasi collegamento tra l’interruzione della fornitura d’acqua e
lo sfruttamento della miniera e attribuendo la colpa all’endemica siccità della
regione.
Stanchi
di questa insostenibile situazione, gli abitanti del villaggio hanno deciso nel
2011 di occupare il monte dove si trova la principale stazione di pompaggio
dell’acqua, indispensabile per l’estrazione dell’argento, bloccando lo “château
d'eau” per reindirizzare l’acqua verso le case e causando una perdita di
produttività della miniera del 40% .
Il
trattamento dell’argento, inoltre, richiede l’utilizzo di prodotti tossici, in
particolare cianuro e mercurio, che inquinano irreparabilmente il terreno. La
legislazione in vigore in materia ambientale, risalente al 1951, non impone tuttavia
alcun obbligo alle società che sfruttano le risorse del sottosuolo.
L’indignazione,
oltre che per il blocco delle risorse idriche e l’inquinamento ambientale, è
anche per la violazione degli accordi sulle assunzioni nella miniera, che,
nonostante rappresenti una delle più produttive di tutta l’Africa e la settima
al mondo, non ha comportato alcun miglioramento nelle condizioni di vita degli
abitanti di Imider. Nel 2010 la
SMI ha fatturato 74 milioni di euro: ma questa ricchezza non
ha minimamente contribuito allo sviluppo di Imider. Qui, infatti, non ci sono
strade, scuole, ospedali, manca l’elettricità e internet è un miraggio. Nei sette
villaggi intorno alla miniera, la povertà raggiunge la quota del 19%, contro
una media nazionale del 9%. Il centro più vicino dove poter usufruire dei
servizi essenziali si trova a Ouarzazate, a circa 200 km di distanza. Soltanto
il 14% degli Imazighen locali lavorano nella miniera, mentre i proprietari
negano ai giovani – spesso di ritorno dalle università nelle altre città del
Regno – persino un lavoro stagionale per pagarsi gli studi. Si tratta di una
palese violazione degli accordi conclusi tra la SMI e i rappresentanti della tribù berbera degli
Ait Hdiddous nel 1969, rinnovati nel 2004 e nel 2010, che fissano al 75% la
soglia di impiego riservata ai locali.
L’aumento
della disoccupazione, oltre alla distruzione dei raccolti e la compromissione
dell’allevamento, ha fatto rifiorire la “primavera berbera”, guidata dal
Movimento sulla strada del ’96, Amussu:
xf ubrid in tamazight.
Se
in passato le autorità locali non hanno esitato a rispondere con forza alle
proteste, reprimendo le manifestazioni, oggi la monarchia è più prudente e
vuole evitare di usare il pugno duro per non rischiare di fomentare una rivolta
generale nel Paese. Alle “maniere forti” Mohammed VI ha preferito azioni meno
eclatanti, con l’arresto di alcuni attivisti e il blocco dell’informazione. Il
tentativo di fiaccare i dissidenti è finora fallito, anzi, le fila della
protesta continuano ad ingrossarsi, mentre la comunità di circa settemila
persone si stringe intorno alla causa comune, rievocando il passato glorioso
dei loro fieri antenati che hanno resistito alla colonizzazione francese.
Stavolta, tuttavia, non lottano per l’indipendenza, ma per qualcosa di più
importante: la dignità.
Fabiana Urbani
giovedì 6 marzo 2014
Libia: la volontà di risalire
Conferenza Amici della Libia A Roma per uscire dal pantano libico Roberto Aliboni 03/03/2014 |
A circa due anni e mezzo dalla Dichiarazione di Liberazione della Libia (23 ottobre 2011) questo paese appare sempre più nell’impasse: la tensione fra le varie forze rivoluzionarie e l’elite conservatrice - che si è rigenerata nel partito dell’Alleanza delle forze nazionali e ha preso le redini del governo con Ali Zeidan - si traduce in scontri e conflitti che impediscono alla Libia di andare verso una qualsiasi normalizzazione.
D’altra parte, sia le forze rivoluzionarie sia quelle conservatrici sono estremamente frammentate e diversificate, per cui la tensione centrale che attraversa il paese difficilmente può tradursi in uno scontro risolutivo come pure in un compromesso fra i due schieramenti a livello nazionale.
