Egitto La lunga mano di Al-Sisi sui poteri indipendenti Viola Siepelunga 18/01/2017
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“Ci siamo preoccupati di controllare i mezzi di informazione sin dal primo giorno in cui noi (militari, ndr) abbiamo ripreso il potere”. Parola del presidente egiziano Abdel Fattah Al-Sisi.
Quando si è fatto scappare queste dichiarazioni - era l’ottobre 2013 -, come nelle migliori tradizioni egiziane il futuro raìs indossava ancora la divisa da generale. Ecco perché all’epoca le sue parole risuonavano solo come intimidatorie.
Riascoltate tre anni dopo, alla fine di un’annata in cui lungo il Nilo sono stati arrestati 25 giornalisti, quelle affermazioni sembrano piuttosto avere annunciato una profezia divenuta in fretta realtà. Nel 2016, infatti, l’Egitto ha conquistato il gradino più basso di un podio, quello di chi calpesta la libertà di stampa, le cui posizioni più alte sono già occupate da Turchia e Cina.
Libertà di espressione e sfera pubblica Nel tentativo di terrorizzare e mettere a tacere il maggior numero possibile di professionisti dell’informazione critici nei confronti dei militari, Al-Sisi non si è fatto scrupoli a utilizzare un apparato repressivo che ha fatto perno su censura e autocensura per garantire la tenuta del paese.
Un meccanismo tutt’altro che nuovo alla storia repubblicana egiziana. Già il primo presidente, Gamal Abdel Nasser, cercò di nazionalizzare il sindacato della stampa, mentre il suo successore, Anwar al-Sadat, fece di tutto per trasformarlo in un club.
Al resto pensarono Hosni Mubarak e, nel suo breve periodo al potere, l’islamista Mohammed Morsi: entrambi fecero infatti il possibile per avere saldamente il controllo della testa e dei diversi organi del sindacato. Nessuno dei due, però, riuscì a realizzare pienamente l’obiettivo.
Sul terreno della libertà di stampa si è quindi combattuta la battaglia della sfera pubblica egiziana, la cui sopravvivenza, qui minacciata, è stata già negata in altri ambiti. La resistenza è continuata anche negli ultimi dodici mesi, in quella che diversi analisti descrivono come l’epoca della più nera repressione mediatica dell’ultimo secolo di storia egiziana.
Una legge per controllare i media A confermare questa preoccupante escalation sarebbe anche una recente legge che si propone di regolamentare, da un punto di vista istituzionale, i mezzi d’informazione. Atteso da tempo e a lungo discusso, il nuovo testo di legge - approvato dal Parlamento prima di Natale - prevede la creazione di tre organismi destinati a supervisionare tutte le piattaforme mediatiche attive lungo il Nilo.
Al primo organo spetta il compito di vigilare sulla stampa statale, anche al fine di selezionarne i vertici; al secondo quello di controllare tutti gli altri canali statali. Il terzo occhio del Grande Fratello del Cairo, l’Alto consiglio per la regolamentazione dei media, dovrebbe invece estendere il suo sguardo sui restanti altri media, pubblici e privati.
Questo accresciuto potere di controllo dello stato sul settore mediatico è in linea con quanto già previsto dalla legge anti-terrorismo approvata da Al-Sisi nell’estate 2015. Questa, infatti, proibisce ai giornalisti di riportare statistiche e notizie false o non ufficiali, soprattutto se relative allo scottante tema della sicurezza e alle altre linee rosse tracciate - più o meno nettamente - dal regime.
Ecco perché è stata immediata l’alzata di scudi del sindacato dei giornalisti, da mesi in aperto scontro con i militari e l’apparato di sicurezza.
Secondo Yehia Qallash - leader dell’Unione che, pur avendo partecipato alle discussioni sulla legge, ha denunciato di essere stato ignorato nella stesura del testo definitivo -, il provvedimento contraddice l’art. 72 della nuova Costituzione, che mira a proteggere l’indipendenza dei media dallo stato, anche al fine di garantire, tramite l’equo accesso ai diversi canali, la neutralità dell’informazione.
Magistratura e regime, vigilia dell’ennesimo scontro L’interferenza dello Stato sul quarto potere non è l’unica a fare discutere. A inizio gennaio, il dibattito si è spostato anche sulla magistratura.
Una bozza di legge depositata da un deputato appartenente alla coalizione che sostiene Al-Sisi ha infatti proposto che sia il presidente a scegliere e nominare i vertici delle quattro principali autorità giudiziarie del Paese. Attualmente, queste figure sono scelte dalle assemblee generali di ciascuna istituzione in base anche all’anzianità di servizio.
Secondo la nuova proposta di legge, dovrebbe invece spettare al presidente della Repubblica il potere di scegliere, senza alcun chiaro criterio, chi promuovere in una rosa di nomi proposti.
Il primo a opporsi a questo disegno di legge è stato il Consiglio supremo della magistratura, istituzione che, essendo direttamente toccata da questa eventuale modifica, ha espresso chiaramente le sue riserve. Nel dibattito è poi intervenuto il Club dei giudici, gruppo che - sin dal massacro del 1969 - è stato protagonista dei principali scontri della storia egiziana tra regime e togati.
Dieci anni fa, il Club si espose apertamente contro il vecchio faraone, dando il via a una battaglia per la riforma del sistema giudiziario che rafforzasse l’indipendenza dall’esecutivo. Allora, questa ‘rivolta dei giudici’ fu sedata dal regime di Mubarak sempre con un misto di pratiche repressive e di cooptazione.
Alle elezioni successive, nel 2009, nel Club si imposero giudici niente affatto disposti a contrastare il regime. Pur traducendosi in un nulla di fatto, l’attivismo dei giudici riformisti (che anticipò, per alcuni aspetti, la rivoluzione del 2011), lasciò tuttavia un’eredità importante nei circoli dell’opposizione al regime.
Ecco perché durante la transizione, la magistratura venne vista come un’isola di integrità nel nuovo stato. In poco tempo, però, il regime di Al-Sisi è riuscito nella sua operazione di pulizia e attualmente il Club dei giudici non è così forte, arrabbiato e determinato come quello di dieci anni fa.
Difficilmente riuscirà quindi a mobilitare quelle masse di cittadini che lo avevano sostenuto nel passato più recente. Lo stesso si può dire del sindacato dei giornalisti che, pur essendo, dopo un momento di tregua, in aperto scontro con il regime, non ha però la forza di portare in strada milioni di persone. Anche se il livello di allarme è ancora sotto controllo, minimizzare la portata dello scontro in atto tra poteri sarebbe tuttavia un errore.
Il regime di Al-Sisi si regge sulla lealtà dei suoi pilastri portanti. Qualora questi vacillassero, magari rivendicando quell’autonomia formalmente riconosciuta ma nei fatti negata, l’intera impalcatura rischierebbe il tracollo.
Viola Siepelunga è una giornalista free lance.
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