Le vicende libiche più recenti mostrano l’emergere di un equilibrio a vantaggio di Tobruk, del generale Khalifa Haftar e del presidente della Camera dei Rappresentanti Aqila Saleh e, per contro, uno sfaldamento progressivo del governo di accordo nazionale, Gan, di Fayez Serraj e delle forze che gli si sono raccolte intorno, più o meno islamiste.
In primavera, le milizie di Misurata postesi sotto l’autorità di Serraj hanno preso d’assalto Sirte per sloggiare l’autoproclamatosi “stato islamico”. Gli inviti di Serraj a Haftar di unire le forze sono rimasti inascoltati. Haftar ha lasciato che le milizie di Misurata si attardassero nell’assedio a Sirte in un’operazione che non ha un’influenza diretta sull’equilibrio politico-militare interno e ha invece occupato il suo tempo consolidando il controllo del territorio a Bengasi e nelle aree a oriente e a sud di Sirte.
Il successo di Misurata a Sirte, appena proclamato all’inizio di dicembre, è costato molto caro, tiene ancora bloccate le milizie a Sirte e le ha indebolite. In occasione dei tumulti causati a Tripoli dalle agitazioni contro il Gan promosse da Ghweil (il capo del vecchio parlamento islamista sostituito dal Gan), fu subito ventilata l’ipotesi di un intervento di queste milizie, ma fu anche subito dismessa in quanto queste non erano in grado di lasciare Sirte.
In questo quadro di debolezza militare a Tripoli, Haftar ha occupato la “mezzaluna petrolifera”, liquidando in poche battute le Guardie petrolifere di Ibrahim Jadran (alleate del Gane senza reazioni da parte di Tripoli di fronte a una mossa così strategicamente importate per l’equilibrio delle forze in Libia: le forze a Sirte di nuovo non si sono potute muovere, quelle stanziate a Tripoli, come che sia, non si sono mosse.
L’insospettato acume strategico di Haftar A queste dinamiche militari si è aggiunta un’azione politica. Haftar, non molto brillante fino a tutto il 2015, nel 2016 ha mostrato un insospettato acume strategico, sia lasciando - come abbiamo visto - che Misurata si logorasse contro lo “ stato islamico”, sia occupando i pozzi e scartando di assediare Tripoli o cercare un scontro diretto con le forze del Gan, sia mostrando una statura di statista quando ha lasciato che le risorse dei campi petroliferi conquistati andasse nelle tasche della Banca centrale invece che in quelle di Tobruk, sia tessendo una tela diplomatica non più solo con l’Egitto e gli Emirati Arabi Uniti, ma anche direttamente con la Russia.
Gli interessi russi dall’Egitto alla Libia sono ormai chiari. Mosca ha fornito armi ad Haftar (sembra per circa tre milairdidi dollari) e, nel complesso, si appresta a migliorare le infrastrutture e le risorse militari in Egitto con l’idea di prolungare l’azione in Libia (intanto si ha notizia della costruzione di una base militare a Marj, il quartier generale di Haftar, da parte degli Emirati Arabi Uniti).
Lo scontro non l’ha cercato Haftar e neppure le milizie di Misurata, bensì una milizia di islamisti estremisti formata da uomini dello Shura Council di Bengasi. Il 7 dicembre una forza di circa 600 uomini ha attaccato il presidio di Haftar nella mezzaluna petrolifera, con l’intento di strapparglielo e di aprire un corridoio verso Bengasi per aiutare le forze islamiste che ancora occupano una piccola frazione della città.
Questa forza è stata pienamente respinta, confermando l’equilibrio militare a favore di Haftar che oggi regna in Libia. Secondo voci insistenti, riportate dall’International Crisis Group, la sfortunata impresa verrebbe dagli ambienti del Ministro della Difesa di Serraj, Mehdi Barghati. Se questo fosse vero, sarebbe una vivida testimonianza della disgregazione del Gan e di una debolezza politica di Serraj che si aggiungerebbe a quella militare.
Il tramonto del governo di accordo nazionale In questo quadro, già da alcuni mesi il processo politico promosso dall’Onu e il Gan sembrano non essere più in grado di fornire la soluzione politica bilanciata che molti Paesi hanno sinceramente appoggiato (come l’Italia) e altri hanno appoggiato a New York, ma non in Libia (come la Francia e l’Egitto), contribuendo al fallimento dell’iniziativa.
Si moltiplicano le voci di un negoziato che comprenda anche Haftar e le forze di Tobruk. Vari accenni sono stati anche fatti dal ministro ( ora premier) Paolo Gentiloni. Ma su quali basi impostare un negoziato con Haftar? Serraj ci ha già provato senza risultati e del resto con le sue evidenti debolezze non poteva certo convincere Haftar. In effetti, nel momento in cui la dinamica dell’equilibrio politico-militare è favorevole ad Haftar - come si è già visto in Libia e in Siria - non è detto che egli voglia trattare. I nodi della trattativa sono essenzialmente due: la frammentazione delle forze sul territorio e il ruolo degli islamisti.
Riprendere il discorso dove lo ha lasciato re Idris Per aggirare la frammentazione delle forze si dovrebbe prefigurare un’articolazione territoriale del Paese che lasci loro una misura di autonomia. Non si tratta assolutamente della partizione della Libia - che del resto l’impostazione nazionalista di Haftar non accetterebbe - ma di riprendere il disegno del compromesso federalista o confederalista che le diverse tendenze libiche avevano accettato negli anni ‘50 all’epoca della formazione dello stato unitario affidandone la realizzazione a re Idriss come super partes. Quest’ultimo però non mantenne la promessa e ne sono seguiti decenni di infelice repressione e minorità politica della Libia.
Perché quel disegno sia fattibile è anche necessario che le componenti islamiste moderate si decidano a distanziarsi da quelle estreme come hanno fatti Fratelli Mussulmani in Tunisia. Se lo faranno, ci sarà una possibilità di stabilire un equilibrio accettabile e costituire sotto un governo di unità nazionale una convivenza di tendenze politiche diverse. Se non lo faranno la guerra civile potrebbe riprendere, stavolta probabilmente con la Russia a gestire la crisi.
Roberto Aliboni è consigliere scientifico dello IAI.
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