Assemblea costituente
La cronaca degli ultimi dieci giorni testimonia un acuirsi delle tensioni in Libia. Da una parte, quasi inosservate a livello internazionale, si sono svolte le elezioni della Commissione per la redazione della Costituzione che si sono palesate un fiasco: vi hanno partecipato circa 500 mila elettori su 3,4 milioni di aventi diritto. Dall’altra, le milizie della città di Zintan, vicine all’Alleanza delle forze nazionali, hanno intimato al Congresso nazionale generale di sciogliersi, accusandolo di inettitudine e di essere dominato dal partito del Fratelli Musulmani.
A fronte di questi sviluppi, le milizie di Misurata hanno annunciato un loro intervento in appoggio ai Fratelli e al Congresso. Mentre scriviamo, le milizie di Zintan sono accampate nei pressi dell’edificio del Congresso a Tripoli e con una sparatoria hanno persuaso i deputati a svuotare il Congresso.
La Commissione elettorale nazionale ha espresso l’intenzione di tenere un secondo round per l’elezione della Commissione costituzionale, ma si tratterebbe di una mossa che potrebbe aggravare la situazione, poiché né la Commissione né il governo sono in grado di porre rimedio ai fattori che hanno portato al risultato elettorale che si è avuto. Questi fattori, d’altra parte, sono gli stessi che oggi portano a sviluppi come quello dell’ultimatum di Zintan al Congresso.
Il risultato delle elezioni per la Commissione destinata a redigere il progetto della Costituzione dice che, nel quadro della profonda evoluzione degli ultimi due anni, le forze politiche rivoluzionarie (l’autonomismo cirenaico, le città rivoluzionarie con le loro milizie, gli islamisti, ecc.) hanno boicottato le elezioni o commesso violenze onde impedirne lo svolgimento (gli islamisti radicali e le minoranze berbere, tabù e tuareg) perché hanno ormai cambiato agenda rispetto al percorso espresso dalla Dichiarazione costituzionale del lontano agosto 2011 e all’emendamento apportatole nell’aprile 2013.
Queste varie forze non credono più che il percorso costituzionale originario possa includere le loro rivendicazioni o renderle compatibili con quelle di altre forze , in particolare delle forze conservatrici oggi al governo. Di qui anche la richiesta, che viene ormai da più parti, di sciogliere le istituzioni che l’originario percorso costituzionale aveva configurato, a cominciare dal Congresso nazionale generale.
Frammentazione pericolosa
Si va verso uno scontro civile più largo? La frammentazione che perdura alla base di tanti tumultuosi rivolgimenti non sembra consentirlo. Ci troviamo di fronte a una turbolenza che potrebbe stabilizzarsi come tale e installare in mezzo al Nord Africa e fra l’Europa e l’Africa a sud del Sahara un complesso di micro conflitti e di instabilità permanente con relative tracimazioni.
Le diverse azioni intraprese sul piano bilaterale, multinazionale e internazionale nel tentativo di fare uscire la Libia dall’impasse in cui si trova non sembrano adatte alla bisogna oppure hanno tempi troppo lunghi per poter aver un impatto sul processo in corso.
Le politiche esterne sembrano seguire due criteri opposti: da un lato, appoggiano l’attuale governo centrale (per esempio, Usa, Francia, Regno Unito e Italia hanno iniziato ad addestrare fuori del territorio libico una forza militare di circa 15-20 mila uomini da porre al servizio del governo e metterlo in grado di mantenere l’ordine nel paese); dall’altro, puntano sulla razionalizzazione del confuso decentramento che di fatto regna nel paese onde risalire da questa razionalizzazione a una nuova seppur diversa unità nazionale (l’appoggio al - debolissimo - dialogo nazionale da parte della United Nations Support Mission in Libya, Unsimil, sostenuto in vario modo e misura da alcuni paesi).
In questo quadro non è chiaro a chi si rivolgano o possano concretamente rivolgersi i programmi di assistenza in tema di giustizia della transizione (la giurisdizione corrente; la soddisfazione e la conciliazione per le ingiustizie del passato; la legge nazionale sull’epurazione) che molti paesi stanno cercando di sostenere: occorre sostenere il governo centrale oppure lavorare a livello delle variegate comunità che oggi di fatto esistono in Libia?
