Medio Oriente Egitto, rivoluzione religiosa ad usum delphini Paola Caridi 12/03/2015 |
Come se il Secondo Risveglio arabo si fosse condensato in una tempesta inattesa, dura, ma alla fine governata dai soliti abili nocchieri. I pilastri della pluridecennale strategia economica e geopolitica euro-americana nell’area.
Egitto e Arabia Saudita si riprendono il ruolo che era stato messo in forse nel 2011 e rispondono alle richieste pressanti dell’opinione pubblica statunitense ed europea, proponendo una riforma religiosa che blocchi l’estremismo. E dunque il terrorismo definito islamico.
Islam riformato
Da tempo, sia da Ryadh che soprattutto dal Cairo, sono stati lanciati messaggi preoccupanti e allo stesso tempo rassicuranti: la minaccia dell’autoproclamatosi “stato islamico” non è da sottovalutare ed è per questo che occorre incidere sull’educazione, sulla lettura dei sacri testi, sui programmi scolastici per evitare che i giovani vengano sviati e spinti verso l’estremismo.
Islam e sicurezza, in sostanza, debbono camminare assieme: anzi, è l’islam “riformato” che bloccherà il terrorismo, secondo una vulgata ormai diffusa.
Una lettura ripetuta anche - e non sembra un caso - in una conferenza di tre giorni della Lega Mondiale Musulmana tenutasi dal 22 febbraio alla Mecca, sotto l’egida della famiglia reale saudita. Protagonisti, appunto, studiosi e reali sauditi, assieme a Ahmed al-Tayeb, il grand imam della moschea di Al-Azhar al Cairo, la più prestigiosa istituzione culturale della tradizione sunnita.
Al-Sisi il nuovo Lutero?
Ora, la questione sta proprio nella “riforma” o nella “rivoluzione” religiosa che sarebbe già in corso nella regione araba, guidata da colui che è stato già definito come il Martin Lutero dell’Islam, il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi.
Un uomo che, in se stesso, dovrebbe mettere assieme due ruoli: il campione di un Islam moderato, pio e non violento, e allo stesso tempo il difensore in armi della civiltà contro lo “stato islamico”. Il Corano in una mano, e la spada nell’altra, stavolta - però - al servizio della civiltà.
È questa la realtà? Può Al-Sisi rappresentare veramente una riforma nell’interpretazione dei sacri testi tale da tagliare l’erba sotto i piedi del radicalismo retrivo del Califfato? I dubbi ci sono e non sono pochi.
Robert Springborg, uno dei più importanti studiosi dell'Egitto contemporaneo, aveva già anticipato nel maggio del 2014 quale sarebbe stato il nodo della presidenza di Abdel Fattah al-Sisi: il modo in cui avrebbe utilizzato la religione. "Al-Sisi si appoggerà molto di più sull'islam per legittimare il suo regime autocratico - scriveva Springborg in un articolo comparso su Foreign Affairs -, più di quanto abbia fatto credere agli osservatori egiziani e stranieri".
Così è stato. Al-Sisi ha subito indicato la cifra politica del regime egiziano (ri)nato con il coup del 3 luglio 2013, laddove il controllo del consenso e del conformismo religioso è parte integrante della strategia che ridisegna e consolida il sistema istituzionale ed economico di questo ultimo capitolo della repubblica egiziana.
Sulla scia dei presidenti che lo hanno preceduto, anche Al-Sisi ha infatti di nuovo contenuto Al-Azhar entro i limiti definiti già ai tempi di Gamal Abdel Nasser. È ancora oggi lo Stato a decidere chi guida Al-Azhar, ma artefice principale del rinnovato peso del centro sunnita nel periodo postrivoluzionario è proprio Al Tayyeb.
Al-Azhar e la nazionalizzazione dell’Islam
Abile nel conservare ad Al-Azhar l'abito della terzietà e nel controllare le spinte interne differenti dal suo sostanziale centrismo, Al-Tayyeb è stato sin da subito uno dei grandi sostenitori di Al-Sisi e ha consolidato Al-Azhar come lo strumento principe per la "nazionalizzazione" dell'Islam.
Di questa nazionalizzazione fanno parte diverse azioni intraprese da Al-Azhar e dagli organismi competenti dentro la macchina burocratica, prima fra tutte la stretta sugli imam, per rendere capillare il controllo della predicazione e diminuire il peso della Fratellanza musulmana.
Si tratta, in fondo, di una strategia che è tradizionale, nella storia repubblicana dell'Egitto. Il cambiamento sta, semmai, nella religiosità di Al-Sisi.
Proveniente da uno dei quartieri più importanti del Cairo, dal punto di vista della religiosità popolare, Al Sisi è portatore di un islam conservatore, più che moderato. E, molto di più dei suoi predecessori, non separa Cesare da Dio. Al contrario, intende dare a Cesare una funzione di guida - si passi il termine - teologica, che serva il raggiungimento di due obiettivi.
Uno interno, e cioè il controllo del consenso al regime attraverso l'incensamento della religiosità conservatrice della maggioranza silenziosa. Uno esterno: la costruzione dell'immagine di Al-Sisi come del Martin Lutero dell'islam sunnita.
Già sostenuta dalla macchina mediatica dei settori di destra statunitensi ed europei, questa idea serve a un paese che si attrezza a essere non solo l'avamposto contro l’autoproclamatosi “stato islamico” e i radicalismi violenti e armati, ma anche il difensore di una stabilità finanziata dalle potenze regionali del Golfo. Proprio quelle potenze regionali in cui vige una lettura tradizionalista, conservatrice e antiprogressista dell’Islam.
Paola Caridi è analista e scrittrice, autrice di “Gerusalemme senza Dio. Ritratto di una città crudele” (Feltrinelli 2013)
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