Medio Oriente Dubbi attorno alla scommessa del Fmi sul Cairo Roberto Aliboni 30/09/2016
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L’Egitto del presidente Abdel Fattah Al-Sisi sta negoziando un prestito del Fondo monetario internazionale, Fmi, di circa 12 miliardi di dollari. La generosità del Golfo verso il regime si è presto inaridita, specialmente quella dell’Arabia Saudita.
Riyadh non solo ha problemi crescenti di ordine interno, internazionale e finanziario, ma i Fratelli Musulmani non sono più il suo nemico numero uno, come quando appoggiò il colpo di stato che ha portato Al-Sisi al potere. Da allora, il regime ha visto un notevole deterioramento della situazione economica e finanziaria.
La Realpolitik del finanziamento In Occidente nessuno ama il regime egiziano, ma la sua stabilità e la sua vicinanza politica, in un quadro di durevole violenza e declino dell’influenza occidentale, preoccupa molto. L‘Egitto è un altro passo indietro dell’Occidente nel difficile rientro dall’idealismo democratico e riformista che animò la sua politica internazionale e mediorientale nel post-guerra fredda.
La prossima tappa sarà probabilmente il compromesso che si dovrà fare in Siria con Assad. Nell’ambito del neo-realismo che sostituisce l’idealismo si colloca l’ampio finanziamento che il Fmi si appresta a dare al governo del Cairo: esso è indubbiamente promosso da forti ragioni economico-finanziarie, ma è innanzitutto promosso da ragioni politiche, cioè dalla necessità di impedire il collasso del regime e sostenere un equilibrio favorevole nella regione.
Potrà il prestito davvero contribuire a stabilizzare l’Egitto? Il Paese è in una situazione assai difficile. Produzione e investimenti sono fermi e il turismo si è gravemente ridotto. Sono in disavanzo tanto la bilancia commerciale che quella dei pagamenti.
Di conseguenza c’è un “dollar shortage” e forti tensioni sui cambi che comportano svalutazioni della lira egiziana e inflazione. Inflazione e bassa crescita s’intrecciano in una spirale viziosa. Tutto ciò ha fatto crescere le diseguaglianze nella distribuzione del reddito, alimentando il declino della classe media.
Al governo - diminuito l’aiuto finanziario del Golfo e non arrivando investimenti dall’estero - non resta che prendere risorse a prestito dal Fmi. Per aiutare effettivamente l’Egitto a uscire dalla situazione attuale queste risorse dovranno essere gestite con una giudiziosa e determinata politica economica e delle riforme. Sarà in grado il governo dell’Egitto a fare sia pure sotto il controllo del Fmi quello che non è riuscita a fare sinora?
Regime frammentato Una buona parte delle analisi del regime al potere suggerisce che esso è seriamente frammentato in aree di potere che operano in dissenso e competizione fra loro. Al-Sisi non appare come l’uomo forte che l’opinione pubblica e forse anche i governi occidentali percepiscono.
Ashraf El-Sharif, un professore della American University in Cairo, dice che rispetto a questo sistema frammentato, Al-Sisi è una sorta di risultante residuale. Il potere quindi è diviso e conteso fra le “state institutions” (i militari, i vari servizi segreti, il Ministero dell’Interno e la polizia, i giudici) delle quali il Presidente non è che una. Forse ha qualche potere di mediazione, ma non è la più potente.
La frammentazione non è un teorema accademico. L’Italia la conosce direttamente attraverso il caso Regeni. Come che sia, questa frammentazione - che dopotutto corrisponde al vecchio “Egitto profondo” - non sembra potere consentire lo sforzo necessario a utilizzare convenientemente il prestito del Fmi. Perciò i governi occidentali debbono considerare che il prestito in sé e per sé è una scelta giusta, ma che potrebbe fallire perché in effetti non esistono le condizioni politiche per il suo successo.
Dilemma dell’Occidente Il dilemma in cui l’Occidente si trova oggi dopo aver abbandonato la classe media della regione o lasciato che fosse soverchiata da ogni genere di forze conservatrici (i militari in Egitto, il regime di Assad in Siria, l’Arabia Saudita in Yemen e un po’ ovunque) è che non ha un interlocutore valido da aiutare.
La regione presenta più in generale una prospettiva di coalizioni fra poteri forti invece che governi forti, certamente poco adatte a imporre riforme o arginare la corruzione. Abbiamo visto l’Egitto, ma si può argomentare che lo stesso accadrà in Siria (dove Assad riuscirà a restare ma non senza compromessi), che in Tunisia sta prevalendo una sorta di “trasformismo” e in Libia forse non si riuscirà neppure ad arrivare alla “alliance of dictatorial state institutions” del professor El-Sherif.
In conclusione, il prestito è necessario ma questo prestito, al pari di altri sostegni e prestiti che verranno, non potrà avere successo se non quando l’Occidente nel suo insieme o l’Europa da sola, lasciando da parte le astratte politiche di promozione della democrazia dei decenni passati, non si convinceranno a lasciare che le classi medie mussulmane emergano politicamente con la cultura che hanno anche se a noi non piace.
Roberto Aliboni è consigliere scientifico dello IAI.
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