Sostegno internazionale
Non è semplice decidere che cosa fare. Un modo di facilitare le cose potrebbe essere una maggiore strutturazione e coesione del sostegno internazionale, cioè un’organizzazione che vada ben oltre l’attuale gruppo degli Amici della Libia, forse una sorta di Gruppo di contatto permanente.
La conferenza degli Amici della Libia che si terrà a Roma il 6 marzo prossimo potrebbe essere un’occasione. Il punto centrale sta nel governo Zeidan, che tutti i paesi occidentali appoggiano senza considerare che esso è un governo conservatore che non è politicamente in grado di presentare al paese un programma di mediazione e compromesso e che, come che sia, non ha neppure provato a farlo: si esercita in inutili mediazioni spot senza avere un disegno strategico. Una maggiore e informata pressione sul questo governo da parte di un forte Gruppo di contatto internazionale potrebbe essere utile.
Roberto Aliboni è consigliere scientifico dello IAI.
- See more at: http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=2552#sthash.zj9fC6F2.dpuf
D’altra parte, sia le forze rivoluzionarie sia quelle conservatrici sono estremamente frammentate e diversificate, per cui la tensione centrale che attraversa il paese difficilmente può tradursi in uno scontro risolutivo come pure in un compromesso fra i due schieramenti a livello nazionale.
Assemblea costituente
La cronaca degli ultimi dieci giorni testimonia un acuirsi delle tensioni in Libia. Da una parte, quasi inosservate a livello internazionale, si sono svolte le elezioni della Commissione per la redazione della Costituzione che si sono palesate un fiasco: vi hanno partecipato circa 500 mila elettori su 3,4 milioni di aventi diritto. Dall’altra, le milizie della città di Zintan, vicine all’Alleanza delle forze nazionali, hanno intimato al Congresso nazionale generale di sciogliersi, accusandolo di inettitudine e di essere dominato dal partito del Fratelli Musulmani.
A fronte di questi sviluppi, le milizie di Misurata hanno annunciato un loro intervento in appoggio ai Fratelli e al Congresso. Mentre scriviamo, le milizie di Zintan sono accampate nei pressi dell’edificio del Congresso a Tripoli e con una sparatoria hanno persuaso i deputati a svuotare il Congresso.
La Commissione elettorale nazionale ha espresso l’intenzione di tenere un secondo round per l’elezione della Commissione costituzionale, ma si tratterebbe di una mossa che potrebbe aggravare la situazione, poiché né la Commissione né il governo sono in grado di porre rimedio ai fattori che hanno portato al risultato elettorale che si è avuto. Questi fattori, d’altra parte, sono gli stessi che oggi portano a sviluppi come quello dell’ultimatum di Zintan al Congresso.
Il risultato delle elezioni per la Commissione destinata a redigere il progetto della Costituzione dice che, nel quadro della profonda evoluzione degli ultimi due anni, le forze politiche rivoluzionarie (l’autonomismo cirenaico, le città rivoluzionarie con le loro milizie, gli islamisti, ecc.) hanno boicottato le elezioni o commesso violenze onde impedirne lo svolgimento (gli islamisti radicali e le minoranze berbere, tabù e tuareg) perché hanno ormai cambiato agenda rispetto al percorso espresso dalla Dichiarazione costituzionale del lontano agosto 2011 e all’emendamento apportatole nell’aprile 2013.
Queste varie forze non credono più che il percorso costituzionale originario possa includere le loro rivendicazioni o renderle compatibili con quelle di altre forze , in particolare delle forze conservatrici oggi al governo. Di qui anche la richiesta, che viene ormai da più parti, di sciogliere le istituzioni che l’originario percorso costituzionale aveva configurato, a cominciare dal Congresso nazionale generale.
Frammentazione pericolosa
Si va verso uno scontro civile più largo? La frammentazione che perdura alla base di tanti tumultuosi rivolgimenti non sembra consentirlo. Ci troviamo di fronte a una turbolenza che potrebbe stabilizzarsi come tale e installare in mezzo al Nord Africa e fra l’Europa e l’Africa a sud del Sahara un complesso di micro conflitti e di instabilità permanente con relative tracimazioni.
