giovedì 23 giugno 2016
domenica 12 giugno 2016
Egitto: il problema della comunicazione
martedì 7 giugno 2016
Prospettive per il Continente nero
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Connettere le risorse dell'Africa attraverso la trasformazione digitale. È stato questo il titolo del 26esimo incontro annuale del Forum economico mondiale (Fem) di Kigali focalizzato sull’Africa.
Mentre nel 2015 la maggior parte delle economie africane sono scese ai livelli di crescita del 2009, quella ruandese è diventata la quinta economia africana in rapida espansione grazie a politiche e investimenti diretti a sviluppare il settore dei servizi ed a trasformare il Paese in un punto di riferimento regionale per l’alta tecnologia. La crescente vulnerabilità dei Paesi africani a fluttuazioni del prezzo delle materie prime, svalutazioni monetarie, insostenibilità del debito e instabilità geopolitiche, sottolinea nuovamente l’urgenza di investimenti per la diversificazione economica e per uno sviluppo inclusivo. L’Africa subsahariana, bypassata dalle precedenti rivoluzioni industriali, si presta per molti aspetti a saltare sul carro delle più recenti innovazioni tecnologiche, ma per una crescita sostenibile, l’impatto dei cambiamenti climatici sul continente non può essere ignorato né considerato in isolamento. Africa e innovazione digitale Dopo Davos, i tre giorni a Kigali si sono concentrati sul tema della “quarta rivoluzione industriale”, questa volta per il futuro delle economie africane. Il termine, coniato dal Professore Klaus Schwab (fondatore e presidente del Fem) è apparso per la prima volta nel dicembre 2015 in Foreign Affairs e vede al centro dei meccanismi di produzione, competitività e consumo, strumenti quali l’intelligenza artificiale, la bio- e la nanotecnologia, e la fusione di tecnologie prima appartenenti alle sfere della fisica, del digitale e della biologia. L’Africa è in una posizione unica per trarre vantaggio dall’economia digitale: è giovane (il cosiddetto “dividendo demografico” potrebbe contribuire ad un incremento del Pil tra l’11 e il 15 percento nel periodo 2011-2030); meglio educata che in passato (l’alfabetizzazione è quasi ovunque al 70 percento); più ricca (il tasso di povertà estrema è calato dal 56 al 35 percento dal 1990); e vi è un rischio minore di contrarre Aids e malaria (tra il 2000 ed il 2012 la mortalità per malaria è calata del 50 percento). Un terzo della popolazione è in possesso di un telefono cellulare, i sistemi di moneta elettronica (e-mobile systems) sono in rapida espansione (si veda il successo di M-Pesa in Kenya), ed una rete di start-up ispirato alla Silicon Valley si sta velocemente sviluppando, con 200 centri d’innovazione già esistenti e finanziamenti in crescita letteralmente esponenziale (da 40 milioni di dollari nel 2012 a 414 milioni nel 2014). Siccità e crisi alimentare Per quanto promettente, questo scenario cela la fragilità dei progressi ottenuti. Non solo una vera e propria trasformazione economica non si è ancora realizzata, ma la crescita è dipendente dai settori (agricoltura e pesca) maggiormente vulnerabili agli impatti dei cambiamenti climatici (alluvioni e siccità, per esempio) ed il continente stesso è a livello globale il più esposto ed il meno preparato ad adattarsi. Il settore agricolo, che impiega il 70 percento della popolazione sub-sahariana e contribuisce ad un quarto del Pil, sarà il più colpito, con gravi ripercussioni per la sicurezza alimentare già sotto pressione demografica. Per il 2030, le più recenti stime della Banca mondiale in Africa e Asia prevedono una diminuzione dei raccolti del 5 percento, un incremento del 12 percento dei prezzi alimentari, ed una perdita tra il 40 fino all’80 percento dei terreni arabili (per il 2030/2040). È inoltre previsto un incremento del 5 percento nell’incidenza della malaria e del 10 percento della dissenteria. A queste, si sommano le perdite nel settore della pesca, del turismo, un aumento dei disastri naturali, del numero e della propagazione di virus (nel 2015, l’Ebola ha provocato nell’insieme una diminuzione del 12 percento del Pil per Guinea, Sierra Leone e Liberia), dei flussi