Egitto Caso Regeni, le vie del diritto per ottenere giustizia Natalino Ronzitti 18/02/2016 |
Le nostre autorità, prontamente e doverosamente intervenute, trattandosi di un cittadino italiano, ripetono che non si accontenteranno di verità di comodo e che i responsabili dovranno essere puniti.
Bei propositi da prendere sul serio e da perseguire, senza il timore di mettere a repentaglio le relazioni economiche e politiche con un paese da tempo nostro alleato e con cui abbiamo recentemente rinsaldato i rapporti. Come impedire che la questione finisca nel dimenticatoio, dopo l’iniziale sdegno? Quali azioni possono essere intraprese?
Impossibile evocare tribunali penali internazionali
Prescindo da improbabili azioni a livello di tribunali internazionali. Tra l’altro non esiste per il momento una controversia in senso tecnico tra i due paesi interessati, ma non si può chiudere il caso e accontentarsi di eventuali scuse da parte egiziana.
Improprio è anche evocare l’azione di tribunali penali internazionali: in primo luogo poiché la Corte penale internazionale non giudica su singoli crimini; in secondo luogo perché l’Egitto non ha ratificato lo statuto della Corte, come è stato ricordato in occasione del tentativo di un gruppo di avvocati egiziani di mettere in moto il meccanismo di accettazione della competenza della Corte.
Indicherò due strade: la prima a livello internazionale, la seconda a livello interno. Ambedue i percorsi muovono dal presupposto che Regeni sia stato torturato e che, stando alle notizie della stampa occidentale, gli atti di tortura siano dovuti ad agenti dei servizi di sicurezza locali.
Di qui due conseguenze: primo, la tortura è un crimine internazionale che gli stati debbono prevenire e reprimere; secondo, qualora gli atti di tortura siano l’opera di agenti egiziani, l’Egitto è internazionalmente responsabile, quantunque gli agenti appartengano a servizi più o meno “deviati” o abbiano ecceduto dalle funzioni loro assegnate.
L’Egitto nella giurisprudenza internazionale sulla tortura
L’Egitto, come l’Italia, ha ratificato la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura del 1984 che assegna le funzioni di controllo sull’esecuzione della Convenzione al Comitato contro la tortura.
L’Egitto, però, a differenza dell’Italia, non ha accettato la clausola opzionale che attribuisce il potere a ogni stato parte di lamentare una violazione della Convenzione e di chiedere al Comitato di iniziare un’indagine ad hoc.
Altrimenti il Comitato si limita ad esaminare i rapporti degli stati a cadenza quadriennale e può condurre ispezioni nel territorio di uno stato parte, con il suo consenso e sempre che si tratti di uso sistematico della tortura e non di un singolo episodio. Inoltre l’Egitto non ha neppure ratificato il Protocollo opzionale del 2002 che ha rafforzato i sistemi ispettivi.
Le pratiche di tortura possono essere denunciate anche nell’ambito del Consiglio dei diritti umani (Nazioni Unite), in particolare in occasione dell’esame periodico universale (Upr, nell’acronimo inglese).
L’Egitto è stato ultimamente oggetto di Upr nel 2014. I membri del Consiglio hanno raccomandato che l’Egitto ratifichi il Protocollo opzionale del 2002 e introduca nel suo codice penale una più circostanziata definizione del reato di tortura (ma, sul punto l’Italia non può fare la voce grossa, poiché la relativa proposta di legge è ancora ferma al Senato!) ed hanno anche affermato che occorre impedire che si commettano atti di tortura a danno dei detenuti.
Tuttavia l’Upr non è lo strumento da impiegare per il caso Regeni. Si tratta inoltre di uno strumento cooperativo e non conflittuale, la prossima Upr per l’Egitto avrà luogo nel 2019!
Resta sempre la possibilità per l’Italia di proporre una risoluzione al Consiglio per l’istituzione di una commissione d’inchiesta. Ma a parte che le commissioni non riguardano il caso singolo (non credo che l’Italia voglia sollevare casi sistematici di tortura), è da chiedersi se la risoluzione riuscirebbe a ottenere la maggioranza necessaria per la sua adozione.
La responsabilità dello stato egiziano sul caso Regeni
L’improbabile presenza in futuro dei presunti responsabili in Italia, o la loro estradizione nel nostro paese, rende superflua ogni ulteriore considerazione circa la punibilità degli autori del reato che non potrebbero godere di nessuna immunità, anche qualora fossero funzionari dei servizi di sicurezza.
Una via da esplorare è piuttosto quella della responsabilità dello stato egiziano. Come abbiamo precisato, gli atti di tortura, qualora fossero stati commessi da funzionari dell’intelligence, deviata o meno, sarebbero imputati all’Egitto.
Questi potrebbe essere convenuto in giudizio dinanzi a un tribunale italiano da chi ne avesse titolo per chiedere il risarcimento del danno; l’Egitto non potrebbe invocare il principio dell’esenzione degli stati esteri dalla giurisdizione civile.
La possibilità di convenire in giudizio uno stato estero, messa in discussione da taluni tribunali stranieri, è regola che ha trovato invece piena applicazione in Italia, quando si è dovuto giudicare di atti che costituivano una lesione di norme a protezione di valori fondamentali della persona umana.
In conclusione, qualora si volesse mantenere la questione a livello bilaterale, l’Italia potrebbe lamentare la violazione di una norma internazionale, pretendere la punizione dei responsabili e il risarcimento del danno.
Alternativamente si potrebbe convenire in giudizio l’Egitto di fronte ai tribunali italiani per far constatare la commissione di un crimine internazionale e chiedere il risarcimento.
Natalino Ronzitti è professore emerito di Diritto internazionale (Luiss Guido Carli) e Consigliere scientifico dello IAI.
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