Le diverse azioni intraprese sul piano bilaterale, multinazionale e internazionale nel tentativo di fare uscire la Libia dall’impasse in cui si trova non sembrano adatte alla bisogna oppure hanno tempi troppo lunghi per poter aver un impatto sul processo in corso.
Le politiche esterne sembrano seguire due criteri opposti: da un lato, appoggiano l’attuale governo centrale (per esempio, Usa, Francia, Regno Unito e Italia hanno iniziato ad addestrare fuori del territorio libico una forza militare di circa 15-20 mila uomini da porre al servizio del governo e metterlo in grado di mantenere l’ordine nel paese); dall’altro, puntano sulla razionalizzazione del confuso decentramento che di fatto regna nel paese onde risalire da questa razionalizzazione a una nuova seppur diversa unità nazionale (l’appoggio al - debolissimo - dialogo nazionale da parte della United Nations Support Mission in Libya, Unsimil, sostenuto in vario modo e misura da alcuni paesi).
In questo quadro non è chiaro a chi si rivolgano o possano concretamente rivolgersi i programmi di assistenza in tema di giustizia della transizione (la giurisdizione corrente; la soddisfazione e la conciliazione per le ingiustizie del passato; la legge nazionale sull’epurazione) che molti paesi stanno cercando di sostenere: occorre sostenere il governo centrale oppure lavorare a livello delle variegate comunità che oggi di fatto esistono in Libia?
Sostegno internazionale
Non è semplice decidere che cosa fare. Un modo di facilitare le cose potrebbe essere una maggiore strutturazione e coesione del sostegno internazionale, cioè un’organizzazione che vada ben oltre l’attuale gruppo degli Amici della Libia, forse una sorta di Gruppo di contatto permanente.
La conferenza degli Amici della Libia che si terrà a Roma il 6 marzo prossimo potrebbe essere un’occasione. Il punto centrale sta nel governo Zeidan, che tutti i paesi occidentali appoggiano senza considerare che esso è un governo conservatore che non è politicamente in grado di presentare al paese un programma di mediazione e compromesso e che, come che sia, non ha neppure provato a farlo: si esercita in inutili mediazioni spot senza avere un disegno strategico. Una maggiore e informata pressione sul questo governo da parte di un forte Gruppo di contatto internazionale potrebbe essere utile.
Roberto Aliboni è consigliere scientifico dello IAI.
Nigeria: la paura di attacchi blocca i vaccini in Nigeria
Un clima di paura e segretezza ha contraddistinto l’organizzazione di una campagna d’immunizzazione contro la poliomelite attualmente in corso nel nord della Nigeria. I vaccinatori tengono nascoste le loro identità, nascondono i vaccini sotto al velo e si recano in alcune aree solo se scortati dalle guardie. Tutto ciò in seguito alla morte, avvenuta nel febbraio scorso, di nove operatori sanitari che si occupavano di somministrare i vaccini contro la poliomelite, freddati dai membri di Boko Haram nella città di Kano.
“La campagna di vaccinazione contro la poliomelite viene portata avanti in un’atmosfera di paura e segretezza, i vaccinatori mantengono segreta la loro identità, vanno in giro furtivamente temendo di subire attacchi”- questo è ciò che ha riferito a IRIN una fonte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, coinvolta nelle campagne di immunizzazione contro la poliomelite”.
Il Ministro della Salute ha temporaneamente sospeso la campagna d’immunizzazione nel Marzo 2013, i vaccinatori erano troppo spaventati per continuare a lavorare, come ha riferito Shehu Abdullahi, segretario esecutivo del Primary Health Care Management Board (PHMB) dello Stato di Kano, che si occupa proprio della lotta alla poliomelite. La campagna è stata sospesa proprio nell’Aprile 2013.
L’otto febbraio scorso, alcuni uomini armati a bordo di una vettura, hanno aperto il fuoco in direzione di due cliniche specializzate in casi di poliomelite, ubicate in due aree di Kano, Hotoro e Unguwa Uku, uccidendo tra i vaccinatori nove donne che stavano raccogliendo i kit necessari per le vaccinazioni porta a porta. “Per l’attuale campagna”- ha dichiarato Jamila Ahmad a IRIN- “nascondiamo il kit per le vaccinazioni sotto l’hijab (il velo della tradizione islamica) e ci comportiamo come se ci stessimo recando a un matrimonio o a un battesimo, mentre il supervisore cammina dietro di noi a una distanza di sicurezza tale da non destare sospetti.”.
