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Le elezioni politiche marocchine del 7 ottobre potrebbero riconsegnare al Parti de la Justice et du Développement, Pjd, le chiavi dell’esecutivo. Il partito del premier Abdelilah Benkirane ha governato ininterrottamente dal 2011, quando il re convocò le elezioni anticipate per placare il “Movimento 20 febbraio”.
Da allora, i Fratelli musulmani del Marocco (privi però di affiliazione formale con gli Ikhwan) sono divenuti forza di governo: l’unico esempio regionale, insieme a Ennahda in Tunisia, di un Islam politico capace di adattarsi al contesto locale. Slogan contrapposti tra partiti, ma convergenza di fondo sulle policieseconomiche: perché il vero arbitro, in materia politica e religiosa, continua a essere re Mohammed VI. I duellanti Pjd e Pam Per cinque anni, il Pjd ha guidato una coalizione composta da socialisti, centristi, conservatori e, fino al 2013, nazionalisti (Istiqlal). Per superare la frammentazione partitica e scongiurare l’ingovernabilità sarà ancora necessaria una coalizione: la soglia di sbarramento è peraltro scesa al 3%. Il Partito dell’Autenticità e della Modernità, Pam, è oggi il principale sfidante del Pjd: due partiti speculari che sembrano però complementari, poiché capaci, con la loro propaganda, di occupare tutto lo spazio pubblico. I Fratelli marocchini, principale sigla dell’Islam politico, raccolgono voti nei centri urbani: nel 2015, tutte le grandi città del Marocco (Rabat, Casablanca, Tangeri, Fez, Agadir) hanno eletto sindaci del Pjd. Nel Pam, molto vicino alla monarchia e fondato da un consigliere del sovrano nel 2008, si riconoscono invece le aree rurali del paese. Anti-sistema vs anti-islamisti Tra Pjd e Pam c’è una sostanziale convergenza sulle misure economico-sociali da attuare, con il primo più attento alla giustizia sociale e il secondo alla crescita economica. Così, più che sul bilancio dell’esecutivo Benkirane, i due principali partiti stanno duellando su temi-bandiera. Come nella campagna elettorale del 2011, il Pjd insiste nella denuncia delle clientele e della corruzione: tahakoum, ovvero ˊdominioˋ, ˊautoritarismoˋ, è stata la parola più utilizzata dalla Fratellanza durante questa campagna, nonostante i Fratelli marocchini abbiano finora governato evitando di sfidare apertamente il makhzen, il sistema di potere monarchico. Mentre il Pjd continua a porsi come partito anti-sistema, il Pam si focalizza invece sull’identità islamica del Pjd. L’obiettivo è assimilare i Fratelli del Marocco agli altriIkhwan regionali (in primis gli egiziani), per convincere gli elettori della necessità di sostituire l’Islam politico con un progetto ˊmodernistaˋ. I salafiti sono tornati nella competizione elettorale, ma da indipendenti ospitati in liste altre (Pjd e Istiqlal). Non partecipa al voto al-Adl wal-Ihsan (Giustizia e Carità), del defunto shaykh Abdessalam Yassine. La formazione, critica nei confronti del regime marocchino, è però in competizione con i Fratelli per il monopolio sull’Islam politico: tra l’altro, il Pjd conserva un movimento religioso affiliato (haraka) prezioso per la mobilitazione giovanile. Le risorse di Mohammed VI Placate le rivolte di piazza, i principali attori politici marocchini dimostrano, nei fatti, di accettare le regole del gioco imposte da Mohammed VI, vero perno del sistema: tempestività nelle riforme e risorse religiose (oltre che i prestiti sauditi del 2011) rappresentano i veri jolly del sovrano contro manifestazioni e sirene jihadiste interne. Rivendicando discendenza diretta dal Profeta (sharaf), Mohammed VI rinnova costantemente la propria legittimità religiosa, dunque politica, mediante i rituali del potere (baraka, la benedizione e bay’a, il voto d’obbedienza) e il titolo di amir al-mu’minin (capo della comunità dei credenti). L’originalità dell’Islam marocchino, che applica la scuola di giurisprudenza malikita e ha istituzionalizzato il folk Islam sufi, è un altro argine al disordine interno. Guardando alla formazione statuale, la monarchia fu poi protagonista del processo di indipendenza post-coloniale del Marocco (1956). Il 20 agosto, Mohammed VI ha rivendicato in un discorso televisivo alla Nazione il proprio ruolo di guida religiosa: condannando il brutale assassinio di Padre Hamel a Rouen, il sovrano ha incitato la diaspora marocchina a rigettare la violenza jihadista. Dopo gli attentati di Casablanca nel 2003 (45 morti), il re si è intestato una politica religiosa capillare, incentrata sulla formazione degli imam, anche nell’Africa occidentale, secondo i caratteri dell’Islam marocchino. Il Marocco sembra rientrare però nel “modello” di esternalizzazione della violenza già delle monarchie del Golfo. Almeno 1200 marocchini si sono uniti all’autoproclamatosi “stato islamico” comeforeign fighters; secondo uno studio del Real Instituto Elcano di Madrid, il 41% dei detenuti in Spagna per reati legati al sedicente califfato è di nazionalità marocchina, mentre l’énclave di Ceuta è il primo territorio spagnolo per radicalizzazione. In un contesto così scivoloso, la probabile conferma dei Fratelli marocchini può quindi rappresentare un buon risultato anche per la monarchia. Eleonora Ardemagni, analista di relazioni internazionali del Medio Oriente. Gulf Analyst, Nato Defense College Foundation, collaboratrice di Aspenia e Ispi, commentatrice per Avvenire. Autrice di “The Gulf Monarchies’ complex fight against Daesh”, Nato Review, settembre 2016. |
giovedì 6 ottobre 2016
Marocco: prospettive inquietanti
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