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Metodo di Ricerca ed analisi adottato


Il medoto di ricerca ed analisi adottato è riportato suwww.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com

Vds. post in data 30 dicembre 2009 seguento il percorso:
Nota 1 - L'approccio concettuale alla ricerca. Il metodo adottato
Nota 2 - La parametrazione delle Capacità dello Stato
Nota 3 - Il Rapporto tra i fattori di squilibrio e le capacità delloStato
Nota 4 - Il Metodo di calcolo adottato

Per gli altri continenti si rifà riferimento al medesimo blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com per la spiegazione del metodo di ricerca.

martedì 16 giugno 2015

Marocco: come affrontare il problema della alimetazione

Area euro-mediterranea
Sviluppo delle produzioni agroalimentari: il Marocco
Daniela Corona
11/06/2015
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Nell’area del Maghreb, il Marocco si distingue per essere il Paese ad aver intrapreso con più determinazione un cammino di riforme in materia di politica agroambientale modellate sui tre grandi pilastri dello sviluppo sostenibile: crescita economica, equità sociale e protezione ambientale.

Il Piano Marocco Verde
Il “Piano Marocco Verde” (Plan Maroc Vert) lanciato nel 2008 si situa al cuore di questo processo di riforme, e porta in primo piano l’emergenza di sviluppare il sistema agricolo nazionale attraverso riforme che ne accentuino la produzione e migliorino la qualità dei prodotti creando, al contempo, un clima favorevole agli investimenti diretti stranieri.

Secondo le ultime stime fornite dalla FAO, la popolazione marocchina passerà dagli attuali quasi 34 milioni agli oltre 42 milioni nel 2050 (mentre in tutto il continente africano si conteranno circa 2 miliardi di persone); allo stesso tempo, però, l’estensione di terre coltivabili diminuirà a causa del cambiamento climatico e della scarsità di risorse idriche.

Tutto ciò in un Paese dove il settore agricolo contribuisce per il 15% alla formazione del Pil e impiega il 46% della popolazione attiva. A fronte di tali dati, è evidente che la sicurezza alimentare (intesa come l’accesso costante e generalizzato al cibo e all’acqua necessari per vivere) non potrà essere garantita dal sistema agricolo tradizionale.

Nuove tecnologie in agricoltura 
È per questa ragione che, sempre più, anche il Marocco sembra essere tentato dalla possibilità di aprire le porte all’utilizzo degli Ogm come strumento per aumentare la produzione agricola, alla stregua di altri Paesi africani che l’hanno già fatto (Sudafrica, Burkina Faso, Egitto e Sudan) o che si accingono a farlo (Camerun, Ghana, Kenya e Malawi).

Ad oggi, nel Paese non c’è un chiaro quadro normativo quanto all’uso e alla commercializzazione di prodotti geneticamente modificati: da un lato, in virtù di una semplice circolare del Ministero dell’Agricoltura del 1999, è vietato formalmente l’ingresso, la coltivazione e la commercializzazione di prodotti Ogm (salvo per i mangimi animali); dall’altro, secondo un documento ufficiale del 2013 relativo alla disciplina nazionale sulla bio-sicurezza, l’introduzione delle moderne biotecnologie non è esclusa nel prossimo futuro.

Dove alla fine cadrà la scelta del Marocco dipende anche dall’influenza di due importanti partner commerciali del Paese: l’Unione europea (Ue), con cui il Marocco ha antichi e profondi legami storici, culturali ed economici, e gli Stati Uniti, con cui il Paese ha un accordo di libero scambio dal 2004.

Tradizionalmente situati su fronti opposti quanto alla questione degli Ogm, l’Ue e gli Stati Uniti stanno di fatto spingendo il Marocco verso due posizioni opposte.

Rapporti con l’Ue
L’Ue, con cui il Marocco sta negoziando un nuovo accordo di libero scambio (“Deep and comprehensive free trade agreement”, Dcfta), ha approvato un programma di supporto al “Piano Marocco Verde” per il periodo 2010-2014 che prevede il sostegno ai piccoli agricoltori, investimenti in tecnologie e nella ricerca.

Da parte sua, il Marocco sta adattando il proprio quadro regolamentare per la sicurezza alimentare proprio sul modello della legislazione vigente nell’Ue con lo scopo di favorire e intensificare gli scambi commerciali.

I rigidi controlli nella filiera alimentare previsti dalla legge quadro approvata nel 2010 (Loi n° 28-07) e le regole di etichettatura stabilite nel 2013 (Décret n° 2-12-389) sono chiari esempi di come il Marocco stia seriamente perseguendo l’obiettivo di innalzare il livello di sicurezza alimentare (qui intesa come salubrità igienica e nutrizionale degli alimenti) allineandolo agli standard europei.