migratori e delle instabilità politiche e sociali. L’impatto aggregato dei cambiamenti climatici sul Pil è dunque difficile da stimare, tanto che a seconda del modello usato (e del paese) i costi annuali in termini di Pil fino al 2030 variano dall’1,5 al 10 percento. Un futuro tridimensionale Per quanto sia mitigazione che adattamento dipendano da uno sviluppo economico “intelligente”, dall’impiego di tecnologie pulite a colture resilienti, il Fem ha discusso i cambiamenti climatici brevemente e fuori dall’agenda principale. Tuttavia, i cambiamenti climatici riducono la produttività, le possibilità di risparmio ed investimento ed inficiano la crescita economica nel breve e lungo periodo. Per essere sostenibile, la crescita non può più tener separate la dimensione economica, sociale ed ambientale. L’alternativa, è un futuro con 100 milioni di poveri in più tra Africa e Asia già nel 2030 Fonte dei dati: Banca Mondiale. Chiara Rogate si occupa di sviluppo energetico nel Dipartimento di Africa della Banca mondiale a Washington. | ||||||||
sabato 4 giugno 2016
Algeria: nuovi rapporti con la sponda nord
Mediterraneo Energia, tavolo Algeria-Ue Lorenzo Colantoni 27/05/2016 |
Il primo Business Forum su tema energetico tra Unione europea, Ue, e Algeria. È quello che si è appena concluso ad Algeri e che ha visto coinvolti il Commissario europeo al clima e all’energia Miguel Arias Cañete e il ministro dell’Energia algerino Salah Khebri.
L’iniziativa riapre il discorso sullo sfruttamento delle risorse di idrocarburi nel paese e il suo rapporto con l’Ue, in una situazione in cui però l’instabilità politica latente, un’organizzazione del settore non adeguata alla promozione di nuovi investimenti e la presenza di alcune rigidità del sistema algerino rischiano di impedire lo sfruttamento adeguato delle vastissime risorse. Problemi che potrebbero incrinare ulteriormente la già fragile situazione politica interna.
Algeria, potenza energetica in declino
Le potenzialità dell’Algeria sono estremamente significative: è il primo produttore di gas naturale in Africa, uno dei tre principali di petrolio. Secondo i dati dell’Oil and Gas Journal del 2016, le sue riserve di gas naturale sono le undicesime più grandi al mondo, le seconde in Africa dopo la Nigeria.
Le stime della Energy Information Administration, Eia, del 2013 mettono le riserve di shale gas addirittura al terzo posto a livello mondiale, dopo Argentina e Cina. Grazie alle sue risorse, alla posizione geografica e ai tre gasdotti che la collegano, due con la Spagna e uno con l’Italia tramite la Tunisia, l’Algeria ha un ruolo significativo per l’Europa, di cui è il secondo fornitore di gas e a cui esporta il 76% del suo greggio. Eppure, nonostante le potenzialità, la produzione di gas e petrolio è andata diminuendo negli ultimi anni.
Sonatrach e le difficoltà di attrarre gli investimenti
La difficoltà maggiore per l’Algeria sta nell’attrarre nuovi investimenti, sia per sfruttare le risorse esistenti, sia per proseguire l’esplorazione. È la stessa compagnia nazionale Sonatrach a sostenere che i due terzi del territorio algerino non siano stati esplorati del tutto o in maniera adeguata e i problemi non riguardano esclusivamente le diffuse proteste verso l’utilizzo delle risorse non convenzionali.
Nelle ultime aste per gli appalti per lo sfruttamento di gas e petrolio pochi sono stati i lotti assegnati: 4 su 31 nel 2014, mentre nel 2015 le aste sono state direttamente cancellate.
Le ragioni sono molteplici, ma soprattutto relative alle sfavorevoli condizioni imposte dal governo algerino alle compagnie straniere dopo la revisione dell’ultima legge sullo sfruttamento degli idrocarburi, del 2005, avvenuta l’anno successivo.
Al momento, Sonatrach deve possedere il 51% di qualsiasi nuovo progetto estrattivo, ma i costi sostenuti durante la fase di esplorazione sono interamente a carico dell’investitore privato. Regole che rendono gli investimenti in Algeria meno attraenti, soprattutto se si aggiunge i rischi della corruzione endemica alla stessa Sonatrach; lo scandalo legato alle tangenti del 2012 portò con sé anche Saipem, che nel 2013 perdette il 34% del proprio valore in borsa.
