Libia Roma prova a rilanciare il negoziato libico Roberto Aliboni 11/12/2015 |
Gli ultimi sviluppi in questo paese sono in effetti assai preoccupanti: da un lato, si conferma il radicamento dell’autoproclamatosi “stato islamico”, Isis, soprattutto nell’area di Sirte (con inediti afflussi di “foreign fighters” dall’Africa saheliana e sub sahariana); dall’altro, il mandato di mediazione sotto la guida di Bernardino Léon si è concluso con un nulla di fatto.
Il “governo di concordia nazionale” che dovrebbe riportare ordine nel paese, riavviare la produzione di idrocarburi, filtrare l’emigrazione illegale verso l’Europa e combattere l’Isis sul terreno appare quanto mai lontano. La prospettiva economica e finanziaria del paese, affidata alle restanti riserve della banca centrale, è infine agli sgoccioli.
Gli schieramenti politico-militari che si erano formati con lo scoppio della guerra civile nel luglio del 2014 si sono molto erosi sia nell’un campo che nell’altro. Le milizie ora si combattono fra loro, ora si alleano per combattere l’Isis, ma è evidente che i sia pur deboli nessi esistenti con le forze politiche non esistono praticamente più.
Il parlamento di Tobruk, uscito dalle elezioni del giugno del 2014, ha terminato il suo mandato in ottobre. Quel che ne resta è molto diviso. Le istituzioni di Tripoli non sono meno divise e smarrite. C’è un vuoto istituzionale, ma soprattutto è assente una qualsiasi prospettiva poiché la proposta di soluzione dell’Onu appare sempre più screditata e oppugnata.
La mediazione di Léon ha acquisito partigiani da una parte e dall’altra delle due coalizioni, scompattando trasversalmente le parti, ma non è riuscita a creare una dinamica sufficientemente unificante. La Libia appare di nuovo frammentata, come prima della guerra civile iniziata nel luglio del 2014.
Léon, dopo la Libia gli Emirati
Occorre anche sottolineare che lo scandalo suscitato dalle rivelazioni del “Guardian” circa le intese personali che sarebbero intercorse fra Léon e il governo di Dubai (che mostrano un pregiudizio di Léon a favore di Tobruk a fronte di una ben remunerata posizione del diplomatico quale direttore di un think tank del governo degli Emirati), vere o false che siano, hanno largamente eliminato quel tanto di fiducia libica che Lèon era bene o male riuscito a riscuotere.
In questo contesto, l’ambasciatore Martin Kobler ha preso il posto di Léon. La sua scelta è di continuare a premere sulle parti affinché approvino e mettano in atto la bozza Léon.
Ha dei sostenitori, specialmente nell’ambito del parlamento di Tobruk, ma molti oppositori, specialmente a Tripoli, ma anche a Tobruk. Fra questi ultimi, un gruppo di deputati dell’una e dell’altra parte si è riunito in Tunisia da dove ha lanciato la proposta di un dialogo fra libici, articolato in un processo semplice e breve, da iniziare subito, in alternativa a quello dell’Onu. La proposta suscita un non indifferente interesse in Libia.
Le opzioni che potranno essere prese in considerazione a Roma non sono facili. Il proposito dell’Onu di insistere “comme si de rien n’était”, puntando sugli appoggi che la bozza Léon nondimeno riscuote (almeno nella versione meno partigiana adottata alla fine dell’estate), ma senza che si veda come superare le numerose e crescenti opposizioni, non sembra quella giusta.
Kobler, alla ricerca della fiducia perduta
Kobler dovrebbe offrire nuove proposte e una prospettiva di ulteriore modifica della piattaforma.
Innanzitutto dovrebbe assicurare maggiore trasparenza dei negoziati, che sotto la guida di Léon hanno proceduto nella continua separatezza delle parti. Le parti devono essere riunite attorno allo stesso tavolo e non sospettare che ci sia il pregiudizio che lo scandalo ha rivelato a favore di una delle due. Kobler dovrebbe cercare di recuperare la fiducia che è venuta meno - a torto o ragione che sia.
