Medioriente Sinai, cerniera contro il Jihad Mario Arpino 26/09/2013 |
Assieme ai busti bronzei dei padri della patria, questo ospita una celebrazione non-stop della guerra iniziata il 6 ottobre 1973 - per gli israeliani lo Yom Kippur - quando le forze egiziane riuscirono a passare il Mar Rosso e mettere piede sulla penisola, dopo aver sfondato la famosa Linea Bar Lev. Fu questo l’unico, effimero successo di quella guerra, che agli egiziani e ai turisti viene presentata come una grande vittoria da tramandare ai posteri.
Il Sinai nel regime di Morsi
Non è da escludere che anche il Sinai sia da mettere in relazione con la defenestrazione dell’ormai ex-presidente Mohammed Morsi. Può essere stata la goccia che fa traboccare il vaso. Dopo le elezioni presidenziali del giugno 2012, la situazione del Sinai ha cominciato a deteriorarsi molto rapidamente, con attacchi terroristici contro l’oleodotto che serve anche Giordania e Israele e il reiterarsi di agguati a elementi dell’esercito e della polizia.
Tra i più cruenti c’è quello dell’agosto 2012 un mese dopo la vittoria elettorale di Mursi, dove 16 soldati sono rimasti uccisi. Le responsabilità furono addossate a miliziani jihadisti trafilati dal quel poroso confine con Gaza che il deposto presidente Hosni Mubarak, aveva tentato di sigillare, riuscendoci solo in parte.
Dopo tutte le dichiarazioni di Mursi sulla continuità degli accordi di Camp David e di Oslo, che contemplano anche la sicurezza del Sinai, i militari si aspettavano una reazione robusta da parte del neo-eletto. Azione che in effetti ci fu, ma nella direzione opposta. Fu destituito,il general Hossam Tantawi, ministro della difesa e capo di stato maggiore, assieme al capo dell’intelligence.
Legami sospetti
I legami tra i Fratelli Mussulmani e Hamas resero difficile per i soldati sia la chiusura dei tunnel - la cui economia aveva ormai ripreso a proliferare - sia l’identificazione dei colpevoli, che, indisturbati, trovavano sistematicamente rifugio nel sud di Gaza. Lo scorso maggio, nella stessa area furono rapiti sei poliziotti e un soldato, ma Morsi frenò l’azione militare già pronta a scattare invitando tutti alla calma e al dialogo.
Era necessario proteggere sia i rapiti, che i rapitori. Con questo sistema, che per l’esercito era la prova lampante della collusione tra i Fratelli, Hamas e i gruppi jihadisti, i rapiti furono in effetti liberati, i rapitori rimasero impuniti e i bulldozers inviati per sigillare i tunnel. Per i militari, era inaccettibile che il Sinai diventasse una zona fuori controllo. Il presidente fu ritenuto corresponsabile dell’evento e un ostacolo alla sicurezza. Aveva ormai firmato la sua sorte ed il tramonto del percorso politico-istituzionale dei Fratelli.
Possibile santuario estremista
Nel Sinai vive mezzo milione di abitanti che risiedono per lo più nelle città costiere, mentre l’interno - deserto e morfologicamente tormentato - è abitato dalle tribù beduine, di cittadinanza egiziana. Ma, secondo Mordechai Kedar, lettore di arabo e storia dell’Islam all’Università di Tel Aviv, questi si identificano nello stato egiziano non più di quanto i beduini del Negev si sentano israeliani. Sono beduini e basta. Transfrontalieri nelle migrazioni, vivono di piccolo commercio e contrabbando, verso cui egiziani e israeliani chiudono un occhio.
Si è trovato un accomodamento, e i pericoli per il Sinai non vengono certamente da loro, nonostante i tentativi di infiltrazione salafita e jihadista. Nella penisola, il confine tra Egitto e Israele altro non è se non una linea obliqua tracciata sulla carta tra l’area di Eilat (Taba) e quella di al-Arish ( versi Rafah), senza muri, filo spinato e con pochi cippi. Nonostante l’importanza dell’area, le autorità egiziane hanno sempre faticato a imporre la propria autorità. Con grande disappunto da parte di Israele che aveva mantenuto per diversi anni il controllo del territorio dopo la guerra dei sei giorni.
Con il trattato di Camp David del ‘79, il Sinai, area da demilitarizzare, era ritornato all’Egitto. Accordi successivi, tuttavia, avevano consentito lo stazionamento di truppe egiziane per motivi di sicurezza. Ciò non ha comunque impedito numerosi attentati, tra cui ricordiamo, nel nuovo secolo, quello all’hotel Hilton di Taba, i tre attacchi a Dahab ed il razzo verso Aqaba, in Giordania.
Secondo gli analisti, oggi sono almeno tre i gruppi estremisti islamici che - con un grado di collusione con Hamas e i Fratelli Musulmani ancora in corso di valutazione - cercano di rendere questo territorio, difficile e poco accessibile, una sorta di santuario per il jihad.
Si tratta del Consiglio consultivo del jihad per Gerusalemme, basato a Gaza, ritenuto responsabile dei lanci di missili e di infiltrazioni nel Sinai (ricordiamo i recenti lanci di Grad su Eilat). Questo gruppo è prevalentemente palestinese, ma sarebbe in posizione conflittuale persino con Hamas.
Esisterebbe poi un Gruppo organizzato per il jihad, con effettivi stranieri: una propaggine di al-Qaeda per il nord-Africa. In questi giorni, in Israele, si parla anche di un nuovo gruppo armato, chiamato Scudo del Sinai. Affiliazione, composizione e finalità sarebbero ancora in fase di analisi.
Il nuovo regime del generale Abdel Fattah al-Sisi sta cercando di ottemperare agli accodi di Camp David e ai conseguenti accordi bilaterali con gli israeliani in modo più energico e incisivo di quanto fecero Mubarak e Tantawi. Tuttavia, l’ambiguo comportamento di Mursi potrebbe aver già seriamente pregiudicato una situazione che va recuperata a tutti i costi.
Quasi quotidianamente nel Sinai ci sono attacchi mortali. Ultimamente, il più cruento è stato quello del 19 agosto, dove sono morti venticinque poliziotti egiziani. È anche per questo che il primo settembre, i bulldozer dell’esercito egiziano hanno demolito tredici abitazioni e sradicato diversi alberi lungo il confine della Striscia di Gaza per istituire una zona cuscinetto larga 500 metri e lunga dieci chilometri. Dal 7 settembre è poi in corso un’offensiva dei militari egiziani contro cellule di terroristi con ingenti effetti collaterali sulla popolazione beduina.
La poco comprensibile ostilità al nuovo regime da parte dell’Occidente certamente non aiuta. Ma per i militari egiziani il Sinai resta importante e pur di non perderlo, potrebbero rivolgersi altrove senza troppe remore. Di questo, possiamo esserne certi.
Giornalista pubblicista, Mario Arpino collabora con diversi quotidiani e riviste su temi relativi a politica militare, relazioni internazionali e Medioriente. È membro del Comitato direttivo dello IAI.
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