Il forum ha quindi ruotato principalmente intorno a questi problemi, vista anche la partecipazione tanto a livello istituzionale che privato, con oltre 170 imprese partecipanti agli incontri tra imprese locali ed europee (B2B). Se una nuova legge sugli idrocarburi sarebbe la soluzione preferibile, è forse però quella meno probabile, ed è più facile pensare a una serie di piccole riforme, come già fatto nel 2006, ma questa volta in senso positivo per gli investitori.
Il punto è quello di creare un business environment che permetta una maggiore attrazione degli investimenti tramite procedure amministrative più snelle, accordi migliori in termini di tassazione, superficie dei lotti e con una presenza statale inferiore al monolitico 51%.
L’energia e l’instabilità algerina
Un rinnovato sviluppo del settore degli idrocarburi in Algeria è fondamentale, anche per garantire quella stabilità che al paese sembra mancare in maniera crescente. Da una parte l’Algeria vede la domanda di energia crescere, con la generazione elettrica però ancora coperta per il 93% dal gas naturale nel 2013, secondo l’Eia.
Mentre la produzione diminuisce, l’aumento del consumo rischia di erodere la quantità di gas e petrolio disponibile, che rappresentano, secondo il Fondo monetario internazionale, il 95% delle esportazioni e il 25% di tutto il Pil del paese. Questo aggrava una situazione già colpita dai prezzi bassi del petrolio, con un punto percentuale di Pil in meno dal 2014 al 2015 e misure di austerità già prese nel dicembre 2015 dal governo algerino.
Il tutto in una situazione politica di estrema instabilità: sempre nel dicembre 2015, il New York Times riportava il vuoto di potere dovuto alle pessime condizioni di salute del presidente Abdelaziz Bouteflika e un presunto soft coup operato dall’entourage del presidente, provato dalle sostituzioni ai livelli top delle forze armate e dell’intelligence e alla stretta sulla libertà dei media, già fortemente compromessa.
Le violazioni ai diritti sono infatti diffuse: nel febbraio 2016 Euromed Rights, ong impegnata nella difesa dei diritti umani nell’area mediterranea, riportava le numerose violazioni alle libertà individuali, di associazione e di stampa in Algeria, come quelle relative alle proteste del luglio 2015 e quelle, più gravi e strutturali, che potrebbero derivare dalla prevista revisione della costituzione.
Un rinnovato sviluppo del settore energetico, in collaborazione con l’Ue, potrebbe contribuire con una crescita più solida allo stabilizzarsi della situazione politica, anche tramite le energie rinnovabili che potrebbero diminuire la pressione del consumo sulle risorse fossili. È questo il motivo per cui la Commissione ha destinato in occasione del Business Forum dieci milioni di euro per i due programmi algerini per le energie rinnovabili e per l’efficienza energetica (Pner e Pnee).
Il settore energetico, d’altronde, non ha che perdere dall’instabilità: nel marzo 2016, a seguito dell’attacco agli impianti di estrazione di gas rivendicati da Al Qaeda, BP e Statoil hanno dovuto ritirare i propri dipendenti dai due più grandi giacimenti di gas algerini. La prova di un pericoloso circolo vizioso tra energia, crescita e stabilità politica, che l’Algeria dovrà cercare di fermare.
Lorenzo Colantoni è Junior Fellow presso lo IAI –Twitter@colanlo.
- See more at: http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=3472#sthash.S5iB9pXf.dpufL’iniziativa riapre il discorso sullo sfruttamento delle risorse di idrocarburi nel paese e il suo rapporto con l’Ue, in una situazione in cui però l’instabilità politica latente, un’organizzazione del settore non adeguata alla promozione di nuovi investimenti e la presenza di alcune rigidità del sistema algerino rischiano di impedire lo sfruttamento adeguato delle vastissime risorse. Problemi che potrebbero incrinare ulteriormente la già fragile situazione politica interna.
Algeria, potenza energetica in declino
Le potenzialità dell’Algeria sono estremamente significative: è il primo produttore di gas naturale in Africa, uno dei tre principali di petrolio. Secondo i dati dell’Oil and Gas Journal del 2016, le sue riserve di gas naturale sono le undicesime più grandi al mondo, le seconde in Africa dopo la Nigeria.
