Medio Oriente Egitto possibile baluardo a difesa del Golfo Roberto Iannuzzi 24/12/2014 |
La cosa apparve evidente fin dai giorni successivi al golpe con cui l’esercito egiziano rovesciò il presidente Mohamed Morsi, esponente dei Fratelli Musulmani, sull’onda di una vasta protesta popolare nel luglio 2013.
Ostilità storica alla Fratellanza Musulmana
Nel febbraio 2011, la destituzione del presidente egiziano Hosni Mubarak, fedele alleato del regno saudita e degli Eau, aveva rappresentato un duro colpo per Riyadh e Abu Dhabi. Che un leader arabo potesse essere spodestato e addirittura processato costituiva un pericoloso precedente per le monarchie del Golfo.
A ciò si aggiunga la diffidenza storica che Arabia Saudita ed Eau nutrono nei confronti della Fratellanza Musulmana, i cui esponenti erano in parte emigrati nella penisola araba a partire dalla metà degli anni ’50.
Sfuggiti alla repressione delle repubbliche arabe, soprattutto quella egiziana del presidente Gamal Abdel Nasser, questi fuoriusciti crearono movimenti religiosi, sociali e politici nel Golfo, embrioni di potenziali focolai di opposizione alle monarchie.
L’ascesa regionale della Fratellanza a seguito della cosiddetta “Primavera Araba” aveva rappresentato un nuovo campanello d’allarme per Riyadh e Abu Dhabi. Si spiega così il loro generoso sostegno politico ed economico all’Egitto di Al-Sisi all’indomani del golpe dell’estate 2013.
Arabia Saudita ed Eau hanno copiosamente finanziato il nuovo regime, insieme al Kuwait, per un ammontare superiore ai 10 miliardi di dollari nel 2013-14. Al contempo hanno promosso e organizzato la conferenza economica internazionale che si terrà a Sharm el-Sheikh, nel marzo 2015, per raccogliere investimenti stranieri a favore dell’Egitto.
Le due monarchie hanno poi esercitato forti pressioni su Washington perché riattivasse i propri aiuti militari all’esercito egiziano e Riyadh si è addirittura spinta a finanziare l’acquisto egiziano di armi russe per un valore di 2 miliardi di dollari.
Simbolo dello stretto rapporto che lega la monarchia saudita all’Egitto di Al-Sisi è la nuova ambasciata inaugurata lo scorso settembre sulle rive del Nilo. Costruita su un’area di 40 mila metri quadri, è la più grande fra quelle possedute dal regno saudita.
Risaldare la spaccatura nel Golfo
Le vicende egiziane sono anche all’origine della grave frattura consumatasi all’interno del Ccg. L’appoggio dato dal Qatar al governo della Fratellanza in Egitto, e poi la sua aperta opposizione al regime di Al-Sisi, hanno infatti provocato uno scontro aperto fra Doha da un lato e Riyadh e Abu Dhabi dall’altro, portando il raggruppamento del Golfo sull’orlo della disintegrazione.
Il vertice Ccg di dicembre a Doha ha segnato un’apparente riconciliazione, che però rimane superficiale. Essa è frutto degli sforzi sauditi di riportare il Qatar nell’alveo del Ccg, spingendolo a cessare il proprio sostegno ai Fratelli Musulmani e a unirsi alle altre monarchie nel difendere il nuovo regime egiziano. Una “missione” tutt’altro che compiuta.
La visione saudita ed emiratina non fa grossa distinzione tra l’autoproclamatosi “Stato islamico” di Iraq e Siria, Is, la Fratellanza Musulmana, ed altri movimenti ad essa affini, classificandoli tutti (compresi gli oppositori interni, violenti e nonviolenti) sotto la comune etichetta dell’estremismo e del “terrorismo”.
Secondo questa prospettiva, le battaglie lanciate rispettivamente contro l’Is, la Fratellanza in Egitto, il movimento sciita degli Houthi nello Yemen, e le milizie islamiche di “Operazione Alba” in Libia fanno tutte parte di un’unica grande guerra contro il “terrorismo” che va combattuta dal Maghreb al Golfo Persico. E l’Egitto di Al-Sisi rappresenta un alleato chiave in questa battaglia.
Paradossalmente, però, proprio nella crisi siriana che sta così a cuore ai sauditi non vi è unità di vedute con il Cairo. Al-Sisi, sospettoso nei confronti dell’opposizione siriana, considera il presidente siriano Bashar Assad come parte di una possibile soluzione del conflitto, a differenza di Riyadh.
Alleanza sostenibile?
Sono tuttavia ben altri i problemi dell’alleanza fra Egitto e Ccg. Soprattutto, il modello economico proposto da Al-Sisi non differisce molto da quello che ha fallito sotto Mubarak, mentre i livelli di repressione nel paese sono enormemente superiori.
L’ampio ricorso ai tribunali militari, le tattiche della terra bruciata contro i gruppi jihadisti in Sinai, la repressione dei media e del dissenso, alimentano l’estremismo invece di contenerlo.
Le monarchie del Golfo, per garantire la propria stabilità, dovranno a loro volta risolvere i loro problemi interni prima di contare sulle alleanze regionali. Il crollo dei prezzi petroliferi riduce le loro possibilità di spesa, e potrebbe costringerle a dare la priorità ai propri investimenti interni rispetto agli aiuti elargiti ai paesi alleati.
Alla luce di ciò, il progetto delle monarchie di ricreare una stabilità regionale ancorandola all’Egitto di Al-Sisi potrebbe rivelarsi illusorio.
Roberto Iannuzzi è ricercatore presso l’Unimed (Unione delle Università del Mediterraneo). È autore del libro “Geopolitica del collasso. Iran, Siria e Medio Oriente nel contesto della crisi globale”.