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Con i suoi 11.300 chilometri quadrati di superficie, il Gambia è il più piccolo e il più densamente popolato stato dell’Africa subsahariana: la minuscola enclave anglofona del Senegal è stata protagonista, nelle ultime settimane, di un turbolento cambio al vertice.
Sin dal 1994, anno in cui Yahya Jammeh conquistò il potere attraverso un colpo di Stato, il Paese è stato teatro di torture e di continue violazioni dei diritti umani, che hanno viste represse libertà di espressione e di stampa. Le quattro elezioni a suffragio universale tenutesi fra 1996, 2001, 2006 e 2011 hanno poi legittimato il potere di Jammeh per gli ultimi due decenni: tuttavia, il suo governo autoritario è sorprendentemente capitolato a fronte dei risultati delle ultime consultazioni, tenutesi il 1° dicembre scorso. Ventidue anni e quattro mandati di feroce ed eccentrico governo sono stati messi alla prova dall’esponente del Partito democratico unito, l’imprenditore Adama Barrow. Nel limbo fra dittatura e democrazia La conferma della vittoria di Barrow è stata accolta dalla popolazione come una rivincita rispetto all’angusto spazio di manovra che, politicamente, Jammeh aveva da sempre riservato a cittadini e oppositori. Tuttavia, dall’accettazione dell’esito elettorale alla sua ferma contestazione, per il dittatore il passo è stato breve. Il 9 dicembre, sulla base di sedicenti brogli elettorali ed “ingerenze straniere”, Jammeh ha schierato l’esercito a Banjul, la capitale, e a Serekunda, la più grande città del Paese, annunciando lo stato di emergenza. Da quel momento, il Paese è stato sospeso in un limbo, uno spazio indefinito ai confini tra dittatura e democrazia che ha costretto il presidente eletto Barrow a lasciare il Gambia e prestare giuramento all’interno dell’ambasciata a Dakar, il 19 gennaio. All’indomani del giuramento,il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha adottato la risoluzione 2337, sottolineando l’assoluta necessità di una transizione democratica pacifica, nel pieno riconoscimento della validità delle elezioni presidenziali e delle funzioni del presidente Barrow. Contemporaneamente, la Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (Ecowas) ha deciso di schierare, in maniera preventiva, truppe lungo il confine del Gambia. Più di 7000 uomini provenienti da Senegal, Nigeria, Ghana, Togo e Mali hanno infine varcato le soglie del paese da sud-est, sud-ovest e da nord, ma l’intervento è stato temporaneamente interrotto a favore di un ultimo tentativo di mediazione pacifica condotto dal presidente della Guinea, Alpha Conde. Il 21 gennaio, nel corso dei negoziati, Jammeh ha infine accettato di cedere il potere all’avversario Barrow, uscendo definitivamente di scena. La richiesta di amnistia per i crimini commessi in più di vent’anni di governo incontestato e di rimanere in Gambia, nel villaggio natale di Kanilai, non sono state però accettate dal presidente della commissione dell’Ecowas, Marcel Alain Souza, che ha al contrario ritenuto necessario un allontanamento di Jammeh dal Paese per motivi di sicurezza e ordine pubblico. Il presidente Barrow ha poi chiesto il mantenimento delle truppe straniere in Gambia per i prossimi sei mesi, a sostengo di un’adeguata transizione democratica. Il ruolo dell’Ecowas Il pacifico passaggio di potere è stato una vittoria per la soft diplomacy, celebrata anche dal Segretario generale dell’Onu António Guterres. La transizione, e la scioccante rivelazione secondo la quale Jammeh sarebbe partito per la Guinea Equatoriale dopo aver sottratto alle casse dello Stato un tesoro pari all’1% del Pil, pongono tuttavia nuovi interrogativi sul futuro politico ed economico del Gambia, già gravato dal peso di un sistema produttivo zoppicante, che lo ha reso uno dei maggiori Paesi di emigrazione verso l’Europa. Il meccanismo diplomatico messo in moto dall’Ecowas dimostra però pienamente che l’efficacia delle organizzazioni regionali e internazionali nell’affrontare questo tipo di crisi interne dipende dalla gestione congiunta delle stesse, non viziata da poteri di veto o sovrastata dai particolari interessi nazionali che ogni Stato gioca sulla scacchiera di qualsiasi relazione di potere. L’equilibrio fra le forze in campo è ricalibrato in favore di un approccio meno aderente alla realpolitik, attraverso cui è addirittura possibile porre un freno all’ingerenza militare, pur sempre prevista dall’articolo 4 dell’Atto costitutivo dell’Unione africana. Un approccio che sembra riscattare l’Ecowas da tardive e disorganizzate esperienze pregresse che hanno messo a dura prova le sue capacità operative, come nel caso dell’intervento in Nigeria contro il gruppo terroristico Boko Haram. La soft diplomacy, o diplomazia preventiva, entra ora in gioco avendo chiari tanto gli strumenti da utilizzare quanto l’obiettivo da raggiungere: sostenere l’affermazione e l’essenza stessa della democrazia, che è mediazione, dialogo, collaborazione. I due aspetti centrali della diplomazia preventiva sono, da un lato, la ricerca di un’eventuale conciliazione delle differenze intercorrenti tra le due fazioni o gli attori in lotta; dall’altro, il fermo sostegno della comunità internazionale al processo di mediazione e risoluzione della controversia. Elementi presenti sullo sfondo della crisi gambiana, e tempestivamente utilizzati. Possibile che cruciale nella risoluzione pacifica delle controversie sia semplicemente il “fattore tempo”? Senza dubbio, è necessario trarre dalla fortuna di questo intervento ogni insegnamento positivo. Il futuro del Paese Dalle dichiarazioni rilasciate da Adama Barrow, si spera che il Gambia sia finalmente arrivato al giro di boa. Il Paese africano è stato già condannato ad un futuro sempre più lontano dalle dinamiche internazionali, a seguito dell’uscita dal Commonwealth nel 2013 e dalla Corte penale internazionale nel 2016, accusati da Jammeh di essere eccessivamente sbilanciati a favore degli interessi occidentali. Barrow promette oggi di porre fine alla politica isolazionista del suo predecessore, in nome di una genuina cooperazione internazionale. L’elezione dell’esponente democratico fa ben sperare anche rispetto ad un miglioramento delle prestazioni economiche di un Paese in cui metà della popolazione vive attualmente sotto la soglia di povertà, carente nelle esportazioni e ancora principalmente dipendente da agricoltura e turismo. Altro elemento cruciale su cui il neo-presidente si è detto pronto a intervenire riguarda una riforma costituzionale a tutto tondo, con l’introduzione di limiti temporali ai mandati presidenziali, così da assicurare l’alternanza di capi di Stato e impedire a eventuali dittatori di prolungare indisturbati il proprio regime di oppressione. Francesca Cocomero è assistente alla ricerca del Budapest Centre for Mass Atrocities Prevention. |
venerdì 10 febbraio 2017
Gambia: turbolenze per la leaderschip
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