Le stime della Energy Information Administration, Eia, del 2013 mettono le riserve di shale gas addirittura al terzo posto a livello mondiale, dopo Argentina e Cina. Grazie alle sue risorse, alla posizione geografica e ai tre gasdotti che la collegano, due con la Spagna e uno con l’Italia tramite la Tunisia, l’Algeria ha un ruolo significativo per l’Europa, di cui è il secondo fornitore di gas e a cui esporta il 76% del suo greggio. Eppure, nonostante le potenzialità, la produzione di gas e petrolio è andata diminuendo negli ultimi anni.
Sonatrach e le difficoltà di attrarre gli investimenti
La difficoltà maggiore per l’Algeria sta nell’attrarre nuovi investimenti, sia per sfruttare le risorse esistenti, sia per proseguire l’esplorazione. È la stessa compagnia nazionale Sonatrach a sostenere che i due terzi del territorio algerino non siano stati esplorati del tutto o in maniera adeguata e i problemi non riguardano esclusivamente le diffuse proteste verso l’utilizzo delle risorse non convenzionali.
Nelle ultime aste per gli appalti per lo sfruttamento di gas e petrolio pochi sono stati i lotti assegnati: 4 su 31 nel 2014, mentre nel 2015 le aste sono state direttamente cancellate.
Le ragioni sono molteplici, ma soprattutto relative alle sfavorevoli condizioni imposte dal governo algerino alle compagnie straniere dopo la revisione dell’ultima legge sullo sfruttamento degli idrocarburi, del 2005, avvenuta l’anno successivo.
Al momento, Sonatrach deve possedere il 51% di qualsiasi nuovo progetto estrattivo, ma i costi sostenuti durante la fase di esplorazione sono interamente a carico dell’investitore privato. Regole che rendono gli investimenti in Algeria meno attraenti, soprattutto se si aggiunge i rischi della corruzione endemica alla stessa Sonatrach; lo scandalo legato alle tangenti del 2012 portò con sé anche Saipem, che nel 2013 perdette il 34% del proprio valore in borsa.
Il forum ha quindi ruotato principalmente intorno a questi problemi, vista anche la partecipazione tanto a livello istituzionale che privato, con oltre 170 imprese partecipanti agli incontri tra imprese locali ed europee (B2B). Se una nuova legge sugli idrocarburi sarebbe la soluzione preferibile, è forse però quella meno probabile, ed è più facile pensare a una serie di piccole riforme, come già fatto nel 2006, ma questa volta in senso positivo per gli investitori.
Il punto è quello di creare un business environment che permetta una maggiore attrazione degli investimenti tramite procedure amministrative più snelle, accordi migliori in termini di tassazione, superficie dei lotti e con una presenza statale inferiore al monolitico 51%.
L’energia e l’instabilità algerina
Un rinnovato sviluppo del settore degli idrocarburi in Algeria è fondamentale, anche per garantire quella stabilità che al paese sembra mancare in maniera crescente. Da una parte l’Algeria vede la domanda di energia crescere, con la generazione elettrica però ancora coperta per il 93% dal gas naturale nel 2013, secondo l’Eia.
Mentre la produzione diminuisce, l’aumento del consumo rischia di erodere la quantità di gas e petrolio disponibile, che rappresentano, secondo il Fondo monetario internazionale, il 95% delle esportazioni e il 25% di tutto il Pil del paese. Questo aggrava una situazione già colpita dai prezzi bassi del petrolio, con un punto percentuale di Pil in meno dal 2014 al 2015 e misure di austerità già prese nel dicembre 2015 dal governo algerino.
Il tutto in una situazione politica di estrema instabilità: sempre nel dicembre 2015, il New York Times riportava il vuoto di potere dovuto alle pessime condizioni di salute del presidente Abdelaziz Bouteflika e un presunto soft coup operato dall’entourage del presidente, provato dalle sostituzioni ai livelli top delle forze armate e dell’intelligence e alla stretta sulla libertà dei media, già fortemente compromessa.
Le violazioni ai diritti sono infatti diffuse: nel febbraio 2016 Euromed Rights, ong impegnata nella difesa dei diritti umani nell’area mediterranea, riportava le numerose violazioni alle libertà individuali, di associazione e di stampa in Algeria, come quelle relative alle proteste del luglio 2015 e quelle, più gravi e strutturali, che potrebbero derivare dalla prevista revisione della costituzione.
Un rinnovato sviluppo del settore energetico, in collaborazione con l’Ue, potrebbe contribuire con una crescita più solida allo stabilizzarsi della situazione politica, anche tramite le energie rinnovabili che potrebbero diminuire la pressione del consumo sulle risorse fossili. È questo il motivo per cui la Commissione ha destinato in occasione del Business Forum dieci milioni di euro per i due programmi algerini per le energie rinnovabili e per l’efficienza energetica (Pner e Pnee).