Gran parte delle vaccinazioni porta a porta è somministrato dalle donne, che normalmente hanno accesso alle abitazioni più facilmente rispetto agli uomini, i quali dovrebbero chiedere prima il consenso degli uomini di casa, ma i supervisori di sesso maschile fanno normalmente parte della squadra.
L’ostracismo verso la campagna d’immunizzazione ha a lungo ostacolato gli sforzi per combattere l’epidemia in Nigeria. I vaccinatori temono il confronto con i genitori che si rifiutano di vaccinare i propri figli, per non destare l’attenzione di coloro i quali potrebbero essere pronti ad attaccare da un momento all’altro, “perché non sai mai con chi hai a che fare”, ha riferito la fonte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità.
La medesima fonte ha riferito a IRIN che alcuni, tra quelli incaricati di somministrare i vaccini, si sono rifiutati di recarsi in aree ad alto rischio senza essere accompagnati dal personale di sicurezza. Il PHMB ha inoltre stipulato un accordo con le agenzie di sicurezza, inclusi i Servizi di Sicurezza Statale, la polizia, il Servizio di Sicurezza della Nigeria e i Corpi di Difesa Civile – perché inviino agenti sotto copertura che possano accompagnare i vaccinatori nei sobborghi di Kano, così come ha riferito Abdullahi.
Coloro i quali sono affetti da poliomelite, in quanto membri dell’ Associazione Vittime della Poliomelite, si sono impegnati a sostegno di campagne porta a porta per la sensibilizzazione al problema della poliomelite. Gli stessi – ha riferito il presidente dell’organizzazione – hanno ridotto le loro attività negli ultimi mesi.
“Assegniamo ciascun membro al suo vicinato, dove conosce ciascuno dei residenti e può metterli in guardia dai tipi sospetti che girano là intorno”- ha dichiarato Tudun Wada.
Lavorare in queste condizioni ha costretto molti ad abbandonare l’incarico – ha riferito una fonte anonima all’Organizzazione Mondiale della Sanità – facendo così sentire l’esigenza di rivolgersi a del personale meno qualificato per le vaccinazioni.
“Al momento reclutiamo vaccinatori che in condizioni normali non recluteremmo proprio perché poco esperti e non abbastanza qualificati… e questo influisce sulla qualità della campagna d’immunizzazione,” ha fatto sapere la fonte dell’OMS. “La presenza di vaccinatori qualificati è una delle chiavi del successo di questa campagna”.
I corsi di formazione per i vaccinatori si tenevano di solito durante il fine settimana presso strutture private. Ora – per motivi di sicurezza – si tengono per poche ore durante il corso della settimana presso strutture pubbliche, come ad esempio gli ospedali. In passato esisteva di norma una preselezione e dei test di fine corso, al fine di scegliere il personale più qualificato, ma al momento “la qualità non è più una priorità”, ha dichiarato un operatore sanitario coinvolto nella campagna, che però ha preferito restare nell’anonimato.
Nonostante i problemi di sicurezza, la percentuale di trasmissione della poliomelite sia a Kano che in Nigeria si è fermata. Il 16 ottobre, la Nigeria ha registrato 49 casi di poliomelite su 296 segnalati in tutto il mondo da Global Polio Eradication Initiative, un calo rispetto al 2012, quando la Nigeria faceva registrare ben 121 casi e 28 a Kano.
Nonostante i problemi di sicurezza, la percentuale di trasmissione della poliomelite sia a Kano che in Nigeria si è fermata. Il 16 ottobre, la Nigeria ha registrato 49 casi di poliomelite su 296 segnalati in tutto il mondo da Global Polio Eradication Initiative, un calo rispetto al 2012, quando la Nigeria faceva registrare ben 121 casi e 28 a Kano.
“Stiamo facendo lentamente progressi nonostante le difficoltà, che speriamo di superare gradualmente” ha riferito la fonte dell’OMS.
