Da inizio agosto si susseguono i raid statunitensi contro le postazioni dell’Isis (Daesh) in Libia, a Sirte. Viene per il momento escluso l’invio di truppe di terra.
Si vuole ripetere il copione già sperimentato, in verità con scarso successo, in altre aree e specialmente in Iraq: sul terreno combattono le forze del governo locale, supportate dal cielo dall’alleato americano.
In verità, gli Usa erano già intervenuti contro l’Isis in novembre a Sabratha per neutralizzare un campo di addestramento e in febbraio per far fuori un leader dell’organizzazione terrorista.
L’incertezza di Roma L’Italia ambisce alla guida della coalizione per il ristabilimento dello stato libico, ma finora si è limitata a coordinare le riunioni del gruppo di contatto e non intende impegnarsi in prima persona in azioni belliche.
Sono lontani i tempi in cui era stato detto che 5000 uomini erano pronti a partire. Ha prevalso l’indirizzo prudente del governo Renzi che, tradotto dal suo ministro degli Esteri, ha dichiarato che l’Italia non si sarebbe fatta trascinare in pericolose avventure. Quanto questa prudenza sia conciliabile con l’ambizione di assumere un ruolo guida è tutto da dimostrare.
A quanto risulta, gli Stati Uniti avevano avvertito l’Italia dell’imminenza delle operazioni. Tuttavia i raid, effettuati con aerei e droni, sono partiti da navi Usa nel Mediterraneo e dalla Giordania, nonostante che gli Stati Uniti possano utilizzare le basi italiane e il 22 febbraio 2016 sia stato concluso un accordo per lo stoccaggio e l’uso di droni armati a Sigonella.
L’Italia si è affrettata a dire, con un comunicato della Farnesina, che “valuta positivamente” le operazioni aeree Usa contro le postazioni dell’autoproclamatosi stato islamico a Sirte e, a scanso di equivoci, ha affermato di essere pronta “a valutare positivamente un’eventuale richiesta di uso delle basi e dello spazio aereo se fosse funzionale a una più rapida e efficace conclusione delle operazioni in corso” contro l’Isis.
Il linguaggio è chiaro: non ci si vuole impegnare in prima persona. Ma prima o poi i nodi verranno al pettine. Qualora, con la sconfitta dell’Isis e il consolidamento del governo guidato da Fayez al-Sarraj, fosse necessario costituire una missione di peace-building, quale sarebbe il ruolo italiano? Una missione di peace-building è una sorta di via di mezzo tra il peace-keeping ed il peace-enforcement e postula per sua natura l’invio di uomini sul terreno che, in appoggio al governo locale, possono anche impiegare le armi.
La legalità degli interventi Usa Quale base giuridica hanno i raid Usa che sono stati ordinati dal presidente Barack Obama? A differenza di altri stati occidentali, gli Stati Uniti non vanno tanto per il sottile quando decidono di usare la forza. La loro maggiore preoccupazione è di ordine interno e, nel caso concreto, è stato fatto riferimento ad un’autorizzazione ricevuta dal Congresso nel 2001 (Authorization to Use Military Force, Aumf), che è servita in tutti questi anni per le numerose operazioni belliche in cui Washington è stata impegnata.
Il Pentagono ha comunque giustificato l’intervento a Sirte con la richiesta da parte del governo di al-Sarraj. Il consenso dell’avente diritto, cioè dello stato in cui le incursioni hanno luogo, è una valida causa di giustificazione in diritto internazionale per usare la forza. Solo che il governo al-Sarraj, pur essendo stato legittimato dalla risoluzione 2259 (2015) del Consiglio di sicurezza (Cds) dell’Onu come il governo legittimo della Libia, è un ente fiduciario, la cui effettività è in progress.
La Russia si è affrettata a dire che i raid americani sono illegali, dimenticando che ha invece giustificato il proprio intervento in Siria con la richiesta da parte di Assad, capo di un governo screditato, scarsamente effettivo, che non rappresenta più il popolo siriano.
Può l’intervento Usa trovare semmai la sua giustificazione nel paragrafo 12 della risoluzione 2259 del Cds, che invita gli stati membri a dare supporto al governo al -Sarraj? Direi di no, e infatti gli Stati Uniti non ne hanno fatta menzione.
La risoluzione non fa riferimento al Capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite e al linguaggio che il Cds usa quando autorizza gli stati a usare la forza. Al valore taumaturgico della risoluzione 2259 e al suo paragrafo 12 crede invece il governo italiano, secondo quanto si apprende dalle dichiarazioni effettuate il 4 agosto dinanzi alle commissioni congiunte Esteri e Difesa di Camera e Senato.
L’insostenibile leggerezza dell’Ue Ho preso a prestito il titolo del romanzo di Milan Kundera che ben si attaglia all’inettitudine dell’Unione europea (Ue) e alla sua assenza di peso specifico nella crisi libica, nonostante il pericolo rappresentato dall’insediamento di un’organizzazione terroristica vicino alle coste della sua frontiera meridionale.
L’Ue si è limitata all’istituzione della Eunavformed Sophia, operazione che dovrebbe contrastare il traffico illegale di migranti nel Mediterraneo centrale di fronte alle coste libiche. Un compito di primaria importanza, poiché i terroristi possono viaggiare con i migranti e soprattutto perché il traffico illecito è diventato una fonte di finanziamento per l’Isis.
Sennonché la missione navale si trova ancora a metà della sua seconda fase e non è stata autorizzata a entrare nelle acque territoriali libiche e a mettere mano alla terza fase, che prevede lo sbarco sulla costa e la distruzione dei battelli dei trafficanti. La missione è stata prolungata al luglio 2017, con l’aggiunta di due nuovi compiti: l’addestramento della guardia costiera libica e l’attuazione dell’embargo sulle armi decretato dal Cds.
È disposta l’Ue a utilizzare le proprie capacità militari per un’operazione di stabilizzazione in Libia? Un’eventualità di cui neppure si parla e che è frustrata sul nascere da alcuni stati membri che vedrebbero con favore una divisione della Libia e intanto intrattengono rapporti più o meno coperti con il governo di Tobruk.
Cosa fare adesso Con l’intensificarsi dell’azione Usa in Libia si avvicina per l’Italia il momento della verità. Il primo nodo sarà quello della concessione delle basi militari. Non si potrà assistere passivamente al loro impiego, ma dovranno essere richieste precise garanzie quanto alle modalità di uso, tenendo anche conto degli obiettivi militari che s’intendono colpire. Un’azione illegale ci renderebbe corresponsabili.
In breve, l’incremento dell’azione bellica non ci consente di nutrire wishful thinkings e di rincorrere piani più o meno immaginari di leadership senza impegnarci in azioni concrete. Un’azione che il governo dovrebbe immediatamente intraprendere è di portare la questione libica in sede europea, allo scopo di verificare se l’Unione sia in grado di impegnarsi in un’efficace azione di peace-building, che vada oltre le iniziative settoriali finora effettuate.
Natalino Ronzitti è professore emerito di Diritto internazionale (Luiss Guido Carli) e consigliere scientifico dello IAI.
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