Rapporti con gli Stati Uniti 
Allo stesso tempo però, dalla sponda atlantica, arrivano incentivi e contributi miranti ad aumentare l’interesse del Marocco verso i potenziali benefici delle nuove biotecnologie applicate al settore agricolo.

Il potente Dipartimento per l’Agricoltura degli Stati Uniti stanzia annualmente fondi destinati proprio ad accogliere e formare personale proveniente dai Paesi in via di sviluppo tra cui, appunto, tecnici, funzionari e scienziati marocchini, con lo scopo dichiarato di “preparare il terreno” all’ingresso del settore delle biotecnologie nel Paese.

La sfida del Morocco nel prossimo futuro sarà dunque quella di riuscire a costruire, basato sui tre pilastri dello sviluppo sostenibile, un sistema produttivo che sappia coniugare l’aumento della produzione agricola con la qualità e la sicurezza dei prodotti; il sostegno ai piccoli agricoltori con gli interessi dei grandi finanziatori, tra cui anche gli Stati Uniti e alcuni Stati europei.

Daniela Corona ha conseguito il titolo di dottore di ricerca in Diritto dell’Unione europea presso l’European University Institute di Firenze ed insegna attualmente al Collège d’Europe di Bruges.
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lunedì 15 giugno 2015

LIbia: il contenimento dell'ISIS non può che essere in Africa

Isis, Italia, Occidente
Dopo Palmira e Ramadi: solo la Libia?
Laura Mirachian
30/05/2015
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A lungo si è detto che la Libia è il luogo ove concentrare con priorità assoluta l’impegno italiano ed europeo. Tutti concordi nell’addebitare al drammatico vuoto d’istituzioni consensuali in questo paese le cause e le responsabilità dell’ingente e crescente flusso di migranti verso le nostre coste.

Così, ci siamo avviati nell’impervia strada di una risoluzione dell’Onu che autorizzi operazioni di contrasto al traffico di esseri umani lungo le rotte mediterranee nei pressi delle coste libiche. Confidando in un avallo di Russia e Cina che, se verrà, determinerà la natura dell’operazione stessa, più simile al pattugliamento anti-pirateria in corso lungo il Corno d’Africa che all’azione di identificazione, cattura e distruzione delle imbarcazioni degli scafisti in acque territoriali libiche prospettata nell’ipotesi originaria.

Una politica, la nostra, focalizzata sul contrasto al ‘pericolo’ più ravvicinato, al contenimento delle masse in movimento dal mare, magari con una punta di nostalgia per i vecchi assetti libici che consentivano di bloccare i flussi nei deserti, non importa come. E confidando, per il resto, sull’Inviato dell’Onu Bernardino Leon.

Nel frattempo, stiamo assistendo alla rapida espansione dell’Isis nei territori iracheni e siriani, e alla altrettanto rapida proliferazione di gruppi jihadisti che ad esso si richiamano in terre ben più lontane dell’Africa e dell’Asia.

Una pressione apparentemente incontenibile, una violenza distruttiva, sorretta da indicibili manipolazioni del fattore religioso, che continua a capitalizzare su fame e paura, sulla debolezza delle leadership locali, e soprattutto sull’inerzia della comunità internazionale e l’ambiguità delle potenze regionali.

La risposta occidentale in termini di bombardamenti e droni, con il corredo di armamenti forniti a curdi e combattenti locali considerati moderati, si sta rivelando sostanzialmente inefficace, senza contare che finisce per colpire anche schiere di civili inclusi donne e bambini e relative dimore.

E chissà che non abbia l’effetto collaterale di alimentare odio e contrapposizione per chi quei bombardamenti li conduce. E di incoraggiare il flusso di foreing fighters, in nome di una perversa solidarietà alla causa. Che differenza c’è, per la popolazione civile dei villaggi e dei centri urbani, tra i bombardamenti della coalizione a guida americana e quelli di Assad o di Al-Abadi?

E per contro, si sa che l’Isis, una volta attestato in un territorio, applica abilmente una politica mista di violente intimidazioni e di recupero di un minimo di consenso tramite qualche elargizione per la sopravvivenza: chi sopravvive e si sottomette, troverà aperto il forno per il pane.

Non solo a valle
Affrontare il problema a valle, contrastando i traffici degli umani in mare, potrà, con i caveat del caso, essere utile, ma non ferma l’emorragia a monte. Quelle migliaia di persone che continuano ad affollarsi sulle coste della sponda sud del mare alla ricerca di un passaggio. E che finisce per alimentare il traffico clandestino e le finanze di scafisti e relativi sostenitori, con il rischio di ulteriore destabilizzazione dei paesi costieri.