(Traduzione dall’inglese di Maria Pia Ester Cristaldi)
Malawi: la sanità corrotta pregiudica l'avvenire
Un ingente furto di fondi pubblici da parte delle autorità governative ha pericolosamente minato il settore della sanità pubblica, provocando così nelle ultime settimane lo sciopero di centinaia di operatori nel settore della sanità pubblica, unite per protestare contro il ritardo nei pagamenti degli stipendi del mese di settembre.
I ritardi sono stati causati dallo scandalo finanziario che ha coinvolto le autorità governative, responsabili di aver sfruttato i buchi del sistema dei pagamenti statali, al fine di creare dei depositi fraudolenti sui conti di compagnie che non godevano di alcun contratto con il governo. Stando a quanto riportato dalla Financial Intelligence Unit – un organo di governo – dai fondi pubblici sarebbero stati trasferiti fino a 20 bilioni dikwacha (5.3 milioni di dollari).
Lo sciopero dei dipendenti della sanità pubblica, iniziato i primi di ottobre, ha bloccato le attività degli ospedali pubblici, che registrano anche una considerevole mancanza di fondi per l’acquisto di attrezzature mediche e farmaci.
“La mia bambina di tre anni ha avuto la febbre, mi sono recata presso l’ospedale del nostro distretto perché ricevesse le cure mediche necessarie, e purtroppo sono tornata a casa senza ottenere nulla: lo staff medico era in sciopero”, ha raccontato Laurine Mwangupili a proposito del distretto di Karonga, nella zona nord del Malawi. “Ci hanno detto che non potevano prendersi cura dei pazienti perché i loro stipendi non erano stati pagati”.
“La mia bambina di tre anni ha avuto la febbre, mi sono recata presso l’ospedale del nostro distretto perché ricevesse le cure mediche necessarie, e purtroppo sono tornata a casa senza ottenere nulla: lo staff medico era in sciopero”, ha raccontato Laurine Mwangupili a proposito del distretto di Karonga, nella zona nord del Malawi. “Ci hanno detto che non potevano prendersi cura dei pazienti perché i loro stipendi non erano stati pagati”.
Un dipendente dell’ospedale, che ha preferito rimanere nell’anonimato, dichiara che tutto lo staff tecnico, inclusi gli infermieri, gli assistenti medici e il personale clinico, ha partecipato allo sciopero. I dipendenti dei due ospedali di riferimento del Paese – il Kamuzu Central Hospital di Lilongwe e il Queen Elizabeth Central Hospital di Blantyre – così come quelli degli ospedali dei distretti di Dezda e Salima, hanno deciso di aderire allo sciopero dopo il ritardo nei pagamenti degli stipendi. Gli stessi hanno dichiarato che continueranno a scioperare nel caso in cui ci saranno ritardi anche nel pagamento degli stipendi di questo mese.
I lavoratori coinvolti nello sciopero intervistati da IRIN, hanno riferito di essere stati sfrattati con la forza dalle loro case, perché non in grado di pagare l’affitto mensile. Anche alcuni insegnanti hanno visto ritardato il pagamento dello stipendio mensile, proprio per lo scandalo relativo ai fondi pubblici.
Martha Kwataine, il direttore esecutivo dell’NGO Malawi Health Equity Network, ha lanciato l’allarme per gli effetti che la corruzione ha sul settore sanitario, che già precedentemente nel corso di questo anno ha sofferto per la scarsità di fondi.
“Abbiamo ripetuto che la corruzione paralizza la sanità pubblica,” ha riferito Kwataine a IRIN. “In quanto nazione, non possiamo pagare il personale medico specializzato, in questo modo perderemmo il nostro denaro. Per questa ragione continuiamo a mandare i nostri pazienti in altre nazioni come la Tanzania, perché possano ricevere trattamenti specializzati per malattie come il cancro”.
“Abbiamo ripetuto che la corruzione paralizza la sanità pubblica,” ha riferito Kwataine a IRIN. “In quanto nazione, non possiamo pagare il personale medico specializzato, in questo modo perderemmo il nostro denaro. Per questa ragione continuiamo a mandare i nostri pazienti in altre nazioni come la Tanzania, perché possano ricevere trattamenti specializzati per malattie come il cancro”.