Il settore energetico, d’altronde, non ha che perdere dall’instabilità: nel marzo 2016, a seguito dell’attacco agli impianti di estrazione di gas rivendicati da Al Qaeda, BP e Statoil hanno dovuto ritirare i propri dipendenti dai due più grandi giacimenti di gas algerini. La prova di un pericoloso circolo vizioso tra energia, crescita e stabilità politica, che l’Algeria dovrà cercare di fermare.
Lorenzo Colantoni è Junior Fellow presso lo IAI –Twitter@colanlo.
Egitto: alla ricerca della sicurezza perduta
Sicurezza negli aeroporti: le sfide Dopo Bruxelles, il disastro Egyptair Sofia Cecinini, Alessandro Marrone 27/05/2016 |
In attesa di sapere le vere dinamiche del disastro aereo Egyptair, il tema della sicurezza negli aeroporti è tornato al centro del dibattito tra le autorità internazionali. Se le indagini confermassero che si è trattato di un attentato, significherebbe che, ancora una volta, c'è stata qualche falla nella sicurezza di uno dei luoghi ritenuti più a rischio.
Come quanto accaduto all’aeroporto dii Bruxelles Zaventem due mesi fa, lo Charles-de-Gaulle è stato setacciato dalle autorità francesi alla ricerca di possibili indizi che siano in grado di dare una spiegazione alla catastrofe. Già nel mese scorso, l'Unione europea, Ue, e gli Stati membri avevano iniziato a discutere una serie di misure per far fronte alla minaccia terroristica verso gli aeroporti europei.
Le mosse dell’Ue
Diversi gli obiettivi più importanti fissati dal comunicato congiunto dei ministri della giustizia e degli interni dell'Ue riunitisi il 24 marzo. Si parte dall’attuazione della direttiva sul codice di prenotazione, Pnr, contenente tutte le informazioni riguardo ai passeggeri.
È previsto infatti che ogni Stato membro stabilisca una propria “Unità di informazione passeggeri”, Uip, per raccogliere i dati delle compagnie aeree e scambiarli reciprocamente nel minor tempo possibile. Tali dati dovranno essere conservati per un periodo di cinque anni.
Vi è poi il tema della condivisione delle informazioni tra le autorità e gli operatori dei trasporti in modo da adottare misure di attenuazione ove necessario. Altri obiettivi sono il completamento della legislazione in materia di lotta contro il terrorismo e l’attuazione di controlli sistematici delle frontiere esterne dell'area Schengen, portando avanti un'ulteriore cooperazione antiterrorismo tra l'Ue, la Turchia e i Paesi del Nord Africa, del Medio Oriente e dei Balcani occidentali.
I ministri riunitisi hanno poi deciso di sostenere il Gruppo contro-terrorismo, Ctg, e la creazione di una piattaforma dedicata allo scambio multilaterale di informazioni in tempo reale, prevedendo anche un più frequente ricorso a squadre investigative congiunte europee al fine di coordinare le indagini e raccogliere e scambiare prove.
Simili punti si trovano nel documento per contrastare le minacce “ibride” adottato dalla Commissione europea e dall'Alto Rappresentante il 6 aprile, in cui viene sottolineato anche che la cooperazione ed il coordinamento tra Nato e Ue è di fondamentale importanza.
Nuove sfide per l’Europa
Se fino ad oggi le procedure di controllo sono state volte ad evitare che i potenziali terroristi salissero a bordo dei velivoli, le esplosioni nelle sale delle partenze a Zaventem hanno reso evidente che le grandi aree pubbliche sono oggi vulnerabili ad attacchi.
L'Europa deve quindi fronteggiare la necessità di incrementare fortemente i livelli di sicurezza nei cosiddetti “soft target”, ovvero le aree comuni di passaggio. Da qui la necessità di introdurre monitoraggi più completi, anche delle aree meno frequentate dai viaggiatori, con telecamere e sistemi di rilevamento in grado di individuare l'introduzione nell'area di materiale pericoloso, così come l'aumento della presenza dei unità cinofile all'interno delle sale delle partenze.
