Medio Oriente Grazie al Califfo, in Egitto arrivano gli Apache Azzurra Meringolo 26/10/2014 |
Certo, non si può dire che ci siano volati, visto che il Cairo li sta aspettando da più di un anno. Infatti, fanno parte di quei 1.3 miliardi di dollari che Washington fa arrivare ogni anno nelle tasche dell’esercito egiziano.
L’intervento con il quale i militari egiziani sono tornati al potere nel luglio 2013 aveva però messo sulle difensive la Casa Bianca.
Quando il 14 agosto 2013 l’amministrazione Obama ha visto le immagini dello sgombero del sit-in islamista di Rabaa Al-Adawya - episodio nel quale sono morti almeno 900 manifestanti - ha infine deciso di congelare l’intero pacchetto di aiuti che comprende anche 125 carrarmati, venti F16 e altrettanti missili Harpon.
L’Egitto nella lotta globale al terrorismo
Con tale mossa gli Stati Uniti hanno cercato di condizionare l’invio di quest’arsenale allo sviluppo democratico del paese. Ciononostante, gli Apache - più volte annunciati, ma mai atterrati - arriveranno lungo il Nilo in un momento il cui il paese è attraversato da un’ondata di scontri all’interno delle principali università.
A questa si somma il crescente controllo dello spazio pubblico di cui, soprattutto dal 2011, cercano, invano, di impossessarsi in primis i giovani.
Se da un lato la consegna degli Apache mette a nudo il fallimento del tentativo Usa di promozione democratica, dall’altro mostra l’abilità politica del nuovo presidente Abdel Fattah Al-Sisi.
L’ex generale, che da giugno guida ufficialmente il paese, sta infatti riuscendo a sfruttare al meglio il dossier della lotta all’autoproclamatosi “stato islamico”, inserendo l’Egitto nella lista dei paesi minacciati dall’avanzata dei terroristi, poco importa se siano quelli che si ispirano al Califfo o quelli che crescono in casa.
Il prezzo dell’adesione egiziana alla coalizione anti Califfo
Dello sblocco degli Apache si è iniziato nuovamente a parlare proprio durante la riunione convocata, l’11 settembre scorso dagli Stati Uniti a Gedda per esaminare le modalità attraverso le quali combattere lo stato islamico.
Per la Casa Bianca era importantissima la partecipazione dell’Egitto nella coalizione, dove è concentrata la maggioranza della popolazione musulmana sunnita nell’area nord africana e sede di Al-Azhar, la massima autorità di questa compagine dell’Islam.
Sisi non ci ha pensato due volte ad alzare il prezzo dell’adesione alla nuova coalizione dei volenterosi. Oltre a esigere una serie di severe misure contro i Fratelli Musulmani in Qatar, il presidente ha chiesto lo sblocco degli Apache e un nuovo approccio degli Stati Uniti riguardo al dossier libico.
Mentre Washington, sempre più defilato da Tripoli, sponsorizza un dialogo che includa tutte le fazioni presenti nel paese, l’Egitto non vuole che gli islamisti partecipino ad alcun negoziato. Da mesi il Cairo ha infatti trovato nel general Khalifa Hiftar il suo interlocutore ideale, sostenendo, almeno logisticamente, la sua “Operazione Dignità” contro islamisti e “terroristi”.
Quando Sisi ha chiesto agli Usa di fare arrivare gli Apache nel Sinai - dove il presidente egiziano ha promesso di impiegarli nell’attuale campagna anti-terrorismo - il segretario di Stato Usa John Kerry non se l’è sentita di insistere sul blocco, considerando anche il ruolo che il Cairo gioca nelle negoziazioni tra israeliani e palestinesi.
A convincere Obama a sbloccare l’invio di questi elicotteri ha contribuito anche lo spauracchio del ritorno dell’influenza russa lungo il Nilo. A settembre, Mosca ha concluso con il Cairo un accordo di circa 3,5 miliardi di dollari che riguarda proprio l’arsenale militare.
Gli Usa non riescono a promuovere la democrazia egiziana
L’approccio inizialmente frontista degli Stati Uniti contro la deriva autoritaria egiziana ha lasciato in fretta spazio a un atteggiamento più soft. Diversi sono i motivi che hanno contribuito al fallimento della promozione democratica.
L’intervento militare del luglio 2013 è stato sostenuto non solo da milioni di egiziani (scesi in strada per chiedere elezioni anticipate non la sostituzione del presidente islamista Mohammed Morsi con un leader militare), ma anche dai generosissimi finanziatori del Golfo, - Qatar escluso - che continuano a essere il salvagente economico del paese, riducendo la sua dipendenza da altre potenze internazionali.
Inoltre, come di tradizione, il nuovo regime ha usato l’anti-americanismo come uno strumento di battaglia politica per screditare il messaggio proveniente da Washington.
Per ottenere risultati più concreti, la Casa Bianca avrebbe potuto inviare messaggi più duri, congelando altri privilegi - anche finanziari - riservati al Cairo e sospendendo, ad esempio, le operazioni di manutenzione delle forniture militari statunitensi, importantissime per l’attività quotidiana dell’esercito.
L'amministrazione statunitense avrebbe potuto decidere di bloccare le visite ad alto livello . Quando, poche settimane dopo la sospensione degli aiuti, Kerry è atterrato al Cairo, è stato chiaro che la Casa Bianca non era pronta a battersi veramente per la partita democratica egiziana. Washington si è così visibilmente incartato nella tormentata transizione egiziana.
A mostrarlo è anche un’ironica coincidenza: gli Apache, simbolo dell’assistenza Usa all’esercito egiziano, arrivano nel momento in cui lo staff del centro Carter chiude i suoi uffici lungo il Nilo.
L’organizzazione che tre anni fa aprì la sua sede egiziana per monitorare la transizione democratica, ha infatti denunciato restrizioni e violazioni di importanti diritti umani.
Azzurra Meringolo è ricercatrice presso lo IAI e caporedattrice di Affarinternazionali. Coordinatrice scientifica di Arab Media Report. Potete seguirla sul suo blog e su twitter a @ragazzitahrir.
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