Riscatti Pagare o non pagare, questo il dilemma Antonio Armellini 16/11/2014
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Devono o no gli stati pagare un riscatto nel caso, purtroppo sempre più frequente, di rapimenti a scopo politico e di estorsione?
La risposta è certamente no, però dipende. Dipende innanzitutto dai contesti; quindi da considerazioni etiche, politiche, di opportunità. Il tutto finisce per determinare in diversa maniera i comportamenti e l’applicazione delle norme.
Sacralità della vita Vs sacralità dello stato Vi è un primo gruppo di argomenti, di natura che potremmo definire etica. Per alcuni paesi il rispetto della sacralità della vita non può prevalere sulla tutela della sacralità dello stato, in quanto garante non solo del bene del singolo, ma di quello dell’intera comunità.
Piegarsi alla logica illegale di una richiesta di riscatto lede questa sacralità, va contro l’interesse generale e non può essere mai giustificato. A parere di altri invece, la vita costituisce un bene supremo che prevale su ogni altro valore poiché è nella sua tutela che si incarna la sacralità dello stato; la logica illegale del riscatto va respinta, ma ciò non cancella il valore primario della vita individuale.
Tagliando le cose con l’accetta, si possono grosso modo identificare con la prima lettura i paesi di cultura protestante di matrice nord-europea: Stati Uniti e Gran Bretagna in primis; con la seconda, quelli di tradizione cattolica latina (ma non solo) quali l’Italia o la Spagna.
La Francia essendo a cavallo fra le due, sta nel mezzo, sia pure con una prevalenza per quella cattolica. Tutto ciò in teoria: nella realtà accade spesso che paesi dalla posizione formale intransigente accedano a trattative di cui negano con decisione l’esistenza, a volte contro l’evidenza. In questo appare, per una volta, meno ambigua la posizione di un paese come l’Italia, che quando paga lo fa senza confermare, ma neanche smentire con eccessiva e controproducente sicurezza.
Tolleranza trattativista Sui comportamenti descritti incidono considerazioni di costo-beneficio e di opportunità politica. C’è insomma rapimento e rapimento: quando la minaccia viene percepita come fortemente sistemica, lo spazio per la trattativa tende a ridursi.
Molto conta l’atteggiamento dell’opinione pubblica nel fissare l’asticella della “tolleranza trattativista”: qui entrano di nuovo in gioco le considerazioni etiche di cui abbiamo parlato. Il rapimento e la decapitazione di prigionieri inglesi e americani da parte dell’autoproclamatosi Stato islamico (Is) ha suscitato indignazione e ha al contempo compattato l’opinione maggioritaria nel rifiuto di qualsiasi compromesso: il sacrificio dei singoli è un orrore che esige vendetta, ma non può determinare la compromissione della solidità dello stato nel tutelare la propria integrità.
Diverso il caso, per fare un esempio, dell’atteggiamento italiano per le due volontarie italiane partite per la Siria senza adeguate preparazione e copertura, e rapite in circostanze mai chiarite del tutto. In questo caso, agli occhi dell’opinione pubblica l’esigenza di ottenerne il rilascio fa premio su qualsiasi altra considerazione: la trattativa non appare come una prova di debolezza bensì come adempimento di un canone etico che ne giustifica l’azione.
La qualità dei rapiti è anch’essa rilevante. Per una giornalista importante come Giuliana Sgrena si mobilitò - con le conseguenze tragiche che conosciamo - un apparato rilevante. Per i tecnici rapiti in Libia l’attenzione è inevitabilmente minore. Può sembrare cinico ma, nella valutazione di costo-benefico, la capacità di mobilitazione in termini politici e di opinione pubblica è un fattore importante non meno degli altri.
Cercasi risposta coordinata della comunità internazionale C’è poi una sorta di graduatoria informale della pericolosità della minaccia posta dei rapitori rispetto all’interesse nazionale. Come ha osservato su queste pagine Natalino Ronzitti, la pirateria per così dire “commerciale” è talmente diffusa che gli armatori la includono fra i rischi assicurabili della loro attività: non si reclama l’intervento diretto dello stato e si provvede altrimenti (a volte lo stato si mette in situazioni di inutile ambiguità assumendo compiti non suoi.
Se la nostra Marina non avesse deciso di far imbarcare su navi mercantili dietro pagamento propri militari con compiti assimilabili a quelli di “contractors sui generis”, non ci troveremmo oggi nel pasticcio dei nostri marò).
Gli atti terroristici compiuti nel contesto di conflitti intra- e inter-statuali non a carattere globale - il Mali, la Nigeria, la Libia - prevedono un livello di risposta commisurato all’importanza che il paese vittima degli stessi attribuisce al proprio ruolo nella regione: vada per tutti l’esempio della fermezza mostrata da Parigi rispetto alle crisi nell’ex Africa occidentale francese.
Vi sono le minacce sistemiche globali - Al Qaida, Is, ma anche Boko Haram - che richiederebbero una risposta coordinata da parte della comunità internazionale nel suo complesso; il fatto che essa sia stata spesso zoppicante costituisce un potente incentivo per queste forme di violenza e mette in mostra una debolezza che dovrebbe indurre a riflettere su quali siano le caratteristiche e i limiti di un sistema internazionale di sicurezza nel quale manchi un centro dì imputazione - e di potere - egemone e perciò stesso unitario.
Fin quando i rapitori saranno eroi per alcuni, e criminali per altri, un canone condiviso per contrastare quello che, per altri versi, è un fattore importante di devianza dalla legalità internazionale sarà molto difficile.
Si spiega così perché aldilà degli impegni politici e delle dichiarazioni di buona volontà, un sistema pattizio che definisca regole ed impegni comuni non si sia di fatto mai mostrato efficace.
L’alternativa fra pagare o non pagare appare difficilmente riconducibile all’ambito della certezza giuridica per rientrare in quello del pragmatismo - saggezza, prudenza, cinismo - della politica. Come sempre quando si entri in questa dimensione, vale il detto che la politica propone la peggiore delle soluzioni; eccezion fatta per tutte le altre.
Antonio Armellini, Ambasciatore d’Italia, è commissario dell’Istituto Italiano per l'Africa e l'Oriente (IsIAO).
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