L'efficacia di queste misure tuttavia è strettamente connessa alle capacità di prevenzione delle autorità nazionali e internazionali e alla loro interazione. Non a caso, si è molto discusso di errori da parte belga che hanno posto il Paese al centro di polemiche a livello internazionale.
Non è la prima volta che Bruxelles riceve critiche per la cattiva gestione delle indagini relative al terrorismo. Ad esempio, una volta catturato Salah Abdeslam, responsabile degli attacchi coordinati di Parigi del 13 novembre, la notizia diffusa dalle autorità belghe riguardo la collaborazione del terrorista con gli inquirenti potrebbe aver accelerato l’attuazione di nuovi attentati da parte dei jihadisti ancora in libertà. Probabilmente, se la notizia fosse stata mantenuta riservata, l’intelligence belga avrebbe potuto fare un utilizzo diverso delle informazioni ottenute per cercare di prevenire le mosse di altri terroristi.
Israele può essere un modello?
Una delle critiche più severe è venuta dall'ex Direttore di sicurezza dell'aeroporto di Tel Aviv considerato uno dei più sicuri al mondo, che ha affermato che un attacco del genere non sarebbe mai potuto accadere al suo Ben Gurion.
Sui media internazionali si è discusso se e come certe pratiche considerate da molti “troppo dure” possano contribuire a una sicurezza efficace. Ad esempio, in Israele i passeggeri vengono interrogati da agenti addestrati ancora prima di raggiungere il check-in. Questa attività, chiamata Profiling, può durare qualche minuto o un'ora intera, a seconda delle caratteristiche della persona che emergono durante il colloquio, con lo scopo di identificare individui potenzialmente pericolosi.
Basandosi sul presupposto che gli attacchi terroristici vengono compiuti da persone in grado di essere riconosciute e fermate, il “fattore umano” è considerato la chiave del modello di sicurezza israeliano. Tale approccio è completato da un monitoraggio totale da parte di telecamere anche delle aree dell'aeroporto meno frequentate dai viaggiatori, e da sistemi di rilevazione per individuare l'introduzione nell'area di materiali pericolosi.
Se può essere utile considerare tale modello di sicurezza i 73 milioni di passeggeri annui negli aeroporti europei - contro i 15 milioni di Ben-Gurion - rendono più difficile attuare le medesime misure anche in ambito Ue.
Non bisogna infine dimenticare che l'esigenza di migliorare la sicurezza negli aeroporti europei deve essere affiancata da un aumento immediato della condivisione di informazioni tra le autorità dei singoli Paesi membri, soprattutto tra i rispettivi servizi di intelligence nazionali, per evitare che la violenza jihadista riesca nuovamente a colpire il Vecchio Continente.
Sofia Cecinini è stagista presso l’area Sicurezza e Difesa dello IAI; Alessandro Marrone è responsabile di ricerca del Programma sicurezza e difesa dello IAI (Twitter @Alessandro__Ma).
- See more at: http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=3471#sthash.LO6aXY5u.dpufCome quanto accaduto all’aeroporto dii Bruxelles Zaventem due mesi fa, lo Charles-de-Gaulle è stato setacciato dalle autorità francesi alla ricerca di possibili indizi che siano in grado di dare una spiegazione alla catastrofe. Già nel mese scorso, l'Unione europea, Ue, e gli Stati membri avevano iniziato a discutere una serie di misure per far fronte alla minaccia terroristica verso gli aeroporti europei.
Le mosse dell’Ue
Diversi gli obiettivi più importanti fissati dal comunicato congiunto dei ministri della giustizia e degli interni dell'Ue riunitisi il 24 marzo. Si parte dall’attuazione della direttiva sul codice di prenotazione, Pnr, contenente tutte le informazioni riguardo ai passeggeri.
È previsto infatti che ogni Stato membro stabilisca una propria “Unità di informazione passeggeri”, Uip, per raccogliere i dati delle compagnie aeree e scambiarli reciprocamente nel minor tempo possibile. Tali dati dovranno essere conservati per un periodo di cinque anni.
Vi è poi il tema della condivisione delle informazioni tra le autorità e gli operatori dei trasporti in modo da adottare misure di attenuazione ove necessario. Altri obiettivi sono il completamento della legislazione in materia di lotta contro il terrorismo e l’attuazione di controlli sistematici delle frontiere esterne dell'area Schengen, portando avanti un'ulteriore cooperazione antiterrorismo tra l'Ue, la Turchia e i Paesi del Nord Africa, del Medio Oriente e dei Balcani occidentali.