Kwataine ha aggiunto che il problema della corruzione va oltre il ritardo nel pagamento dei salari, e che ha causato lo scarseggiare degli strumenti medici essenziali, inclusi i farmaci che “attualmente mancano in molti ospedali”. Anche l’Unione Medica dei Dottori di Malawi ha protestato contro la speculazione sui fondi pubblici con un comunicato, sottolineando che “È demoralizzante e oltremodo frustrante che, mentre il governo lotta per assicurare una disponibilità continua delle medicine e degli strumenti essenziali negli ospedali pubblici, ovviando a delle carenze determinate dalla mancanza di fondi pubblici, proprio alcuni individui all’interno del servizio pubblico riescano in maniera così semplice ad accedere a quegli stessi fondi – che già scarseggiano – per soddisfare le proprie necessità personali”.
Nel mese di settembre, IRIN ha fatto notare come ai pazienti dell’ospedale di Nkhata Bey fosse servito solo del porridge, anziché la tradizionale ‘nsima’ (una zuppa di mais molto densa). Le autorità ospedaliere hanno dichiarato che ciò era dovuto allo scarseggiare di fondi pubblici a disposizione dell’ospedale, una situazione che si era aggravata già da agosto.
Le conseguenze di una truffa simile, che i media locali hanno soprannominato “Cashgate”, si vedranno nei mesi successivi, dal momento che i donatori internazionali, che rappresentano fino al 40% del budget nazionale del Malawi, minacciano di uscire dalla nazione.
La Norvegia ha già sospeso i suoi aiuti, mentre la Germania ha chiesto al governo di affrettarsi nel cercare i responsabili della truffa, e l’Unione Europea ha minacciato di ritirare 39 milioni di dollari di aiuti a dicembre se i problemi con la corruzione non verranno risolti. Il Fondo Monetario Internazionale ha annunciato lunedì che tratterrà altri 20 milioni di dollari di credito al Malawi fino a dicembre.
Da quando l’organo anti-corruzione del Malawi ha scoperto la truffa nei primi giorni di settembre, il governo ha sospeso i pagamenti per poter mettere fine alla frode, e 10 ufficiali del governo sono stati arrestati con l’accusa di riciclaggio di denaro. Il 10 ottobre, la Presidentessa Joyce Banda ha sciolto il suo gabinetto. Molti dei 32 membri del gabinetto sono stati riconfermati, ad eccezione dei ministri della finanza, della giustizia, dell’industria e del commercio.
La corruzione è stata sempre un problema nel Malawi, ciascuno dei presidenti precedenti della nazione ha sempre promesso di risolvere i problemi legati ad essa, risultando comunque coinvolto in attività corrotte non appena finito il mandato.
Il primo presidente eletto nelle elezioni multipartitiche del 1994, Bakili Muluzi, al momento deve rispondere dell’aver intascato 1.7 billioni di kwacha (4.5 milioni di dollari), destinati invece ai fondi pubblici. Il suo successore, Bingu wa Mutharika, dopo la morte è stato accusato di aver costruito una proprietà del valore di 61 bilioni di kwacha (163 milioni di dollari) durante l’ottavo anno del suo mandato al governo. Si sospetta che gran parte di quel denaro derivi dalle casse dello Stato, dal momento che egli ha dichiarato solo 136 milioni di kwacha (363,000 dollari) all’inizio del mandato nel 2004.
Sotto Mutharika, il Malawi ha inoltre sofferto per le difficili relazioni con i suoi donatori. Nel 2001, il Regno Unito ha congelato i suoi aiuti alla nazione a causa di un disguido diplomatico. Fin dall’inizio del mandato nell’aprile del 2012, Banda ha lavorato duramente per ricucire le relazioni con i donatori ma, probabilmente, i risultati ottenuti potrebbero ora essere stati vanificati.
