Pace e stabilità sono da lungo tempo le priorità che la comunità internazionale ha identificato per la Somalia. L'obiettivo è primario soprattutto per un paese che da decenni è ostaggio di un conflitto che ha significativamente contribuito a qualificarlo come “stato fallito” a partire da quando, negli anni novanta, i primi interventi internazionali sono miseramente falliti.
Le elezioni del 2012 e l’approvazione del New Deal Compact nel 2013 hanno rilanciato il processo di pace e soprattutto la ricostruzione del paese,due processi che sono strettamente interconnessi.
Il 2015 sarà un anno cruciale per il processo di pace e ricostruzione con l’approvazione della nuova Costituzione, prevista per fine anno, ed i preparativi per le elezioni del 2016. Tuttavia, in tale contesto, sono ancora numerose le insidie che minacciano la risoluzione della questione somala.
Sicurezza ed estremismo Garantire la sicurezza nel paese costituisce uno dei punti cardine nel processo di stabilizzazione somalo. Il principale ostacolo verso il pieno raggiungimento di tale obiettivo è sicuramente Al-Shabaab, un gruppo terroristico affiliato ad Al-Qaeda che, pur essendo stato costretto ad indietreggiare a partire dal 2013, continua ad effettuare attacchi mirati contro le istituzioni somale ed i loro sostenitori internazionali.
Gli attacchi condotti tra il 2013 e l’inizio del 2015 in Kenya, nei confronti nella missione dell’Unione Africana, Amisom, e di alcuni hotel dove membri delle istituzioni e della polizia somala erano riuniti, dimostrano che la politica del gruppo terroristico è volta a delegittimare le istituzioni somale e a colpire chi le sostiene.
Eppure, rispetto ad altri gruppi terroristici, Al-Shabaab si caratterizza per la sua capacità di aderire ed utilizzare a proprio favore le caratteristiche della società somala, in primis le relazioni intra ed inter claniche. Il gruppo, infatti, ha dimostrato di sapersi ben adattare alla mutevolezza delle alleanze claniche, e di creare consenso grazie alla peculiarità di unire rivendicazioni nazionalistiche all’ideologia religiosa tipica del salafismo.
Nel tentativo di sconfiggere Al-Shabaab, la comunità internazionale si è principalmente concentrata sull’approccio militare, ma la battaglia che potrebbe davvero permettere di interrompere la scia di violenza sembra doversi combattere anche sul piano sociale, economico e politico, e ciò sia all’interno sia all’esterno del paese.
Tale battaglia potrà essere vinta solo offrendo ai somali delle reali alternative in termini economici, e favorendo l’implementazione di processi politici che siano inclusivi, capitalizzino le peculiarità della tradizione somala e che non vengano percepiti come contrastanti con i tratti culturali e religiosi propri del popolo somalo.
In tale ottica va anche letto il contributo militare di Kenya ed Etiopia ad Amisom. Se è infatti indubbio che la loro partecipazione ha permesso di infliggere dei duri colpi ad Al-Shabaab sul piano militare, non si dovrebbe dimenticare che i due paesi sono lontani dall’essere neutrali rispetto all’evoluzione del conflitto somalo.
Nello specifico, questioni territoriali irrisolte e considerazioni legate alla composizione culturale e religiosa dei due paesi potrebbero allargare, anziché ridurre, il consenso per Al-Shabaab, come baluardo dell’Islam e della cultura somala.
Inoltre, Al-Shabaab non è l’unica minaccia alla sicurezza del paese. La mancata inclusione dei caratteristici mutamenti di alleanze claniche nel processo politico del paese rappresenta un nodo cruciale, da affrontare con estrema attenzione se si vuole spezzare la spirale di violenza che ha mantenuto il paese in conflitto finora.
Sottovalutare questo aspetto significherebbe mettere un’ipoteca inestinguibile sul processo di pace e sul futuro del paese come dimostrano le difficoltà nella creazione di un’amministrazione nello Juba e gli scontri nello Shabelle meridionale e nel Gedo del 2014.
Costruire uno stato federale inclusivo La questione del federalismo somalo è un’altra sfida fondamentale del processo di stabilizzazione come delineato dal Compact approvato nel 2013.
Il Somali Compact Progress Report, presentato nel novembre 2014 al Forum di Copenhagen tra i partner internazionali e presieduto dalle Nazioni Unite e dal presidente del governo somalo, registra dei progressi nel dialogo tra il governo federale e le amministrazioni decentrate, in particolare la ripresa dei rapporti con il Puntland, interrotti nel 2013, e il dialogo con l’amministrazione ad-interim dello Juba.
Tuttavia, rimane irrisolta la questione dell’amministrazione delle regioni centrali, per cui il processo di formazione amministrativa sembra soffrire enormemente delle divisioni tra clan.
Inoltre, la questione del Somaliland, il quale beneficia di uno statuto particolare anche riguardo all’implementazione del Compact, pone dei seri interrogativi riguardo al suo ruolo all’interno della Somalia federale.
Inevitabilmente, il Somaliland potrebbe fungere da precedente ed alimentare ulteriormente le spinte autonomiste delle varie regioni da costituirsi in stati federati con una conseguente incertezza circa la ripartizione delle competenze all’interno dello stato federale, da approvarsi con la Costituzione a fine del 2015.
Tuttavia, una spinta positiva è da registrarsi grazie all’approvazione da parte di governo e parlamento della Commissione per i confini ed il federalismo, incaricata di valutare i confini degli stati (già esistenti o nascenti) e risolvere eventuali dispute territoriali.
Ancora una volta l’efficacia di tale misura dovrà essere valutata in base alla sua capacità di costituirsi come processo inclusivo, poiché nel precario equilibrio istituzionale somalo ignorare anche solo una delle voci potrebbe determinare innumerevoli passi indietro.
Rossella Marangio è dottoranda in Relazioni Internazionali nel programma ‘Politica, Diritti Umani e Sostenibilità” della Scuola Superiore Sant’Anna, Pisa. Precedentemente ha lavorato come assistente accademico al Collegio d’Europa ed ha svolto tirocini presso il Seae e la Rappresentanza Permanente d’Italia presso l’Ue. Ha una Laurea in Scienze Internazionali e Diplomatiche presso l’Università di Trieste ed un Master in Studi Europei Interdisciplinari presso il Collegio d’Europa.
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