I ministri riunitisi hanno poi deciso di sostenere il Gruppo contro-terrorismo, Ctg, e la creazione di una piattaforma dedicata allo scambio multilaterale di informazioni in tempo reale, prevedendo anche un più frequente ricorso a squadre investigative congiunte europee al fine di coordinare le indagini e raccogliere e scambiare prove.
Simili punti si trovano nel documento per contrastare le minacce “ibride” adottato dalla Commissione europea e dall'Alto Rappresentante il 6 aprile, in cui viene sottolineato anche che la cooperazione ed il coordinamento tra Nato e Ue è di fondamentale importanza.
Nuove sfide per l’Europa
Se fino ad oggi le procedure di controllo sono state volte ad evitare che i potenziali terroristi salissero a bordo dei velivoli, le esplosioni nelle sale delle partenze a Zaventem hanno reso evidente che le grandi aree pubbliche sono oggi vulnerabili ad attacchi.
L'Europa deve quindi fronteggiare la necessità di incrementare fortemente i livelli di sicurezza nei cosiddetti “soft target”, ovvero le aree comuni di passaggio. Da qui la necessità di introdurre monitoraggi più completi, anche delle aree meno frequentate dai viaggiatori, con telecamere e sistemi di rilevamento in grado di individuare l'introduzione nell'area di materiale pericoloso, così come l'aumento della presenza dei unità cinofile all'interno delle sale delle partenze.
L'efficacia di queste misure tuttavia è strettamente connessa alle capacità di prevenzione delle autorità nazionali e internazionali e alla loro interazione. Non a caso, si è molto discusso di errori da parte belga che hanno posto il Paese al centro di polemiche a livello internazionale.
Non è la prima volta che Bruxelles riceve critiche per la cattiva gestione delle indagini relative al terrorismo. Ad esempio, una volta catturato Salah Abdeslam, responsabile degli attacchi coordinati di Parigi del 13 novembre, la notizia diffusa dalle autorità belghe riguardo la collaborazione del terrorista con gli inquirenti potrebbe aver accelerato l’attuazione di nuovi attentati da parte dei jihadisti ancora in libertà. Probabilmente, se la notizia fosse stata mantenuta riservata, l’intelligence belga avrebbe potuto fare un utilizzo diverso delle informazioni ottenute per cercare di prevenire le mosse di altri terroristi.
Israele può essere un modello?
Una delle critiche più severe è venuta dall'ex Direttore di sicurezza dell'aeroporto di Tel Aviv considerato uno dei più sicuri al mondo, che ha affermato che un attacco del genere non sarebbe mai potuto accadere al suo Ben Gurion.
Sui media internazionali si è discusso se e come certe pratiche considerate da molti “troppo dure” possano contribuire a una sicurezza efficace. Ad esempio, in Israele i passeggeri vengono interrogati da agenti addestrati ancora prima di raggiungere il check-in. Questa attività, chiamata Profiling, può durare qualche minuto o un'ora intera, a seconda delle caratteristiche della persona che emergono durante il colloquio, con lo scopo di identificare individui potenzialmente pericolosi.
Basandosi sul presupposto che gli attacchi terroristici vengono compiuti da persone in grado di essere riconosciute e fermate, il “fattore umano” è considerato la chiave del modello di sicurezza israeliano. Tale approccio è completato da un monitoraggio totale da parte di telecamere anche delle aree dell'aeroporto meno frequentate dai viaggiatori, e da sistemi di rilevazione per individuare l'introduzione nell'area di materiali pericolosi.
Se può essere utile considerare tale modello di sicurezza i 73 milioni di passeggeri annui negli aeroporti europei - contro i 15 milioni di Ben-Gurion - rendono più difficile attuare le medesime misure anche in ambito Ue.
Non bisogna infine dimenticare che l'esigenza di migliorare la sicurezza negli aeroporti europei deve essere affiancata da un aumento immediato della condivisione di informazioni tra le autorità dei singoli Paesi membri, soprattutto tra i rispettivi servizi di intelligence nazionali, per evitare che la violenza jihadista riesca nuovamente a colpire il Vecchio Continente.
Sofia Cecinini è stagista presso l’area Sicurezza e Difesa dello IAI; Alessandro Marrone è responsabile di ricerca del Programma sicurezza e difesa dello IAI (Twitter @Alessandro__Ma).
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