(Traduzione dall’inglese di Maria Pia Ester Cristaldi)
mercoledì 5 marzo 2014
Tunisia, Nigeria, Egitto Febbraio 2014: un punto di situazione
Egitto
Il 25 gennaio, durante la giornata della commemorazione della Rivoluzione e dei Martiri di piazza Tahrir, sono stati numerosissimi i casi di violenze scoppiati in tutto il Paese. In diverse città del Paese, si sono susseguite numerose manifestazioni da parte dei movimenti di opposizione al regime militare, le quali sono state represse violentemente. Il bilancio degli scontri tra manifestanti e forze di polizia è stato di circa 50 morti, centinaia di feriti e oltre mille arresti. La repressione delle manifestazioni è avvenuta in ossequio alla legge del 24 novembre scorso, con la quale vengono interdette e vietate tutte le manifestazioni non autorizzate. Al di là delle ragioni di ordine pubblico, la legge del 24 novembre può essere considerata uno strumento del governo per inibire le manifestazioni di dissenso da parte delle formazioni di opposizione, con in testa la Fratellanza Musulmana.
Gli eventi di piazza Tahrir hanno ulteriormente! testimoniato il clima di grande tensione che domina il Paese e che potrebbe favorire la diffusione e l’ascesa di movimenti radicali. Un esempio di questa tendenza è offerto dal gruppo terrorista islamico Ansar Bayt al Maqdis (ABM), responsabile di due attentati, il 14 gennaio e il 24 gennaio, a causa dei quali sono morte 13 persone. Il duplice attacco è stato giustificato come rappresaglia contro l’Esercito reo, a detta di ABM, di aver destituito illegittimamente l’ex Presidente Morsi. Appare preoccupante come il governo egiziano, nel contrastare la Fratellanza Musulmana e le organizzazioni terroristiche, abbia adottato una legislazione che considera illegale, in ugual maniera, la militanza nelle formazioni in questione. In questo modo, la Fratellanza e ABM vengono, di fatto, considerate simili, pur non, in realtà, non essendolo. La perdurante ciclicità delle violenze in Egitto e l’affacciarsi sulla scena politica di nuove formazioni estremiste, denota! no come il colpo di Stato del luglio scorso da parte dell’Esercito abbia radicalizzato ulteriormente i toni e le manifestazioni del conflitto politico all’interno del Paese. |
Nigeria
Da qualche giorno il partito di governo nigeriano, il People’s Democratic Party (PDP), è percorso da forti tensioni interne, che rischiano di minare anche la stabilità dell’esecutivo. Infatti, il 29 gennaio, 11 senatori avrebbero deciso di confluire nel maggiore partito di opposizione, l’All Progressive Congress (APC), anche se il Presidente del Senato, David Mark, ha reso noto di non aver ricevuto ancora nessuna comunicazione ufficiale in merito. Se ciò venisse confermato, il Presidente si troverebbe a fare i conti con una maggioranza parlamentare ulteriormente assottigliata, dopo le dimissioni di 37 deputati del PDP, rassegnate lo scorso anno, che hanno sensibilmente ridimensionato la supremazia del partito nella Camera Bassa del Paese.
La ragione di questa ondata di defezioni è il contrasto tra i senatori del PDP e Goodluck Jonathan, cristiano di etnia Igbo, leader del partito e Presidente della Nigeria, accusato di una politi! ca discriminatoria nei confronti della popolazione musulmana e Hausa-Fulani. Inoltre, ad esasperare il conflitto interno al PDP è l’intenzione, da parte di Jonathan, di candidarsi alle prossime elezioni presidenziali del 2015 come leader del partito. Si tratta di una mossa che potrebbe alterare la consuetudine politica del Paese, che da decenni prevede una tacita l’alternanza alla guida del PDP (e dunque del governo visto che il partito ha vinto ogni elezione presidenziale sin dalla fine della dittatura militare nel 1999) tra un esponente musulmano, generalmente di etnia Hausa-Fulani, e uno cristiano, solitamente di etnia Yoruba. In questo momento, appare difficile che il Presidente Jonathan riesca a portare a compimento il progetto di ricandidatura e conseguimento di un nuovo mandato, soprattutto perché, negli ultimi anni, l’equilibrio politico e sociale tra le maggiori etnie e confessioni nigeriane è già stato messo a dura prova dalle attività di Boko Haram ! (“l’Educazione Occidentale è peccato”) e da una preoccupante crescita del radicalismo islamico nelle regioni settentrionali del Paese. | |
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