Egitto Sermoni unificati e predicatori certificati, così Al-Sisi costruisce il consenso Azzurra Meringolo 02/03/2016 |
Anche se il Ministero degli Affari religiosi guidato da Mokktar Gomaa continua a ribadire che i predicatori non dovrebbero usare il pulpito per parlare di questioni politiche, l’avvicinarsi del quinto anniversario dello scoppio della rivoluzione di piazza Tahrir ha mostrato che dentro le moschee accade esattamente il contrario. Le prediche pronunciate in occasione della preghiera comunitaria del venerdì veicolano sempre di più messaggi esplicitamente politici.
Esaltazione dell’apparato di sicurezza
Discorsi alla mano, basta leggere i titoli di queste prediche per capirne il taglio. Il sermone dell’8 gennaio si intitolava “Unità per la costruzione e la salvaguardia del paese - una domanda legittima e un dovere nazionale”, mentre quello della settimana successiva è stato dedicato alla benedizione della sicurezza.
In un momento in cui le nuove istituzioni stanno erodendo sempre di più lo spazio pubblico, tali discorsi si presentano come una fonte di legittimazione a questo ennesimo giro di vite. Così facendo, si allineano alla lunga serie di leggi, decreti e dichiarazioni attraverso le quali il governo accusa quanti provano a indire manifestazioni di mettere a rischio la stabilità nazionale.
Il controllo del discorso religioso non è una dinamica entrata a far parte della politica egiziana in occasione di quest’ultima ricorrenza. Sin dallo scorso anno, il regime ha infatti cercato di fare della religione uno strumento politico, utilizzandola quindi per garantire la sua legittimazione e contribuire alla sua tenuta.
Per farlo il governo ha in primis rafforzato la sua presa sulle moschee, chiudendo le più piccole, proibendo ai predicatori non certificati di parlare dai pulpiti e controllando i sermoni della preghiera comunitaria del venerdì.
Questo processo ha portato all’introduzione della distribuzione di sermoni standardizzati, scritti dal ministero degli Affari religiosi e consegnati ai vari predicatori che si limitano - o almeno questo dovrebbero fare - a leggerli ogni venerdì ai fedeli che si riuniscono nelle moschee: 80 mila, dopo la chiusura - da parte del regime - di quelle più piccole e informali.
Dopo aver quasi raddoppiato il numero di predicatori stipendiati, per invogliarli all’obbedienza, lo scorso novembre il governo, che già nel 2014 aveva impedito a 12 mila imam non certificati di predicare, ha annunciato di premiare i più ligi con circa 100 euro. Questo bonus non potrà fine nelle tasche di imam che non si attengono rigorosamente alla lettura del sermone inviato, che superano il tempo stabilito dal ministero per la durata della predica e non indossano la divisa ufficiale di Al-Azhar ( la massima autorità dell’Islam sunnita).
Lotta agli avversari, anche dai pulpiti
Anche se l’introduzione di sermoni standardizzati è stata, sin dal suo avvio, una misura controversa, è soprattutto negli ultimi mesi, quando il loro messaggio politico è diventato sempre più esplicito, che ha iniziato a provocare le reazioni di alcuni imam.
Oltre ai sermoni che hanno esaltato il ruolo della polizia e dell’esercito, ultimamente sono sempre più frequenti i richiami contro il terrorismo e l’estremismo religioso. Questi ultimi sono stati usati dal governo per giustificare la sua lotta contro i suoi avversari interni, quelli che vengono generalmente etichettati come terroristi.
Questa evoluzione non ha lasciato silenti i predicatori, soprattutto quelli che durante il periodo islamista hanno fatto il possibile per evitare che la Fratellanza Musulmana li usasse come megafoni del suo messaggio, adoperandosi per evitare il contagio tra religione e politica.
Pur rimanendo nell’anonimato, sono sempre di più coloro che ritengono che i fedeli egiziani non continueranno in eterno ad ascoltare comizi politici all’interno dei luoghi sacri. Soprattutto se il messaggio politico sarà così esplicito e parziale. E qualora questo si verificasse veramente, la tenuta del regime potrebbe risentirne.
Una sfera religiosa parallela
Come già anticipato nel maggio 2014 da Robert Springborg, uno dei più importanti studiosi dell'Egitto contemporaneo, Sisi si è appoggiato all'Islam per legittimare il suo regime autocratico più di quanto abbia fatto credere agli osservatori egiziani e stranieri.
In una realtà dove il controllo del consenso e del conformismo religioso è parte integrante della strategia che ridisegna e consolida il sistema istituzionale ed economico di questo ultimo capitolo della repubblica egiziana, la campagna comunicativa di Al-Sisi altro non è che una strumentalizzazione della religione per fini politici.
Anche se l'obiettivo di queste politiche è quello di rafforzare il controllo statale sulla sfera pubblica, il rischio è che tali misure portino in realtà alla nascita di una sfera religiosa parallela. Uno spazio alternativo che sfuggendo al controllo delle istituzioni statali, diventi un bacino di raccolta per gruppi radicali estremisti che potrebbero qui organizzarsi per diffondere le loro idee e reclutare nuovi membri.
Azzurra Meringolo è ricercatrice presso lo IAI e caporedattrice di Affarinternazionali. Coordinatrice scientifica di Arab Media Report. Potete seguirla sul suo blog e su twitter a @ragazzitahrir.
Nessun commento:
Posta un commento