Alcuni nomi, come quello di Khalifa Haftar e Abdelk Rahman Suihaili dovrebbero essere nuovamente discussi poiché suscitano rigetti dall’una e dall’altra parte. La composizione dell’autorità esecutiva proposta nella bozza Léon dovrebbe essere ripresa in mano onde conferirle un migliore equilibrio di rappresentanza delle tre parti del paese.
Kobler infine dovrebbe incoraggiare una più stretta e idonea applicazione delle Risoluzioni Onu 1970 e 2174 e delle sanzioni e punizioni colà previste. Questo orientamento riguarda non solo e non tanto Kobler, ma soprattutto i membri dell’Onu, fra i quali ci sono anche sponsor regionali che da una parte invocano una soluzione, ma dall’altra di fatto la sabotano appoggiando una o l’altra delle parti in presenza.
Infine, Kobler e la comunità internazionale dovrebbero riconsiderare la questione della sicurezza. Il grande successo della mediazione di Léon è stato quello di staccare la città di Misurata dall’estremismo della coalizione di “Alba Libica”.
Tuttavia, pur avendo suscitato una corrente trasversale di adesione all’accordo nazionale, non ha dato soluzione a una serie di questioni concrete e scottanti, come in particolare la riforma del settore della sicurezza del paese. Questa questione non può essere semplicemente affidata a una fase successiva all’accordo.
È necessario che il nuovo governo abbia già alle spalle un minimo di consenso e direttiva sulla sua soluzione prima di potere materialmente procedere a compiti così rilevanti come esonerare il generale Haftar dalle sue funzioni di Capo supremo delle Forze Armate Libiche e dissolvere queste ultime ovvero integrare le forti milizie di Zintan, Tripoli e Misurata in una compagine unitaria di sicurezza nazionale.
Riforma del settore della sicurezza libica
Occorre riconoscere che questa è forse la questione più complessa in qualsiasi tentativo di risolvere la crisi libica. Tutti i governi più interessati, e da ultimo anche la Nato, affermano di essere disponibili a sostenere operazioni di pace per mantenere l’ordine e proteggere luoghi e persone - l’Italia in prima fila - ma a condizione che ci sia un governo.
Ma se questo governo non ha un mandato chiaro e un sostegno sufficiente delle parti almeno sulle condizioni di base per la riforma del settore della sicurezza, chiedendo l’intervento di forze di pace, metterebbe queste forze di fronte a un compito difficilmente sostenibile oppure, peggio, di fronte al rischio di trasformarsi in una forza partigiana ed essere quindi coinvolta in una nuova guerra civile.
Se davvero la comunità internazionale desidera sostenere e affermare una soluzione pacifica e politica alla crisi libica il compito è molto oneroso e impegnativo, sia per l’Onu che per quei paesi che tendono ad assumere la leadership di questa soluzione, come ora - si direbbe - l’Italia e gli Stati Uniti.
Occorre rettificare e riprendere in mano il negoziato su basi più neutrali e convincenti. Occorre contrastare le politiche d’interferenza nella crisi di alcune potenze regionali. Occorre infine lavorare per il varo e l’attuazione di una riforma del settore di sicurezza. Se questa riforma sarà impostata e la fiducia restaurata, si potranno mandare forze di pace per sostenerla, altrimenti è meglio lasciar perdere.
Un’ultima avvertenza è necessaria. Occorre che il nesso fra l’espansione dell’Isis in Libia e la soluzione politica della crisi libica sia inteso correttamente. Se, come in Siria, il problema dello “stato islamico” diverrà preminente nella percezione dei paesi oggi più interessati a dare una mano e condizionerà la soluzione al problema Libia, ci sarà un forte rischio di fallimento.
Roberto Aliboni è consigliere scientifico dello IAI.
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