Un approccio irrazionale, dettato dall’emergenza e inopinatamente alimentato da voci nei nostri Paesi. Logica vorrebbe che il problema venisse affrontato, con la stessa priorità e urgenza, anche a monte. Qual è la nostra strategia?

Sul terreno, registriamo in Iraq che l’esercito di Al-Abadi non combatte a sufficienza (dopo Mosul, Ramadi con l’esplicito richiamo del Pentagono), paventiamo le scorribande delle milizie sciite nei villaggi sunniti, e ci chiediamo per quanto tempo i peshmerga potranno resistere (l’accorato appello di Barzani alla vigilia della Conferenza di Parigi).

In Siria constatiamo che persino le forze armate di Assad, dopo anni di tenuta, stanno perdendo terreno, che il contrasto all’Isis è affidato a Hezbollah e ai padrini dell’Iran, e ci interroghiamo su quando i ‘ribelli moderati’ in via di selezione per l’addestramento militare in Turchia e Giordania saranno in grado di scendere in campo.

Nel frattempo, l’Isis avanza. Non è nemmeno escluso che pianifichi una testa di ponte jihadista nei nostri territori.

Iniziativa diplomatica per il Levante
Nello scacchiere del Levante manca una strategia politica coerente. E un’iniziativa diplomatica credibile.

Il tema Siria/Iraq è costantemente all’ordine del giorno di incontri bilaterali, da ultimo Kerry con Lavrov e Putin, dell’Unione europea, della stessa compagine arabo-islamica. Un lavorìo a compartimenti stagni, se non in vera e propria concorrenza quanto al disegno finale, che non sembra sortire risultati diversi da dichiarazioni più o meno incisive o nuove forniture di armamenti a destinatari locali o regionali di varia inclinazione.

È certo comprensibile che l’Occidente, con meditato giudizio e alla luce delle recenti infelici esperienze, escluda un coinvolgimento militare diretto nello scacchiere.

È meno comprensibile che non si faccia carico di un’iniziativa diplomatica solida e convincente, che raccordi, dopo quattro anni di travaglio, i protagonisti internazionali, regionali, e locali, intorno a pochi ma cruciali parametri: cessate il fuoco, fine delle forniture di armi agli estremisti, corridoi umanitari, sistemazione della causa sunnita in Iraq, nuovi assetti inclusivi e pluralistici in Siria, in larga sintesi rispetto delle differenze e dei diritti umani fondamentali, e poi assistenza alla ricostruzione.

Facendo maturare e sostenendo ciò che parrebbe emergere dagli stessi Stati arabi e islamici dell’area, da ultimo la ministeriale Organizzazione per la cooperazione islamica (Oci) in Kuwait, sempre più inquieti per i loro stessi destini. L’Isis bussa ormai alle loro porte.

Ma se non è l’Occidente a prendere l’iniziativa, è improbabile che la prendano i protagonisti della regione, ancora impegnati in una competizione accanita per il consolidamento di rispettive aree di influenza.

Cooperazionecon l’Africa
Ma occorre al contempo alzare lo sguardo più oltre. Larghissima parte dei clandestini che cercano salvezza e futuro attraversando il mare sono africani. Il bacino di utenza dell’emigrazione è l’Africa.

La chiave di volta di una ragionata politica di contenimento dei flussi non può che essere in Africa. Meritoria dunque la strategia di cooperazione a largo raggio con questo Continente che l’Italia sta rilanciando, nei contatti bilaterali e multilaterali, e anche mediante specifiche iniziative nel contesto dell’Expo e delle Nazioni Unite.

Cooperazione che dovrebbe esprimersi non solo in relazione alla co-gestione dei flussi migratori con i paesi di origine e di transito, ma riguardare un loro sviluppo equilibrato, che sgombri il campo da malgoverno, corruzione, mire predatorie delle élite, sopraffazioni, e punti alla convivenza civile, ad assetti istituzionali sostenibili, ad un’equa distribuzione della ricchezza e alla riduzione delle scandalose diseguaglianze sociali (come anche l’Fmi non cessa di sottolineare).

Un impegno di largo respiro, convergente se non congiunto con i partner europei e internazionali, il solo davvero in grado di alleggerire e disciplinare i flussi di disperati verso le nostre coste.

Laura Mirachian, Ambasciatore, già Rappresentante Permanente presso l’Onu, Ginevra.
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